DEEP PURPLE – Alla velocità della luce, per fermare il tempo

Pubblicato il 20/08/2020 da

Sono passati cinquantadue anni dalla pubblicazione di “Shades Of Deep Purple”, eppure lan Gillan e compagni sono ancora qui, freschi della pubblicazione di “Whoosh!”, ventunesimo capitolo in studio per una formazione che ha fatto la storia della musica dura (e non). Il nuovo album arriva nei negozi in un momento particolare, in cui la musica ha dovuto accantonare la sua dimensione festosa, la sua forza di aggregazione, per essere vissuta invece in solitaria o, al massimo, attraverso innaturali concerti in streaming. Non stupisce, quindi, come “Whoosh!” si trasformi in una metafora sulla fragilità dell’uomo, scritta da un manipolo di artisti che, pur avendo parzialmente rinnegato il loro ritiro dalle scene, sono consapevoli di come le lancette continuino a ticchettare inesorabilmente. Ne abbiamo parlato con Steve Morse, che sembra lui per primo stupito dell’energia ancora a disposizione dei suoi compagni di band.

STEVE, PER INIZIARE QUEST’INTERVISTA, VORREI PARTIRE DA UNA FRASE DETTA DA DON AIREY ALL’EPOCA DELLA PUBBLICAZIONE DI “INFINITE”: QUANDO QUALCUNO GLI CHIESE SE QUELLO POTESSE ESSERE CONSIDERATO COME L’ULTIMO ALBUM DEI DEEP PURPLE, LUI RISPOSE CHE, A DIR LA VERITÀ, PENSAVA CHE GIÀ QUELLO PRIMA (“NOW WHAT?!”, NDR) SAREBBE STATO L’ULTIMO. QUINDI COS’È SUCCESSO? AVETE TROVATO NUOVE ENERGIE IN QUESTI ULTIMI ANNI?
– Credo di sì. Personalmente la vedevo come Don, anche io pensavo che quello sarebbe stato il nostro ultimo album, ma da allora ho iniziato a guardare una serie di programmi TV sugli UFO e sono giunto a una conclusione: la maggior parte delle band rock storiche devono essere composte da alieni provenienti da un altro pianeta in cui vivono per trecento anni! Io penso di poter durare quanto la normale vita di un essere umano, ma loro sembra che abbiano appena cominciato. Non ho idea di cosa succederà in futuro, ma per il momento c’è questa energia a cui si aggiunge una sorta di ‘saggezza collettiva’: l’unica cosa davvero positiva dell’invecchiare è questa possibilità di avere una maggiore saggezza da cui attingere. E questo è importante, penso che ci debba essere una parte del music business composta da persone di esperienza: certamente abbiamo bisogno di giovani, di energia fresca e nuove idee, ma penso che ci sia ancora uno spazio anche per chi è in giro da abbastanza tempo, come noi.

ANCHE QUESTA VOLTA L’ALBUM È STATO PRODOTTO DA BOB EZRIN. IL SUO CONTRIBUTO STA DIVENTANDO SEMPRE PIÙ IMPORTANTE, POSSIAMO DIRE CHE, PER CERTI VERSI, BOB È DIVENTATO UNA SORTA DI SESTO COMPONENTE DELLA BAND?
– Se si parla di registrare un album, per certi versi è così. Prima di entrare in studio abbiamo scritto molto materiale senza di lui, ma quando si arriva al momento di registrare le canzoni, il contributo di Bob diventa essenziale. Siamo arrivati al punto in cui ci diciamo: ‘ok, questa cosa potremmo farla in questo modo o in quest’altro, lasciamo decidere a Bob, invece di metterci a discutere’. Mettiamo sul piatto tutte le opzioni possibili e gliele sottoponiamo, e lui di certi non si fa problemi a darci una sua netta opinione. Inoltre credo che sia molto bravo nel tirar fuori il meglio da Ian Gillan nelle sue parti vocali. Nei miei confronti, invece, si limita a suggerirmi quello che meglio si adatta alle varie canzoni: lui preferisce quando suono in maniera più semplice, cosa che non si adatta spontaneamente a quello che è il mio stile naturale, ma riesco comunque a presentargli delle variazioni che si adattano bene alle canzoni.

MA NON È STRANO, DOPO TANTI ANNI, AVERE QUALCUNO CHE VI DICE COME FARE LE COSE, QUALI VANNO BENE E QUALI NO? IN FONDO AI DEEP PURPLE NON MANCA CERTO L’ESPERIENZA IN STUDIO…
– Diciamo che siamo consapevoli dei vantaggi. Certo, noi, così come tante altre band, potremmo anche cavarcela da soli, ma preferiamo avere una persona del calibro di Bob, che è dotato di ottima memoria, della capacità di pensare velocemente e di darci dei suggerimenti a cui non avremmo mai pensato da soli. Magari ci suggerisce di chiudere una parte in un certo modo, senza aggiungerci altro; magari una soluzione di tastiere differente, oppure dice a Ian di cantare qualcosa (o anche solo di ‘dire’ qualcosa) in quella specifica parte del brano. Sono solo degli esempi che fanno la differenza rispetto alle versioni demo che avevamo preparato prima di entrare in studio. Bob è sempre pieno di idee e di suggerimenti utili.

FINORA AVETE PUBBLICATO DUE VIDEOCLIP PER ACCOMPAGNARE L’USCITA DEI PRIMI DUE SINGOLI DELL’ALBUM. IN ENTRAMBI VEDIAMO QUESTO ASTRONAUTA COME PROTAGONISTA: COSA SIMBOLEGGIA? CHI È QUESTO PERSONAGGIO?
– Ognuno può scegliere la propria interpretazione, a me riporta alla mente quei programmi che guardavo da ragazzo: un astronauta che, seguendo la teoria della relatività, riesce a spingersi fino alla velocità della luce, arrivando perfino a viaggiare nel tempo. Una volta tornato a casa, nella sua epoca, si accorge che il mondo è diverso, cambiato. Si rende conto che la sua epoca ora appartiene ad un altro tempo, in cui non riesce più ad inserirsi. Tutto “Whoosh!” ruota intorno al concetto del tempo a nostra disposizione su questa Terra, di come questo sia fragile e breve. Sai, cose tipo ‘cenere alla cenere e polvere alla polvere’ e di come l’umanità cerchi disperatamente di trovare un modo per creare qualcosa che permetta loro di andare al di là di questo destino, facendo dei figli, creando delle opere d’arte che possano durare nel tempo, o in generale dando un contributo che sia significativo.

VORREI CHIEDERTI ALCUNE INFORMAZIONI SU UN PAIO DI BRANI CHE CI HANNO PARTICOLARMENTE COLPITO E CHE CI SEMBRA CHE RAPPRESENTINO BENE IL GUSTO CHE PROVATE NEL SUONARE ANCORA ASSIEME. MI RIFERISCO A “WHAT THE WHAT” ED A “NOTHING AT ALL”. TI VA DI RACCONTARCI COME SONO NATE QUESTE CANZONI? GENERALMENTE COMPONETE PARTENDO DA DELLE JAM SESSION?
– Sì, in generale ci muoviamo proprio così. “What The What” è una sorta di rockabilly che nasce da un’idea che ho portato alla band: in questi casi non ho in testa una vera e propria canzone, non ho dei testi, non so come potrebbe evolversi la linea vocale, solo un’idea generale. Poi pian piano si inseriscono Ian, Roger e via dicendo: ma all’inizio era solo un’idea, quella di divertirci con una buona vecchia canzone rock, come si faceva negli anni Cinquanta. “Nothing At All”, invece, nasce da una jam tra me, Don e Roger. Stavamo suonando questa melodia molto morbida e mentre ci scambiavamo assoli, Don è venuto fuori con questo pezzo di Bach, che si è inserito sulla mia melodia e gli ha dato un feeling completamente diverso, come se venisse fuori da un’altra epoca. Mi è sembrato tutto molto pulito, è piaciuta subito a tutti. Mi ricordo che c’era anche Ian Gillan, che intanto stava lavorando a dei testi per un’altro pezzo: ha alzato la testa e ha detto che gli piaceva molto questa linea di chitarra così fluttuante, veloce e pulita al tempo stesso. Quindi ci ha suggerito di usarla come una sorta di ‘punteggiatura’ tra due strofe.

NELL’ALBUM È PRESENTE ANCHE UNA NUOVA VERSIONE DI “AND THE ADDRESS”, UN BRANO STRUMENTALE PRESENTE NEL PRIMISSIMO ALBUM DEI DEEP PURPLE E CHE, ALL’EPOCA, ERA SUONATO DA UNA BAND TOTALMENTE DIFFERENTE, CON IL SOLO IAN PAICE IN COMUNE. COME MAI QUESTA DECISIONE?
– Credo sia stata un’idea di Bob e a me è piaciuta subito. Quando l’abbiamo registrata eravamo consapevoli che questa potrebbe essere l’ultima cosa che facciamo assieme, ed era bella l’idea di concludere il tutto con quello che, secondo quanto ci racconta Ian Paice, è il primo brano in assoluto registrato dalla band. È tutto molto lineare e in più è anche una traccia divertente da suonare.

PARLANDO DEL VECCHIO CATALOGO DEI DEEP PURPLE, CI SONO DELLE CANZONI CHE TI PIACEREBBE TORNARE A SUONARE DAL VIVO?
– Il problema è che molte canzoni sono davvero difficili da un punto di vista vocale e questo è ormai un punto su cui non possiamo prescindere. Al tempo stesso, però, da quando abbiamo lasciato a Ian Gillan la scelta dei brani, sulla base di quello che è o non è all’interno delle sue attuali possibilità, non abbiamo mai dovuto cancellare uno show per motivi legati alla perdita di voce. Credo che ci sia capitato solo una volta di cancellare una settimana di concerti perché Ian si era preso un brutto raffreddore e aveva perso la voce. È fondamentale che Ian si senta a suo agio con la scaletta. Per quanto mi riguarda, mi piacerebbe ricominciare a suonare “The Well Dressed Guitar”, “Speed King” e “Ted The Mechanic”.

PERSONALMENTE MI PIACEREBBE MOLTO RISENTIRE DAL VIVO “ANYONE’S DAUGHTER”: CREDO CHE IAN RIUSCIREBBE ANCORA A CANTARLA BENE. SE NON ERRO TU HAI GIÀ AVUTO MODO DI SUONARLA DAL VIVO: ERA PRESENTE IN SCALETTA IN UNO DEI TUOI PRIMI TOUR CON I DEEP PURPLE, GIUSTO?
– Sì, confermo, mi ricordo di averla suonata all’inizio della mia carriera con la band e ricordo che ero quasi un po’ preoccupato per via di questo suo stile country, che per me è assolutamente familiare! Mi sentivo come se fossi io a spingere la band verso questo stile ‘southern’. Mi dicevo: “sono un gruppo di ragazzi inglesi, non fare così!” (ride ndR).

ECCO, TU ORMAI SEI NELLA BAND DA VENTISEI ANNI E, PER CERTI VERSI, POSSIAMO DIRE CHE HAI SALVATO I DEEP PURPLE. EPPURE ANCORA OGGI CAPITA DI VEDERE SPUNTARE IL NOME DI RITCHIE BLACKMORE, ADDIRITTURA DI TANTO IN TANTO SALTANO FUORI ANCHE DOMANDE SU IPOTETICHE E IMPOSSIBILI REUNION. DOPO TUTTO QUESTO TEMPO, SEI INFASTIDITO DA QUESTO GENERE DI COMMENTI?
– No, è inevitabile. Quando ti unisci ad una band dove qualcun altro ha avuto un impatto enorme sul loro lavoro, le persone hanno come l’impressione che tu voglia prendere il suo posto. È normale che ci sia del dissenso, ognuno dice la sua, è una cosa che mi aspettavo fin dal primo momento. Per alcuni anni ho vissuto una situazione simile nei Kansas, sostituendo Kerry Livgren, che non era più interessato a far parte della band. Anche Kerry aveva avuto un ruolo fondamentale, era uno dei principali compositori, come Ritchie. Insomma, ci ho fatto l’abitudine: ho una enorme considerazione per tutto quello che Ritchie ha fatto, non so se i fan ne sono tutti consapevoli, ma ho sempre suonato le sue canzoni con il massimo rispetto, cercando al tempo stesso di tenere vivo quel fuoco grazie a quello che è anche il mio stile. Essendo anche io prima di tutto un fan della musica, mi ricordo di quando andavo a vedere degli artisti suonare dal vivo e ovviamente capitava che suonassero in maniera differente rispetto alle versioni in studio: a me piaceva quando cambiavano un po’ le cose, ma non quando lo facevano troppo (ride, ndR)! Secondo alcuni ascoltatori io cambio troppo le canzoni, secondo altri dovrei cambiarle di più, non puoi vincere, puoi solo fare quello che ritieni essere la scelta migliore per te.

TORNANDO PER UN ATTIMO AL MOMENTO IN CUI TI SEI UNITO AI DEEP PURPLE, TI VA DI CONDIVIDERE QUALCHE RICORDO SUI PRIMI INCONTRI CON LA BAND? CERTO, TU ERI GIÀ UN MUSICISTA AFFERMATO E AVEVI GIÀ SUONATO IN UNA BAND STORICA COME I KANSAS, MA IMMAGINO CHE UN PO’ DI NERVOSISMO CI FOSSE…
– Ero più preoccupato di riuscire ad imparare alla perfezione il set, mi studiavo delle registrazioni di due diversi concerti del 1993, uno fatto con Satriani e uno con Ritchie. Ero concentrato su quello, ma era tutto molto bello: ricordo che eravamo nei camerini del posto che avrebbe ospitato il nostro primo concerto assieme, avevamo montato dei piccoli amplificatori e la prima cosa che abbiamo fatto assieme è stato fare una jam. Ian Paice è partito con un ritmo di batteria, io ho iniziato a suonare e Jon Lord mi è venuto subito dietro. Ho pensato “wow, mi sta ascoltando”, ho suonato qualcos’altro e lui subito si è inserito, aggiungendo qualcosa in più. Ricordo di aver pensato come Jon avesse un orecchio fantastico, degno di un musicista jazz. Dopo pochi secondi stavano tutti suonando, perfino Ian Gillan con le sue conga. È stato bellissimo perché mi è sembrato subito rilassante e divertente. Dopo un’ora così ci stavamo dando pacche sulle spalle, come se fossimo vecchi amici. Non c’era più motivo per essere nervosi, perché ci stavamo divertendo. Certo, il concerto in sè poi ha messo un po’ alla prova i miei nervi, ma quel momento in cui abbiamo jammato assieme è stato un modo stupendo per conoscerci a vicenda.

QUANTO CI È VOLUTO PERCHÈ TI SENTISSI DEFINITIVAMENTE PARTE DEL GRUPPO? È UNA COSA CHE È SCATTATA FIN DA SUBITO O C’È VOLUTO QUALCHE ANNO?
– C’è voluto qualche anno, senza dubbio! È un po’ come accade in un branco, anche se nessuno lo dice apertamente, c’è una sorta di seniority nella band. Io sono stato un passo avanti a Don Airey, più o meno per cinque minuti! Insomma, io ero già nella band da anni quando Don si è unito a noi, dopo il ritiro di Jon Lord. Ma è bastato che Don iniziasse a parlare con gli altri di calcio, che subito ho perso la posizione che mi ero guadagnato! Io sono un americano, non capisco un accidente di calcio. Quindi ero lì che mi dicevo: “ehi, finalmente non sono più l’ultimo arrivato” e poi dopo cinque minuti, non appena Don inizia a parlare di calcio, eccomi di nuovo all’ultima posizione (Risate generali ndR)!

IAN GILLAN DICE SPESSO CHE I DEEP PURPLE SONO UNA BAND STRUMENTALE CON L’AGGIUNTA DI UN CANTANTE. CHE NE PENSI DI QUESTA DEFINIZIONE? TI SEMBRA CALZANTE?
– Penso che la band abbia abbastanza apertura mentale da provare soluzioni diverse. E grazie a Jon prima e adesso con Don, abbiamo abbastanza potenza da poterci permettere molti passaggi strumentali. Questa è una cosa che adoro e che mi diverte molto. Inoltre amo lo spirito di avventura di Roger, che ama qualunque tipo di musica, o il fatto che Ian Paice abbia un tocco swing e riesca a farlo sentire in tutto quello che fa, tanto da dare una marcia in più anche ad un semplice tempo rock regolare. Metti tutto assieme, con in più Ian Gillan che non solo non ci pone restrizioni, ma addirittura ci incoraggia a dare sfogo alle nostre idee strumentali, e ti accorgi di come si vada a creare un ambiente molto stimolante per un chitarrista.

IERI (L’INTERVISTA SI È SVOLTA IL 17 LUGLIO, NDR) È STATO L’ANNIVERSARIO DELLA SCOMPARSA DI JON LORD. TI VA DI CONDIVIDERE CON NOI UN RICORDO LEGATO A QUESTO INDIMENTICABILE ARTISTA?
– Avevo un legame davvero speciale con lui, era un perfetto gentiluomo, in ogni occasione. Lo ammiravo molto per questo e anche per il modo in cui mi ha sempre incoraggiato a tirare fuori il meglio di me nelle sessioni di composizione, mi spronava affinché trovassi sempre qualcosa di inusuale, delle combinazioni diverse dal solito. Come quella volta in cui mi sentì suonare, mentre stavo semplicemente esercitandomi su degli armonici: lui si fermò e iniziò subito a suonare con me, mi disse “dovremmo farci qualcosa con questa melodia”. Entro la fine della giornata avevamo finito di arrangiare e registrare quella che è diventata “Sometimes I Feel Like Screaming”. Tutto grazie all’incoraggiamento suo e anche di Roger.

PER INGANNARE L’ATTESA DELLA PUBBLICAZIONE DEL NUOVO ALBUM, SULLA VOSTRA PAGINA FACEBOOK AVETE PUBBLICATO DEI POST IN CUI RACCONTATE ALCUNE CURIOSITÀ SU CIASCUN MEMBRO DELLA BAND. UNA DELLE COSE SCRITTE SU DI TE È CHE SEI MANCINO, MA UTILIZZI LA CHITARRA CON L’IMPUGNATURA DA DESTRORSO. QUESTO HA INFLUITO SUL TUO MODO DI SUONARE?
– Penso che all’inizio sia stato un vantaggio: quando inizi a suonare la chitarra, tutta l’attenzione tende a concentrarsi su quello che fa la mano sinistra, mentre la destra si limita a dare le plettrate. Quando poi ho sviluppato maggiormente la mia tecnica, mi sono accorto di come la maggior parte dei problemi fosse proprio concentrata nella mia mano destra. Quando ho iniziato a suonare non c’erano le chitarre per mancini, ma ho pensato che tutto sommato non sarebbe stato un problema: in fondo vale per tanti strumenti, non esistono pianoforti per mancini, sono tutti uguali. E visto che tanto i mancini quanto i destrorsi sono in grado di suonare uno strumento, ho deciso che anche per me non avrebbe fatto differenza. Col tempo, anzi, mi ha dato una maggiore sicurezza, perché avendo la mano sulle corde, questo mi dava la forza e la destrezza per fare dei cambi e dei movimenti più veloci, senza esitazione.

HAI CITATO DEI PROBLEMI ALLA MANO DESTRA E, IN EFFETTI, NEGLI ULTIMI ANNI TI ABBIAMO VISTO SPESSO SUONARE INDOSSANDO UNA FASCIA…
– Soffro di artrite, quindi purtroppo non si tratta di qualcosa che può andare a migliorare. Spesso uso un tutore per sostenere il polso, perché mi fa molto male quando lo piego. Altre volte invece uso semplicemente degli antidolorifici, che copro con un guanto in modo che non evaporino troppo velocemente e questo a volte mi intorpidisce un po’ la mano durante lo show, però faccio pratica ogni giorno, lavorando molto su modi diversi di tenere il plettro, cercando di dare delle plettrate evitando il più possibile di flettere il polso, sfruttando invece l’intero avambraccio. Non è una situazione ideale, ovviamente, e rende molto più difficile suonare. Ma ormai ho accettato da diversi anni il fatto di dover convivere con questa cosa, allenandomi giorno dopo giorno, fino a farlo diventare oggi quasi naturale, guadagnando ancora un po’ di tempo per permettermi di suonare anche delle parti tecnicamente complesse.

GRAZIE, STEVE, PER QUESTA INTERVISTA. PRIMA DI LASCIARTI VORREMMO CHIEDERTI UN PARERE SULL’ATTUALE SITUAZIONE DEGLI STATI UNITI. TU SEI AMERICANO ED È INNEGABILE COME IL CORONAVIRUS ABBIA DEI NUMERI ENORMI NEGLI USA. SEI PREOCCUPATO PER QUELLO CHE STA SUCCEDENDO NEL TUO PAESE? PENSI CHE IL GOVERNO STIA AGENDO NEL MIGLIORE DEI MODI PER FRONTEGGIARE LA PANDEMIA?
– Dovremo tutti interessarci per quello che sta accadendo negli Stati Uniti e nel mondo. Fin dal primo momento in cui sono venuto a conoscenza di questa pandemia, ho iniziato a seguire un gruppo di dottori in un forum: man mano che scoprivano nuove informazioni su questo virus, le postavano negli articoli. Ci sono pneumologi che lavorano al pronto soccorso, ma anche medici di medicina generale, persone che studiano immunologia e scienziati. Quello che ho appreso da questo gruppo è che forse ci sono meno ragioni per cui farci prendere dal panico di quello che la gente pensa: senza dubbio è peggiore della maggior parte delle malattie che abbiamo avuto in passato, ma al tempo stesso non è una sentenza di morte come ci hanno portato a credere. È anche possibile che la malattia finisca per esaurirsi autonomamente, esponendo una porzione sempre abbastanza ampia della popolazione, ma in maniera lenta e controllata. Il fatto di aver applicato il distanziamento sociale ha permesso agli ospedali di tenere il passo: la maggior parte non ha raggiunto il massimo della propria capacità, certo abbiamo tantissimi casi, ma questo perché alcuni stati stanno contando ogni singolo test come se fosse un nuovo caso, ma ci sono persone che vengono testate fino a quattordici volte durante il ricovero, ne fanno uno al giorno. Non c’è molta fiducia intorno ai numeri emersi dai test, meno di quella che dovrebbe esserci, questo perché ogni stato o città si comporta in maniera leggermente diversa. Ci sono delle motivazioni anche politiche per cui alcuni stati hanno interesse ad aumentare il numero dei casi, perché questo permette loro di ricevere maggiori fondi dal Governo. Non voglio entrare troppo nel discorso politico, però, per fortuna i Deep Purple non sono una band politica e io voglio che la cosa rimanga così. Credo però che il governo abbia fatto esattamente ciò che aveva progettato: ha dato ascolto a quello che dicevano gli esperti, esperti che non avevano mai visto niente di tutto questo prima, hanno fatto del loro meglio nel fare delle previsioni e tutti quanti abbiamo reagito seguendo queste previsioni, queste teorie. Al tempo stesso penso che l’obiettivo di abbassare la curva dei contagi sia stato raggiunto (in realtà questa affermazione è stata poi smentita dall’impennata delle ultime settimane, ndR), facendo sì che gli ospedali riescano a gestire l’emergenza: i contagi continuano a salire, ma se vogliamo che la popolazione possa essere esposta al virus in modo da venirne fuori, in un certo senso potrebbe essere la cosa giusta da fare.

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