DEEP PURPLE – E ora…riscopriamo le origini!

Pubblicato il 17/05/2013 da

Quando si ha intervistato un certo numero di musicisti e rockstar, ci si rende conto che luoghi e modalità di intervista tendono spesso a riflettere non solo la caratura, ma anche il carattere e lo stato d’animo dell’intervistato. Ci troviamo all’ultimo piano di un centralissimo hotel a cinque stelle di Milano, in piazza Repubblica, con vista dall’alto sulla serata meneghina (la nostra era l’ultima intervista della giornata). Davanti a noi Mr. Ian Gillan, storico cantante dei Deep Purple, membro della famosa ‘mark II formation’, quella dei capolavori “Deep Purple In Rock” e “Machine Head”. Non c’è il rumore dei camerini, o di un soundcheck esterno. Solo la pace di una camera di lusso, una tazza di tè inglese davanti a noi e comode poltrone. Decisamente rilassato ci si presenta il cantante…e ne ha ben donde. Come ci spiega lui stesso in questa lunga mezz’ora d’intervista, non c’era motivo, almeno inizialmente, per fare un nuovo album dei Deep Purple. E come dargli torto? Pubblicare un album dopo quarant’anni di carriera per sentirsi dire che sono bolliti, di smetterla per favore? E invece la voglia, maturata forse con l’età, di riscoprire i suoni e le dinamiche che esistevano nel passato glorioso della band ha motivato i cinque musicisti a lavorare, senza porsi alcuna pressione, a questo “Now What?”, regalandoci così una perla hard rock dalla classe infinita. Seguiamo con Ian la genesi di questo album e analizziamolo a fondo, aiutati dalle sue parole…  

 deep purple - band - 2013

SONO PASSATI SETTE ANNI DA “RAPTURES OF THE DEEP”… QUANDO E COME AVETE SENTITO CHE ERA IL MOMENTO DI TORNARE IN STUDIO E REGALARCI QUALCOSA DI NUOVO?
“E’ un’ottima domanda. Non c’era alcun interesse nel fare un nuovo album. In nessuno di noi. Ogni tanto ci dicevamo: ‘dovremmo uscire con qualcosa di nuovo?’, e la risposta era sempre ‘la prossima volta… l’anno prossimo magari’. Alla fine arrivò l’incontro con Bob Ezrin, il nostro attuale produttore. Ci raggiunse in Canada per vedere un paio di nostri show nel febbraio 2012 e parlammo soprattutto del tipo di musica che facevamo un tempo. Perché non siamo usciti con del materiale nuovo? Non lo sapevamo. Stavamo passando un bel periodo on the road, suonare quasi ogni notte era fantastico, eravamo felici di essere una live-performing band, di materiale da proporre ne avevamo sicuramente molto… Perché avremmo avuto bisogno di un nuovo album? Ma ci concentrammo comunque sui primi album che facemmo, ai tempi dell’ingresso mio e di Roger nella band: ‘Deep Purple In Rock’, ‘Fireball’ e ‘Machine Head’. Analizzandoli ci siamo accorti che ognuno di essi ha solo sette pezzi. Con varie tracce parecchio lunghe. C’era molta improvvisazione, una certa ‘estemporaneizzazione’ della musica (letteralmente, ‘musical extemporanization’, non traducibile in maniera migliore, ndR), possiamo dire. C’erano tanti temi musicali che avevano bisogno del proprio tempo per essere sviluppati. Album che non erano frutto di una formula preconfezionata per le radio o per i singoli, contenevano semplicemente musica. E capimmo che era quel tipo di musica che ci caratterizzava come band dal punto di vista strumentale. Siamo sempre stati una band strumentale, a ben pensarci. Con un cantante, certo, senza una linea vocale non saremmo i Deep Purple, ma, anche se sembra una contraddizione, la natura vera dei Deep Purple è quella di una band strumentale. Ci sono così tante canzoni in quegli album in cui la musica veniva stesa in maniera libera, canzoni che contenevano improvvisazioni, idee che si univano fra loro in brani molto lunghi, nei quali si dà tanta importanza a ogni strumento… e ci eravamo completamente dimenticati di questo. Quindi abbiamo cominciato a pensare di voler fare musica come quella, ancora una volta. Questo ci ha dato la spinta. Si può dire che Bob Ezrin sia stato il catalizzatore per ‘Now What?’. Perché ci diede uno scopo, ci fece andare in studio con entusiasmo rinnovato, con un obiettivo, non solo perché si doveva. Era per noi una possibilità di ridefinire la band come doveva essere, di fare cose di cui per vari motivi ci eravamo dimenticati”.

VI SERVIVA UNA SCINTILLA PER ACCENDERE IL MOTORE? TUTTO QUI?
“Sì, tutto qui. Semplice, lineare. Solo un qualcosa, chiamalo scintilla se vuoi, che ci desse uno scopo per il quale incidere un disco”.

PRIMA DI CONCENTRARCI SULL’ALBUM IN SE’, VISTO CHE HAI PARLATO DEL PASSATO, CHE SENSAZIONE VI FA ESSERE, DOPO COSI’ TANTI ANNI, ANCORA QUI, AL TOP DI UNA SCENA MUSICALE CHE AVETE CONTRIBUITO A DEFINIRE?
“Be’, che dire? Siamo musicisti. E, sin dagli esordi dei Deep Purple, tutti noi abbiamo capito che c’era ben altro nell’essere musicisti, che solo prendere in mano lo strumento e suonare. C’è un grande mondo commerciale lì fuori, un’industria musicale ben definita ed esigente, che non puoi ignorare. In molti sostengono di sì, ma non è possibile, te lo dico io, sono solo frasi fatte. Questo mercato, questa industria musicale, ha delle attese, delle aspettative su di te, e così le hanno anche le entità che ci girano attorno: giornalisti, etichette, società di promozione. Sei come una foglia al vento, sbatacchiata, portata via da forze esterne, e quindi devi per forza concentrarti sulla tua musica. Come succede nella vita reale, quando cresci nell’infanzia, ti allontani dai genitori, ti sposi, fai dei figli a tua volta…in tutto questo percorso accadono cose belle e cose brutte. La gente si disinnamora, si lascia, ci sono dei lutti…e tutto questo in una vita normale non fa scalpore, è la natura. Ma quando si parla della vita dei Deep Purple, ogni cosa che succede diventa una agonia pubblica. Quando succedono cose brutte, una di queste può essere ad esempio la recente scomparsa di Jon (Lord, ndR), in qualche modo tutto diviene pubblico. Quindi, capisci, l’unico modo di resistere a tutto ciò è quello di concentrarsi solo sulla musica. L’unico modo di andare avanti ed essere ancora qui. Con questo approccio, quello che succede nel music business ti riguarda un po’ di meno. Puoi sempre dire: ‘Va be’, è andata così. C’è sempre domani. C’è un altro concerto domani’. Qualcosa del genere. Vedi, anche se siamo qui da tanto, come dici tu, non vuol dire che siamo diventati bravi nelle cose commerciali. Non lo siamo mai stati. Cerchiamo solo di guardare alla musica e forse è per questo che i Purple non sono stati schiacciati dal mondo esterno”.

IMMAGINO CHE SE TI CHIEDO QUALI ASPETTATIVE NUTRI COMMERCIALMENTE PER QUESTO ALBUM, MI DIRAI CHE L’UNICA COSA CHE CONTA E’ LA MUSICA…
“Be’, sono felice di come ‘Now What?’ sia uscito. So che la gente lo amerà. Be’, almeno, mia moglie lo adora. E a lei nemmeno piace questo genere di musica, non è proprio ‘dentro’ nel rock. Però mi ha detto che questo album lo adora, e io le credo. Quindi sono felice. Le mie aspettative finiscono qua, possiamo dire”.

QUALE PENSI SIA IL PUNTO PIU’ FORTE DELL’ALBUM? LA QUALITA’ CHE LO CARATTERIZZA VERAMENTE?
“La cosa migliore di ‘Now What?’ è che esso illustra la diversità dell’eredità musicale dei Deep Purple. Nel ’69, quando io e Glover ci unimmo alla band, avevamo una formazione molto orchestrale, spesso ruotavamo intorno all’Hammond di Jon Lord, il quale era molto influenzato da Jimmy Smith. Avevamo una forte componente sinfonica, classica, che in qualche modo c’è sempre stata e che poi è stata portata avanti proprio da Don Airey. Ritchie Blackmore mostrava una tecnica diversa, orientata allo studio, alla registrazione, ed era veramente incredibile nel suo stile chitarristico, che richiamava centinaia di artisti diversi. Rappresentava il nostro lato più rock. Ian Paice forniva l’approccio swing e jazzistico delle grandi band del decennio precedente. Glover rappresentava la musica folk. Io portavo con me il rock’n’roll, sporcato di soul e blues. E tutti questi elementi all’inizio si sommarono formando il nostro sound, ma poi finirono per perdersi in esso. Gli altri album risentirono di un effetto, legato alle aspettative di cui parlavamo prima, per cui si dovevano concentrare su un suono complessivo, generato dalla fusione di questi elementi e non più sugli elementi in sé. Quest’album invece li riscopre, ce li presenta come individualità. Recupera il carattere delle singole influenze che ognuno di noi ha portato nei Purple nel corso della storia. Puoi sentire il jazz in ‘Bodyline’, puoi sentire il blues. ‘Uncommon Man’ testimonia l’influenza orchestrale di Lord e Airey. ‘Above And Beyond’ riscopre le radici soul… e di fatto questa è la musica che suoniamo ogni sera nei nostri show. Però qui è mostrata nelle sue parti costituenti, come messa a nudo. Ed è questa è la forza dell’album”.

HAI DIPINTO ALLA PERFEZIONE QUELLO CHE QUESTO PARTICOLARE ALBUM RAPPRESENTA PER TE E LA BAND DAL PUNTO DI VISTA MUSICALE. PASSIAMO AL PUNTO DI VISTA LIRICO… C’E’ QUALCHE CANZONE CHE AVETE DECISO DI DEDICARE ALLA MEMORIA DI JON LORD?
“Sì, ma non solo una canzone. Jon è morto durante le sessioni di registrazione. Ovviamente, all’inizio ci siamo sentiti tristi, disperati. Ma poi parlammo insieme dei bei tempi passati con lui. Ci raccontammo aneddoti, racconti… tutto quello che ci poteva ricordare i lati più belli di Jon. Era il patriarca dei Deep Purple. Il padrino, potremmo dire, l’uomo più importante. Aveva anche lui i suoi aspetti spigolosi, ma tutti lo amavamo, sinceramente. Quando decise di ritirarsi per dedicarsi alla musica classica e perché non trovava più gli stimoli per una vita in tour con una rock band, era comunque sempre con noi. Al telefono, magari, o comunque nei nostri pensieri. Così, quando se ne andò, sicuramente ci mancò sul momento, ma più parlavamo di lui, più il suo spirito pareva riempire lo studio. Lo sentivamo tra di noi. Fu allora che scrissi qualche parola da dire al suo funerale, in Inghilterra, con Ian Paice che mi aiutò. E queste frasi sono finite qua e là nel disco… su ‘Uncommon Man’, principalmente, e su ‘Above And Beyond’. E’ in quella canzone che puoi sentire di più il suo spirito, perché era proprio quella la musica, la componente che proprio lui aveva portato nel gruppo grazie al suo stile unico. La sua presenza è forte nell’album, che possiamo dire sia dedicato nella sua interezza alla memoria di Jon”.

UNA TRACCIA CHE ABBIAMO TROVATO INTERESSANTE DAL PUNTO DI VISTA LIRICO E’ “HELL TO PAY”. CE LA RACCONTI?
“Parla di un ‘rivoluzionario da poltrona’. Un uomo che cerca i problemi, ne parla, si pone sempre ‘contro’… ma quando si tratta di passare all’azione, semplicemente scompare. Mai stato visto una volta a combattere per le strade per ciò che sosteneva. Sai, il classico tipo intellettuale, filosofo, laureato, follemente contrario al sistema. ‘Viva la rivoluzione’, ‘siam pronti a morire’… ma poi quando serve… dov’è? E’ il tipo che ti spiega che cosa è la rivoluzione, perché va fatta, ti snocciola tutte le teorie importanti, marxismo e chissà che altro… ma alla fine non approda mai a niente. E’ un personaggio iconico, molto cinematografico se ci pensi, ed era divertente scrivere un testo su un tipo simile”.

DIVERTENTE… CI RACCONTI INVECE QUALCOSA DI ‘BODYLINE’? L’ARGOMENTO PRINCIPALE SEMBRA ALQUANTO DIVERSO, O SBAGLIO?
“E’ una canzone sexy. Un brano divertente che parla delle immagini che mi faccio vedendo una bella donna, ma osservando solo la sua silhouette, proiettata come un’ombra”.

L’IMPRESSIONE CHE NE RICAVO E’ CHE IL DISCO CONTIENE ALCUNI TESTI IMPEGNATI O PESANTI, E ALTRI INVECE LEGGERI E DIVERTENTI… COME MANTIENI DUE APPROCCI COSI’ DISTINTI ALLA LORO STESURA?
“Ti dicevo prima che i Deep Purple andrebbero considerati come una band strumentale. E non ti mentivo, la musica viene sempre scritta prima. La mia parte, ovvero le liriche, viene sempre dopo. Era così, quando mi unii alla band negli anni ’70 ed è ancora così adesso. Comporre una linea vocale e un testo su una canzone già largamente definita è come cavalcare un cavallo selvaggio. Sei in parte soggetto alle sue mosse e ai suoi scarti. Non puoi completamente domarla, cerchi solo di pilotarla dove serve, tutto qui. Io non mi oppongo al cavallo, piuttosto cerco di godermi la cavalcata e di mantenermi saldo. Il risultato è che scrivo le liriche un po’ come se fosse il risultato di una conversazione con qualcuno. Con mia moglie, con i miei amici, con i parenti, con gli altri della band, con gli amici al pub. Ovviamente con queste persone si parla di tutto. Si parla di attualità, di cultura, di sport, ma anche di teologia, di storia…in qualche modo ogni conversazione può diventare il testo per una canzone. Si può dire ad un amico: ‘ehi, guarda quella tipa, che silhouette, vero?’ (‘hey, look, what a bodyline!’, dalla canzone omonima, ndR), così come si può parlare del rivoluzionario sui generis di cui ti parlavo prima. Ti confesserò però un problema che ho con i Deep Purple, un problema che risale a tanto tempo fa: ti ho già spiegato le nostre differenze dal punto di vista musicale, ma siamo anche molto diversi socialmente. Politica? Abbiamo idee completamente diverse. Religione? I nostri approcci alla spiritualità non potrebbero somigliarsi di meno. Culturalmente proveniamo da ambienti diversi. Non posso quindi pensare che il mio modo di scrivere rappresenti il pensiero degli altri. In genere quindi non posso trattare qualcosa di veramente politico, o veramente spirituale, perché non rappresenterebbe il pensiero di tutti. Questo non vuol dire che non sia successo, sia chiaro. ‘Bananas’ era un album a tematiche sociali, ‘Rapture Of The Deep’ è a modo suo di argomento spirituale, ma anche in questi dischi sono dovuto rimanere molto ‘enigmatico’. Non posso usare concetti forti come ‘uccidi questo’ o ‘credi in quest’altro’, e nemmeno sostenere che un pensiero è giusto o sbagliato. Devo parlare per immagini, per concetti. In genere quindi lavoro su più livelli. Il primo passo è far suonare bene le parole. Questo è il lato di cui ti parlavo prima, il cavallo selvaggio da cavalcare. Dopo che sei riuscito a restare in sella, si cerca di dare un significato più profondo alla bozza di testo, e solo alla fine si decidono le parole da usare per descrivere l’immagine che ci si è dipinta nella mente. E’ una faticaccia come processo, ma è anche eccitante e soddisfacente lavorare così, su più livelli”.

VORREI CONCENTRARMI UN ATTIMO SULL’ASPETTO CHITARRISTICO. HAI DETTO CHE “NOW WHAT?” RAPPRESENTAVA UN RITORNO ALLA MUSICA CHE FACEVATE UN TEMPO, UNA RISCOPERTA DELLE VOSTRE DIFFERENTI ORIGINI MUSICALI. MI CHIEDEVO COME STEVE MORSE POSSA ENTRARE IN UN QUADRO CHE ORIGINARIAMENTE INCLUDEVA NON LUI MA RITCHIE BLACKMORE…
“Sono sicuramente persone diverse, hanno un background differente e caratteristiche poco paragonabili, anche come temperamento. Ma quando componiamo siamo cinque persone in una stanza che jammano per tutto il pomeriggio con i propri strumenti e le canzoni evolvono intorno a questo lavoro collettivo. Quando lavori in un modo così determinato, se l’approccio non cambia, non cambia nemmeno il risultato. Era così con Ritchie ed è così con Steve. Era così con Jon e ora è cosi con Don Airey. Sono cambiati i personaggi, è cambiata anche la ‘formula chimica’ che definisce le interazioni fra di noi, ma molte cose sono rimaste uguali. Ci sono ancora dei litigi, delle discussioni…ma non è così diverso da come lavoravamo un tempo”.

COME VALUTI IL BILANCIAMENTO TRA STEVE MORSE E DON AIREY? I MATTATORI DEL DISCO SEMBRANO UN PO’ LORO DUE, SE POSSO DIRLO…
“Sì, hai ragione. Il bilanciamento tra le tastiere e le chitarre è uno dei migliori che abbiamo mai avuto. L’impatto che ho avuto quando ho sentito le registrazioni complete dopo i vari giorni passati in studio è stato fenomenale. Finalmente abbiamo trovato qualcuno che riuscisse a catturare il vero sound dei Deep Purple. Degli ultimi dischi devo dirti che non sono mai stato al 100% soddisfatto dell’aspetto della registrazione. Ero felice della musica, delle composizioni, delle performance dei singoli, ma l’aspetto della registrazione mi lasciava sempre qualche dubbio. Come se non fosse mai stato importante abbastanza. Bob Ezrin ci è riuscito, ha catturato perfettamente l’interazione che volevamo tra l’Hammond e la chitarra. Ed è una cosa difficile, perché quei due strumenti condividono buona parte delle rispettive bande di frequenza, a circa metà dello spettro. Anche la mia voce risiede su quelle tonalità, il che rende difficile discriminare bene i suoni. Ma Bob ci è riuscito”.

QUESTO DAL PUNTO DI VISTA DELLA REGISTRAZIONE… MA COME PERFORMANCE ALLO STRUMENTO? COSA PENSI DELLE PARTI DI MORSE? IO LE HO TROVATE ECCEZIONALI…
“Se sei un fan di Steve, ti sarai però anche accorto che il suo stile è diventato meno istrionico. E’ più rilassato. Questo rende la sua prestazione ancora più fantastica. Certo, da quando suona con i Purple ci ha donato pezzi veramente esuberanti, perfetti sotto il profilo tecnico; ma qui è proprio il sound ad essere migliore. Stavolta Steve ha dato un supporto molto più sostanziale, anche come contributo alla stesura dei brani stessi. Ha portato una serie di nuove idee, di nuovi approcci, che hanno giovato tantissimo al sound del disco. E’ diventato un chitarrista non solo tecnicamente perfetto, ma anche più riflessivo, strutturato…‘lirico’, quasi, in qualche modo. In tutto ‘Now What?’ ci saranno giusto un paio di canzoni dove senti il marchio inconfondibile dell’assolo funambolico alla Morse, nel resto dei brani ha adottato un approccio diverso, che trovo veramente fantastico”.

PRIMA DI CHIUDERE VORREI PASSARE UN ATTIMO AD UN’ANALISI DELLA SCENA ROCK MODERNA, FACENDOLA EFFETTUARE DA QUALCUNO CHE SICURAMENTE L’HA VISSUTA FIN DAI SUOI ALBORI. TU COSA NE PENSI DEL MARASMA DI NOMI, TALENTI, IMMAGINI E VOLTI CHE E’ DIVENTATA LA NOSTRA SCENA MUSICALE OGGI?
“E’ difficile commentare una cosa del genere. Cercherò di spiegarmi in un’altra maniera. Quando ero bambino, mia madre, mio padre e la gente della loro generazione erano fan di Frank Sinatra, Dean Martin, Bing Crosby, Ella Fitzgerald… mio zio, che era quello più addentro alla musica, ascoltava il jazz delle origini. Quando iniziai la mia carriera nella musica, io ascoltavo già qualcosa di successivo, più rock, come Elvis. Quando, con i Deep Purple, incidemmo ‘Deep Purple In Rock’, lo feci sentire a mio zio, e lui si tappò le orecchie gridando! Era terribile secondo lui! Capii allora che eravamo sulla strada giusta. Perché, vedi, è una cosa naturale che la generazione precedente non apprezzi le creazioni di quella successiva. E’ il risultato di una sorta di ‘vandalismo intellettuale’, fenomeno per il quale ogni teenager cerca di distruggere ciò che c’era prima per riscriverlo a modo suo. Nella musica ciò si avverte tantissimo, ma vale anche il contrario. Mio bisnonno era un cantante d’opera. Ebbi la fortuna, da giovane, di sentire qualcosa di registrato da lui, e pensai che era bravo. Ma come potevo pensarlo? Come potevo capirlo? Non ero vissuto nella sua epoca, in teoria non avevo il metro per capire quel tipo di musica. Però potevo fare dei paragoni con i criteri e i canoni che il tempo, passando, aveva stabilito per quel genere di musica. E’ questo che penso: che l’arte moderna può essere apprezzata solo da un punto di vista soggettivo. Bisogna viverla, per capirla, devi farne parte. E’ difficile che l’arte moderna sia ‘oggettivamente’ apprezzata, questo tipo di accettazione arriva solo dopo, quando già l’arte di cui si sta parlando fa ormai parte del passato. E’ per questo che fatico a dare una risposta alla tua domanda. Però un parere me lo sono fatto: c’è troppa quantità. C’è troppa musica. C’è tanta più musica di quando eravamo giovani noi… e questo fa sì che ci sia anche tanto talento, molto più di quanto ce ne sia mai stato in altri periodi. Ma non sembra che questo ambiente fornisca l’aria sufficiente per maturare questo talento, per permettergli di svilupparsi appropriatamente. Molte band passano un periodo iniziale sull’ordine dei cinque anni, rimangono sulla cresta dell’onda per una decina d’anni, ma poi scompaiono. C’è troppo movimento, troppa dinamica che distrae le persone con nuove mode, e non fornisce il tempo a questo talento di mettere le radici per sempre. Quindi osservo la qualità dei singoli musicisti o delle singole band, ma non vedo la possibilità per loro, in un ambiente così difficile e movimentato, di rimanere e poter raggiungere un livello di notorietà più duraturo. E’ un peccato, ma questa è la mia visione…”.

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