Il mix di powerviolence ultra-violento, doom-noise stratificato e densissimo, grind e post-rock etereo e sfuggente proposto dai californiani Children Of God è di quelli che difficilmente passano inosservati. A distanza di mesi dalla pubblicazione del loro debut album, lo splendido “We Set Fire to the Sky”, siamo ancora scossi e turbati dalla sublime fattura, dall’intensità emotiva e dalla ricercatezza stilistica che la band è riuscita a materializzare e trasmettere in quel lavoro, un album che rappresenta uno degli apici dell’hardcore evoluto a marchio 2013. Non abbiamo potuto dunque resistere alla tentazione di raggiungere la band in California per chiedere delucidazioni su come è nata e funziona questa formazione dal sound particolarissimo che ha pubblicato un lavoro emotivamente spossante e sonicamente titanico in ogni suo aspetto. Ci ha risposto Adrian Castillo, fondatore, chitarrista e vocalist, un giovanissimo ragazzo ispanico che ha scelto la musica e il metal, e il punk in particolare, come oggetto catartico, come sommo sfogo per alleviare il peso di un’esistenza su questo pianeta che a volte pare soffocante…
CIAO ADRIAN, CI INTRODUCI LA BAND? COME SONO NATI I CHILDREN OF GOD?
“Ciao. La band è nata dalle ceneri delle nostre band precedenti. Sina, il nostro batterista, e io abbiamo dato vita al gruppo. Abbiamo cominciato come duo, scrivendo tutto da soli e abbiamo registrato il primo demo in due agli Earth Capital studios di Los Angeles. Conoscevo Shaun, l’altro chitarrista, da quando eravamo bambini. Gli ho chiesto se si voleva unire a noi poiché per tutta la nostra vita abbiamo ascoltato la stessa musica e condiviso le stesse esperienze musicali e, come prevedibile, ha accettato subito di unirsi a noi. Il ruolo di bassista invece in questa band è sempre stato problematico e ci sono sempre stati un sacco di cambi. Per un periodo il nostro amico Alex (il sound engineer dei primi demo e di ‘Coup de Grace’) ha suonato le parti di basso, poi il nostro amico Kevin per un po’ e anche un altro nostro amico, Traz. Attualmente la lineup è composta da me, Kevin, Shaun e Sina”.
COME SIETE DIVENUTI MUSICISTI? COSA VI HA SPINTI IN PRINCIPIO A PRENDERE IN MANO I VOSTRI STRUMENTI E COSA VI HA INFLUENZATI?
“Parlo per me, ovviamente. La musica è sempre stata uno sfogo per me, specialmente quando ero ragazzino. Volevo essere un batterista ma la batteria era troppo cara e rumorosa, per i miei genitori, per cui non ho mai avuto la possibilità di possederne una. Mio padre però lavorava in una scuola e un giorno venne a sapere che la banda della scuola si stava disfacendo di vecchi strumenti. Salvò una chitarra dalla pattumiera e me la portò a casa. Non la toccai per oltre due anni, ma poi intorno al mio tredicesimo compleanno cominciai ad essere attratto dallo strumento e cominciai a strimpellarlo. In quel periodo ero appassionato di band come Slayer, Metallica e Black Sabbath, e sono state queste band a invogliarmi a suonare. La prima cosa che ho imparato a suonare è stato il riff principale di ‘Iron Man’ e da allora ho cominciato a cercare in giro tablature da imparare. Però devo dire che la band che mi ha fatto fare il vero salto come chitarrista sono stati i Misfits. E’ stato imparare quelle canzoni che mi ha introdotto alla potenza del punk rock. Io e Shaun siamo stati in band insieme più o meno da allora, da quando avevamo all’incirca quindici anni. Alcune di quelle band erano davvero pessime e troppo imbarazzanti da menzionare. La prima band in cui abbiamo militato di cui siamo fieri erano i 7 Generations, una band intensa, che mi ha portato in tour per la prima volta e insegnato lo spirito di sacrificio che subentra quando un progetto diventa serio e veicola passione. Per quanto riguarda le mie influenze, sono le stesse di ogni altro chitarrista che suona musica heavy, credo: AC/DC, Sabbath, Zeppelin, Hendrix, Metallica, Slayer, Anthrax, Nirvana, Misfits e Unbroken”.
IL NOME “CHILDREN OF GOD”, SE NON SBAGLIO, DERIVA DAL NOME DI UNA SETTA DI LOS ANGELES BALZATA AGLI ANNALI DELLA CRONACA UNA DECINA DI ANNI FA, GIUSTO?
“Sì, esatto, erano una setta religiosa di Huntington Beach che attirò parecchia attenzione, come spesso fanno tutte le sette estremiste, per dei comportamenti non proprio ortodossi nei confronti dei loro adepti inconsapevoli. Mi piaceva il nome in quanto il concetto di qualcosa di spirituale e sacro perennemente rovinato dalla natura malvagia dell’uomo è qualcosa che mi ha sempre affascinato. Anche il titolo del famoso album degli Swans ha giocato un ruolo fondamentale in questa scelta, anche se per altri motivi ovviamente”.
SICCOME TU SEI ANCHE IL VOCALIST DELLA BAND PUOI DIRCI DI COSA PARLANO I TESTI DELLE VOSTRE CANZONI?
“Sì, i testi li scrivo io. Non ci sono temi più ampi che vengono trattati ma concetti sporadici che mi balzano alla mente in sprazzi improvvisi e che generano catarsi. A volte la musica e i testi non sono neanche coerenti fra loro, ma il bello alla fine è anche questo, il contrasto e l’ambiguità. E’ il bello di mettere su carta sentimenti contrastanti e contrastanti che vivono dentro di me”.
COME AVETE SVILUPPATO QUESTA PERSONALISSIMA PROPOSTA DI POWERVIOLENCE, DOOM E POST-ROCK?
“Ero molto incazzato quando è nata la band e sono nati i primi riff della band. Scrissi tutto io allora poiché eravamo semplicemente in due. La nostra musica alla fine non è null’altro che emozioni trasmesse in suono tramite le note che suoniamo. Ci sono vari umori dentro di noi, per cui anche musicalmente questi si esprimono un maniera eterogenea e molto variegata. Credo sia nata così la formula che suoniamo…”.
COS’ALTRO CERCATE DI ESPRIMERE CON LA VOSTRA MUSICA?
“Si parte sempre dalle emozioni, come ti dicevo. Il nostro primo materiale trattava cose e persone nello specifico, ma ora la faccenda si è fatta ben più astratta, a volte coerente, a volte meno, ma l’obiettivo primario è svuotarci la testa per non soffocare sotto il peso delle nostre stesse emozioni inespresse”.
COM’E’ NATO “WE SET FIRE TO THE SKY” PER QUANTO RIGUARDA IL SONGWRITING?
“E’ stato un disco facile da comporre ed eseguire. Molto naturale e spontaneo. Ogni canzone è nata seguendo un istinto naturale e affatto forzato. Si scriveva quando si aveva voglia, senza pressioni o preoccupazioni. Questa band non è un lavoro, ma un valvola di sfogo e va usata come tale, ovvero quando serve. Addirittura le canzoni sono nate in momenti di solitudine e quando la band si riuniva poco. Poi quando ci incontravamo, c’era tanto materiale inespresso da elaborare e smaltire. Alla fine noi abbiamo tutti i nostri lavori, alcuni vanno a scuola, e in generale la vita di tutti i giorni crea dei presupposti permanenti per avere sempre la necessità di uno sfogo di qualche tipo, e quello sfogo per noi è questa band. Il disco è stato autoprodotto e pubblicato da noi stessi negli USA, perché questo è ciò che volevo. Volevo io stesso supervisionare il processo di creazione dell’artwork e far sì che il disco fosse stampato e distribuito in un certo modo, e da noi stessi. Volevamo controllo totale su tutto il disco e non lasciare alcun aspetto della sua pubblicazione a terzi. L’idea di una qualche entità che avrebbe guadagnato soldi dal nostro lavoro ci infastidiva. In questo senso posso confermare con orgoglio che il disco mi ha soddisfatto in pieno poiché non è mai sfuggito al mio diretto controllo”.
“WE SET FIRE TO THE SKY”, COME MAI QUESTO TITOLO?
“Il titolo è un riferimento a nuovi inizi e al ricominciare da capo. Il bruciare tutto ciò che ci circonda e sovrasta per avviare una fase nuova e ricominciare da zero, spesso per ottenere salvezza e speranza… sia che si creda in un dio soltanto, in multiple divinità o nel cosmo, alla fine nulla cambia la realtà delle cose, ovvero che siamo qua, abbiamo questa vita ed esistiamo, esseri discernibili dal resto, intrappolati un un involucro di pelle. Il titolo parla di questo isolamento che viviamo, della terra bruciata che spesso ci facciamo attorno per enfatizzare ancor di più la nostra esistenza per sentirci vivi e crescere tramite essa”.
VOI SIETE UN’ALTRO ESEMPIO DI BAND CHE HA SCELTO LA COMPONENTE VISUALE DA ACCOMPAGNARE ALLA VOSTRA MUSICA IN SEDE LIVE. OGNI BAND HA I SUOI MOTIVI PER FARE QUESTA SCELTA, I VOSTRI QUALI SONO?
“Io ho sempre amato le band che incorporano le visuals nella loro musica in sede live. Mi piace la sensazione del suonare con immagini che si muovono e vivono alla mie spalle enfatizzando e completando la mia musica. Voglio che la musica sia minacciosa e affascinante allo stesso tempo. Voglio che l’eterno dualismo dell’esistenza – male e bene – conviva nella nostra musica. Le immagini danno alla musica un ulteriore strato di significato. Voglio iniziare a creare le visuals da solo invece di affidarmi a terzi ed è una cosa che farò molto presto. Voglio che la band diventi la colonna sonora ad un nostro personale film”.
I VOSTRI LIVE SHOW SONO CONOSCIUTI PER ESSERE MOLTO BREVI, MA MOLTO DIRETTI E SCHIETTI. COME VEDI LA SFERA LIVE NEL MONDO DI QUESTA BAND?
“Alla fine di tutto noi siamo una band hardcore, punto. Veniamo tutti dal mondo del punk. L’immediatezza è dunque essenziale nel nostro mondo. Secondo me se una band non riesce a completare il proprio processo comunicativo e a veicolare un concetto completo e conciso in venticinque minuti o meno, allora vuol dire che ci sono problemi a livello comunicativo nella musica. Oltretutto noi siamo una band piccola, con pochi fan, se così si possono definire, non siamo rockstar, non riempiamo gli stadi. Lasciamo gli show da quarantacinque minuti e passa a quelle band là”.
CI SONO BAND CHE STAI APPREZZANDO IN PARTICOLAR MODO IN QUESTO MOMENTO E CHE PENSI MERITINO UNA MENZIONE?
“I Braveyoung. Non te li descriverò neanche, semplicemente ascoltateli, la loro musica parla da sé”.
LA ZONA DI LOS ANGELES NON E’ ESATTAMENTE NOTA PER AVERE UNA FAMOSA SCENA HARDCORE, GRIND E POWERVIOLENCE. COME CREDI VI ABBIA INFLUENZATO LA VOSTRA ZONA GEOGRAFICA DI ORIGINE?
“Mah, noi per la verità siamo di Orange County, fuori dalla zona metropolitana di Los Angeles. Siamo l’unica band che conosciamo che suoni roba simile nella zona. In effetti manchiamo completamente di una scena di appartenenza o di un ambito di rifermento. Non c’è nulla per cui valga la pena suonare questa roba qua dove viviamo noi, se non dentro di noi. Non c’è una ‘casa’ per la nostra musica qui, la band è sola, una cosa completamente a sé. Il motivo credo sia lo stesso di cui ti parlavo sopra: ci serviva una valvola di sfogo e si è materializzata tramite qualcosa che nella zona non esisteva”.
QUAL E’ STATO SECONDO TE FIN’ORA IL CULMINE NELLA CARRIERA DELLA BAND E QUALI DESIDERI HAI PER IL SUO FUTURO?
“Realizzare quel primo demo è stato senza ombra di dubbio il momento più alto e di cui andiamo più fieri nella storia di questa band. Avere consapevolezza che anche ad una sola persona la nostra musica è piaciuta è stato un altro momento enorme nella nostra storia, e credo debba essere così per ogni gruppo. Noi non ci prefiggiamo mai obiettivi, ma piuttosto cerchiamo di crearci opportunità. E’ una cosa ben diversa. Ci sentiamo fortunati di poter fare ciò che amiamo e che qualcuno apprezzi. Per quando riguarda i desideri futuri, credo che chiunque suoni musica e nega che non gli interesserebbe essere pagato per suonare e mantenersi tramite essa sia un gran bugiardo. Chiunque ha una chitarra in mano ha questo sogno, e anche io ovviamente nutro questo sogno. Ma non ho fretta, suono perché ne ho bisogno, per dare un equilibrio alla mia vita, non perché sia un hobby. Per me è una cosa seria, non un passatempo. Ecco cosa separa gli artisti dai musicisti, secondo me”.
AVETE SCRITTO NUOVI BRANI DA QUANDO E’ USCITO “WE SET FIRE TO THE SKY”? SE SI’, COME SUONA E DOVE CREDI SIATE DIRETTI MUSICALMENTE?
“Sì, c’è nuova musica che nasce in continuazione. Suona come noi, non ci sono stravolgimenti, ma allo stesso tempo la nuova musica è andata un po’ oltre e si sente che osa di più. Non sappiamo come sarà nella sua forma compiuta, quello lo scopriamo assieme a voi quando la musica viene pubblicata al mondo”.
GRAZIE ADRIAN, ALTRO DA AGGIUNGERE?
“Grazie infinite per l’attenzione, grazie a chiunque abbia comprato il disco. Grazie a chiunque si sia mai interessato alla nostra musica, in qualunque modo”.