In tempo di quarantena abbiamo avuto modo di fare quattro chiacchiere con Justin Graeves, il mastermind dietro il progetto dei Crippled Black Phoenix, usciti da poco con il loro nuovo “Ellengaest”. L’album risulta pieno di collaborazioni con quelli che sono gli amici della band, ex membri e persone esterne che i naturali rapporti relazionali hanno portato a lavorare con la band a queste canzoni, in una maniera determinante ma slegata da codici di marketing o di facciata. Il disco, infatti, suona eccezionalmente coeso e suggella una maturazione effettiva del sound dei Crippled Black Phoenix. Non tanto in termini di sperimentalità o di ‘eccezionalità’, ma in favore di una attitudine quasi naturale, comunque diversa da quella di “The Great Escape”. Graeves prova a spiegarci cosa si cela dietro questo spirito, che ha dentro un po’ di contraddizioni, di rock, di Bauhaus, di folk e di un modo di fare musica lontano dagli schemi prefissati, dai generi d’appartenenza e dalle etichette posticce che possono portare fuori strada. E che, in periodi come questo, possa dimostrare quanto i sistemi – se fallaci – debbano essere infranti e superati.
VOLEVO INIZIARE RIFERENDOMI AD UNA COSA CHE HAI DETTO: “UNA COSA CHE NON FAREMO MAI E’ STARE ALLE REGOLE”. CHE COSTA INTENDI, TU, DUNQUE, CON ‘REGOLE’? SONO REGOLE DI ETICHETTA, DI GENERE, DI MUSIC BUSINESS?
– Oh, mio Dio. Questa è dura. Posso parlare personalmente, ma anche per la band, tutto sommato, e ti direi che in realtà non ci sono molte regole che diventano per me – e per noi – troppo opprimenti. E non lo devono nemmeno diventare. Non è questa la musica che vogliamo rappresenti chi siamo. Voglio dire, ho ad esempio un enorme rispetto per Michael di Season Of Mist, il label manager, e in questi tempi capisco non sia facile gestire il music business. E lo fa molto bene. Lui è il business. Ma io, beh.. io non sono comunque d’accordo con il music business in sé (ride, ndr). Penso effettivamente che la frase a cui ti riferisci avesse un senso di natura creativa, artistica. Non vedo – almeno per quanto riguarda la nostra musica – alternativa in questo senso. Non mi interessa essere un session musician, stare a certe regole.
VENIAMO AL VOSTRO NUOVO DISCO. ELLENGÆST: LO SPIRITO ANTICO BENEVOLO, MA ANCHE, IN INGLESE ANTICO, IL DEMONE TRADITORE. QUESTA DUALITÀ ESISTE ANCHE IN TERMINI RAPPRESENTATIVI DI QUESTO TUO NUOVO LAVORO…
– Queste connotazione è parte fondante del lavoro. Un po’ tutta la letteratura scandinava gioca in questo senso, pensa al “Beowulf”. Però si, la traduzione più opportuna è quella dell’inglese antico, e si intende lo spirito, tenendo l’ambivalenza dei contrari. Anche l’immaginario del disco si lega a questa connotazione.
IL PROCESSO DI REGISTRAZIONE DELL’ALBUM LO RENDE SPECIALE IN QUALCHE MODO? QUESTA NECESSITÀ DI TROVARE QUALCUNO CHE SOPPERISSE AL RUOLO DI ‘MALE SINGER’ COME HA GIOCATO IL SUO RUOLO IN TERMINI DI PRODUZIONE?
– È che avevamo del materiale che è quasi venuto fuori da sé con questa specifica formazione (Belinda Kordic, Helen Stanley, Andy Taylor, ndr) e a questa si è perfettamente aggiunto Ben Wilsker e Rob Al-Issa. Penso che il modo in cui abbiamo registrato questo disco non lo renda, però, diverso da quelli precedenti. Si, in realtà abbiamo avuto un brutto tempismo in fatto di line-up. Ma trovandoci in studio abbiamo visto che le cose funzionavano bene. Intendo bene davvero. E quindi abbiamo pensato che, tutto sommato, siamo pieni di amici e l’opportunità che loro potessero contribuire al disco è saltata fuori naturalmente, senza alcun tipo di pianificazione. Non avevamo le voci maschili e questo ci ha fatto contattare qualche amico, tutto qui. Però hai già capito che non si tratta di un fatto di marketing (ride, ndr). Se no mi contraddirei da solo. E’ stato un processo speciale stare con tutte queste persone.
VENIAMO ALLA MUSICA, DUNQUE. HO AVUTO L’IMPRESSIONE CHE QUESTO DISCO SIA MOLTO PIU’ DIRETTO, IMMEDIATO, IN UN CERTO SENSO, RISPETTO, AD ESEMPIO, A “THE GREAT ESCAPE”. È STATA UNA VISIONE VOLUTA O E’ STATO DEL TUTTO NATURALE MUOVERSI IN QUELLA DIREZIONE? CI SONO DELLE SOMIGLIANZE, ANCHE, SOPRATTUTTO IN “THE INVISIBLE PAST”, CHE È UN PO’ LA VOSTRA SUITE PER ECCELLENZA.
– Come dici tu il pezzo “The Invisible Past” è una traccia lunga ed è sicuramente legata ad un certo passato. Si lega particolarmente al 2004, c’è sempre questa red flag che si collega nelle nostre trame, una sorta di motivo ricorrente, di parallelismo. E quindi da qui ti posso dire che in tutti i nostri dischi c’è una sorta di continuità naturale, non per forza ricercata. Voglio dire, ci possono essere differenti circostanze, eventi, onestà diverse, musicisti diversi, ma quello che scrivo non lo trovo molto diverso, almeno personalmente. Però capisco cosa vuoi dire, sicuramente è più breve, più compatto, meno divagatorio, forse, hai ragione. Ad essere onesto, però, non ti saprei rispondere personalmente riguardo al rapporto tra i nostri dischi. Mi spiace. Anzi, cerco di non farlo. Quando abbiamo scritto “The Great Escape” non pensavo a cosa sarebbe venuto fuori e anche qui con “Ellengæst” ho semplicemente seguito il flusso. Ci sono state tre canzoni in più, magari finiranno in un EP, forse anche quest’anno, non lo so ancora; una seconda parte del lavoro, insomma.
IN REALTÀ, PERO’, IL FINALE NON È “IN THE INVISIBLE PAST”. ED È UN PO’ STRANO TROVARSI UN PEZZO COME LA COVER DEI BAUHAUS DOPO UN PEZZO COSI’ LUNGO E ATMOSFERICO. SULLA STRUTTURA DEL FINALE COSA CI PUOI DIRE? MI SEMBRA UNA SORTA DI ENCORE, COME SUL PALCO.
– Potevamo tenere “She’s In Parties” come bonus track, ci abbiamo pensato. Ma sai, in questi tempi, la questione della struttura, con una fruizione della musica talmente diversa, non penso funzioni molto. Addirittura mi è sembrato un po’ pretenzioso mettere una bonus track, non ne capisco veramente il senso, oggi. “Invisible Past” è probabilmente immersiva, un vero climax, e poi… Massì, perché no? Mettiamoci la cover dei Bauhaus, come dici tu, come se fosse un encore dal vivo. Se poi ci pensi non poteva finire altrimenti. E ancora: sarebbe stato troppo scontato finire sempre col grande climax. Per me va bene così, non ci ho pensato molto. Mi sembrava potesse funzionare e l’abbiamo piazzata lì. Un po’ come tutto il resto… è venuto naturalmente.
QUALE PENSI SIA, DUNQUE, L’ASPETTO PECULIARE DI “ELLENGAEST” NELLA TUA DISCOGRAFIA? OLTRE ALLE PARTICOLARI CONNESSIONI CHE AVETE TROVATO IN STUDIO.
– Beh, è difficile. Faccio il mio meglio per risponderti. Per esempio “No Sadness Or Farewell”, una delle mie cose preferite, non era così lontano da questo. Non era particolarmente eccentrico o peculiare, ma non è molto lungo, ci sono cantanti diversi, e come dicevo non voglio ripetere canzoni troppo spesso, così immagino possa risultare diverso dagli album successivi. Il fatto dei guest rende questo nuovo lavoro ancora diverso, potrebbe solo per questo essere uno stand alone. Come hai detto prima “The Great Escape” era più immersivo, lungo, atmosferico, ma questo funziona, ed è bello fare cose diverse, anche se ci sono meno progressioni.
SIAMO UN PORTALE HEAVY METAL E VORREI CHIEDERTI QUALE È LA CONNESSIONE CHE OGGI TU HAI CON LA MUSICA VIOLENTA, ESTREMA, DISTORTA. NON SOLO PERCHÈ HAI TIRATO DENTRO IL LAVORO ANCHE GAAHL…
– Beh, sai, noi non siamo una band heavy metal. E’ sempre una sorpresa per noi ritrovarci una community metal che ci ascolta e magari ci apprezza. E’ sicuramente appagante e gratificante, specialmente quando accade con coloro più legati al black metal in particolare. Non voglio certo mancare di rispetto a nessuno o sottostimare nulla, e neanche dire che non ne voglio fare parte, non mi permetterei di farlo, ma è il termine heavy che non riesco a connettere alla mia musica. Penso che sia quasi un insulto per le band metal se noi fossimo catalogati come loro stesse (ride, ndr). Abbiamo suonato al Roadburn, al Damnation, al Summer Breeze ed è sempre bello, ma è anche sempre una sorpresa, anche perché a volte ci troviamo in festival folk. In Norvegia siamo stati inseriti in circuiti di musica elettronica, addirittura. Ti assicuro che una delle cose più gratificanti è avere una schiera così eterogenea di persone che ci ascoltano. E sono onorato di questo. Però, ecco, non siamo i Mastodon. Ci troviamo un po’ tra le crepe di molti generi. E questo non penso voglia dire denigrare nulla. Hai menzionato Gaahl: è stato chiamato perché è un amico, per Vinnie (Cavagnagh, ndr) e per gli altri. In questo senso non ci sono stati, come ti dicevo, tentativi di connessione dovuti o forzati.
DOMANDA SUI TEMPI CHE CAMBIANO, VISTO IL PERIODO: COSA È CAMBIATO NELLA TUA IDEA DI MUSICA? O COME PENSI CHE L’ARTE POSSA ESSERE STATA COLPITA DA QUESTO CAMBIAMENTO? SAI, SIAMO QUI IN QUARANTENA: I MUSEI SON CHIUSI, I CONCERTI SI SON FERMATI, PENSI CHE L’IDEA DELL’ARTISTA CHE PORTI AVANTI LA PROPRIA ARTE POSSA ESSERE CAMBIATA?
– Perdonami ma non posso risultare molto positivo a riguardo. Essere un musicista oggi – o in qualunque tipo di lavoro creativo artisticamente – è avvicinarsi di molti passi al servilismo. Ed è quasi naturale che un sistema cosa debba prima o poi collassare. Sai, io non so da voi in Italia, ma qui nel Regno Unito essere un musicista non è considerata una vera e propria carriera, a meno che tu non punti solamente all’intrattenimento. E quelli che ci riescono entrano in circuiti dedicati solo a quello. Non sto dicendo che non si debba vendere, sia chiaro. Tempo fa ero al college e facevo dei disegni a penna e a matita e provavo a vederli perché comunque mi servivano dei soldi. E ora naturalmente servono per pagare le bollette. La band è un lavoro a tempo pieno, certamente, ed è giusto e naturale – se vuoi essere creativo e fare qualcosa di buono – che sia così. Immaginati che un lavoro a tempo pieno non venga pagato: non è giusto, non dovrebbe funzionare così. Adesso ci dicono che le band devono suonare gratis per supportare l’industria musicale. Beh, scusa, ma non credo debba essere così. Dovrebbe anzi essere il contrario. Fanculo l’industria musicale, sono gli artisti che hanno bisogno di supporto e di empatia. Fare un lavoro creativo e pensare ad una carriera in questo senso non dovrebbe essere diverso che fare l’idraulico o il meccanico. Sono tutti modi di andare avanti con la vita attraverso il lavoro. Spotify, Deezer, AppleMusic, tutto ciò contribuisce ancora ai miliardi che l’industria musicale produce sulle spalle degli artisti. In questo sistema le band e gli artisti sono solo condannati a fare più canzoni per poter stare al passo con tutto questo. Fare più album per fare più soldi, il concetto è chiaro. Non voglio essere ipocrita: anche la mia musica è su Spotify, ma non per mia scelta. Penso che tutto questo debba essere ricondotto all’arte e agli artisti, non ai meri profitti. Ci sono situazioni indipendenti come Season Of Mist, che sono anche commercialmente fortunate, che stanno in piedi alla grande senza dimenticare di produrre belle cose, artisticamente valide. Trovo non si debba supportare i sistemi, ma le etichette, le band, le persone che stanno dietro questo lavoro. La grande Live Nation vuole che gli artisti prendano meno per potere sopravvivere come industria. Fanculo a quei bastardi. Sono dei pirati, dei saccheggiatori del sistema. Si torni al local promoter che fa un evento interessante con una band interessante: farebbe i soldi lui e la band, se la situazione tornasse libera da quegli squali. Voglio essere libero di dire queste cose, e parlo dal mio punto di vista ora, non di quello della band.
SUPPONGO CHE TUTTE LE BAND POSSANO ESSERE D’ACCORDO CON TE, SOPRATTUTTO IN QUESTO PERIODO. E PERSONALMENTE CREDO SI DEBBA PARLARE DI QUESTE COSE.
– Guarda, io credo che tutti possano essere liberi di pensarla a proprio modo. Non sarò certo io ad andare a dire di non uccidere le balene, o di scrivere sui social a qualcuno che è un segaiolo fascista. Non mi aspetto quindi nessuno mi dica come pensare o cosa fare del mio lavoro. Non chiedo a nessuno di pensarla come me, o di pensare per me. Ma guarda i fatti, fai delle ricerche su cosa stai facendo, se quello che porti avanti possa danneggiare il mondo in qualsiasi modo, devi essere responsabile di quello che fai e pensi. Non essere uno stronzo.