Intervistare Devin Townsend è al tempo stesso un piacere ed una sfida per il suo interlocutore. Un piacere, prima di tutto, perché Devin è una persona acuta, gentile, mai arrogante o altezzoso, nonostante la propria enorme carriera artistica. Diventa, però, anche una sfida, dicevamo, perché come ogni persona dotata di vero genio, non riesce a vivere la sua arte ed il suo lavoro in termini razionali e si trova quindi in difficoltà di fronte alla richiesta più o meno esplicita di raccontare il suo processo creativo, che nasce impulsi naturali e spontanei. Nonostante questo, però, Devin non si tira mai indietro e fa il possibile per farci entrare in contatto con “Lightwork”, un disco molto personale che abbiamo apprezzato e che rappresenta la perfetta risposta di Devin all’oscurità incombente. Ecco quello che ci ha raccontato.
DEVIN, IL NUOVO ALBUM, “LIGHTWORK, CI SEMBRA UN LAVORO PIU’ LINEARE E RIFLESSIVO RISPETTO AL PASSATO. TI VA DI RACCONTARCI COME SI E’ SVOLTO IL PROCESSO CREATIVO CHE TI HA PORTATO A PUBBLICARLO.
– Il mondo intero ha passato un periodo talmente negativo che la mia reazione a tutto ciò è stata l’esatto l’opposto di ciò che mi circondava: non volevo fare qualcosa di distruttivo, ma di costruttivo. Ho scritto le nuove canzoni con la prospettiva di fare qualcosa che mi facesse stare bene, in un periodo in cui tutto era difficile. Inoltre ho scritto l’album fin da subito con l’idea di coinvolgere il produttore Garth Richardson: per cui io scrivevo, preparavo il materiale, glielo sottoponevo, e poi lavoravamo assieme su una parte degli arrangiamenti. Questo metodo di lavoro è qualcosa di nuovo, per me, e ha influito molto sul risultato finale, che è un po’ la somma di questi due fattori chiave.
QUINDI QUAL E’ STATO IL RUOLO EFFETTIVO DI GARTH?
– Inizialmente il suo ruolo doveva essere quello di produttore, in realtà con il passare del tempo siamo diventati co-produttori. Credo di avere una visione molto forte di come deve essere la mia musica e penso di sentire la necessità di mantenere un certo grado di controllo, anche per quanto riguarda la produzione. Lui però ha avuto un forte impatto sull’album, mi ha aiutato molto con gli arrangiamenti, nell’espandere alcune idee musicali, liriche o melodiche. Mi ha dato tanti spunti e alla fine posso dire che è stata un’esperienza positiva, ma non è stato facile.
LEGGENDO LE NOTE CHE ACCOMPAGNANO L’ALBUM, CI SEMBRA DI CAPIRE CHE QUESTO DISCO E’ FRUTTO DI UN MOMENTO DI RIFLESSIONE MOLTO INTIMA. QUALI TEMATICHE AFFRONTI NELLE NUOVE CANZONI?
– Se guardi la copertina, troverai rappresentato un faro: il faro è ciò che consente alle navi di navigare senza schiantarsi sugli scogli e quindi, a voler leggere questa metafora dal mio punto di vista, io mi sento come una di queste navi e il mio faro è la musica. E’ stato un periodo talmente folle che mi sono sentito come se mi mancasse il terreno da sotto i piedi, e potermi concentrare sulla musica è stata una di quelle cose che mi ha permesso di mantenere una certa stabilità. I testi, in un certo senso, ruotano intorno all’essere comprensivo verso di me: c’è stato un periodo in cui sono stato molto duro con me stesso, mi sono rivolto parole che non avrei mai usato nei confronti di un amico, una cosa che durante la stesura di “Lightwork” ho provato a cambiare.
ANCHE MUSICALMENTE L’ALBUM E’ MOLTO DIVERSO DA “EMPATH”, CHE ERA UNA VERA E PROPRIA ESPLOSIONE DI COLORI. COME SEI ARRIVATO A QUESTA SCELTA STILISTICA?
– Non l’ho scelto, è successo. Quando compongo musica, l’unica cosa che mi guida è che il risultato finale sembri adatto e appropriato, ma mi muovo sull’impulso del momento, per intuizioni. “Empath” nasceva da un momento completamente diverso, così come gli album degli Strapping Young Lad, o Ziltoid: la scrittura di “Lightwork” per me è stata un’esplosione, ma non c’erano molti colori…
E’ MOLTO BELLA L’IMMAGINE DELLA MUSICA VISTA COME UN FARO A GUIDARCI NELLA TEMPESTA. IMMEDIATAMENTE CI VIENE IN MENTE UNA DELLE NUOVE CANZONI, “LIGHTWORKER”. PARLA DI TE? SEI UN ‘OPERATORE DI LUCE’?
– Non saprei, forse… Forse no. La canzone nello specifico non parla di me, ma di Richard Alper, che negli anni Sessanta scrisse un libro intitolato “Be Here Now” e che è deceduto recentemente. Lui è diventato una sorta di guida spirituale e io avevo letto il suo libro quando avevo più o meno vent’anni. Ho sempre trovato interessante la sua figura; quando morì, contattammo la sua fondazione, la Ram Dass Foundation, per chiedere il permesso di usare una delle sue citazioni in una delle canzoni. Loro ovviamente non sapevano chi fossi e probabilmente saranno andati online e avranno ascoltato qualcosa, magari degli Strapping: sicuramente hanno pensato, “no, no, non vogliamo averci niente a che fare”. Io però ho insistito e ho chiesto loro di ascoltare prima la canzone e pian piano hanno iniziato ad apprezzarla. Ora, alla fine della canzone, c’è una citazione con una traccia vocale, che è proprio la voce di Richard Alper. “Lightworker” quindi parla di lui e di tutte le persone come lui. Se poi anche io possa essere un ‘lightworker‘? Non saprei davvero. Tu lo sei?
NON SO, SPERO DI SI’, ALMENO PER QUALCUNO…
– Mi sembra una buona speranza, lo stesso vale per me e ti dò la stessa risposta. Ma sarei molto arrogante ad andare più in là di così.
VORREMMO CHIEDERTI QUALCOSA DI “MOONPEOPLE”: COME E’ NATA QUESTA CANZONE E PERCHE’ L’HAI SCELTA COME PRIMO SINGOLO PER L’ALBUM?
– Non posso cavarmela con “non lo so”, vero? (ride, ndR) Io scrivo musica in maniera costante, in continuazione, e poi scelgo quello che ritengo essere degno di essere ascoltato. Registro e metto tutto dentro a delle cartelle del mio computer: poi alcune le rielaboro, altre le metto via e ci torno per progetti successivi e così via. Questa volta, grazie all’aiuto di Garth, il processo è stato diverso, perché facevo ascoltare a lui questi demo, per avere un suo parere. A lui è piaciuta molto “Moonpeople” e abbiamo lavorato assieme all’arrangiamento. Credo che la scelta sia caduta su questa canzone per inizia con un verso che dice “Ode to the unknown” (ovvero ‘ode all’ignoto’, ndR), che ci è sembrata una descrizione perfetta di questo periodo. Chi sa che cosa succederà? La pandemia, la guerra, gli alieni, chissà cos’altro ci sarà? Ci è parsa una scelta appropriata, condivisa da me, da Garth e dalla Sony.
SIAMO RIMASTI MOLTO STUPITI ANCHE DA UNA CANZONE COME “VACATION”, MOLTO LONTANA DAI TUOI STANDARD ABITUALI.
– Mi piace quella canzone! Sto facendo interviste da un paio di settimane e mi è capitato spesso che mi chiedessero perché avessi scritto questa canzone, o di cosa parlasse, aspettando un qualche significato più profondo. Forse la vacanza è una metafora di qualcos’altro? Invece no, sono solo andato in vacanza con la mia famiglia ed è tutto qui.
E DOV’ERI ANDATO IN VACANZA?
– A Disneyland! E’ fondamentale per me scrivere di cose che sono importanti per me. Possiamo passare tanto tempo ad analizzare una canzone, per capire se è adatta ad un album, se si rivolge ad un pubblico piuttosto che ad un altro, se avrà delle chance di andare in radio: ogni volta che mi sono trovato a fare questi ragionamenti, il risultato finale non mi ha mai convinto. Voglio essere autentico e proteggere questa autenticità ad ogni costo, anche se questo significa essere meno popolare e raggiungere meno persone. Se una canzone non significa niente per me, non mi interessa, mi annoia. Per altri non sarà così, ma per il mio materiale funziona così. Quest’album avrebbe potuto essere molto diverso e, chissà, magari avrebbe potuto avere molto più successo commerciale se fossi andato avanti in quella direzione, ma non mi convinceva. Quando parlavo della mia necessità di avere il controllo, non è una questione di paura: è che se non sento che una cosa è giusta per me, allora è sbagliata. Una canzone come “Vacation” parla di qualcosa di cui ho esperienza, con cui mi posso relazionare, di cui riconosco le emozioni. Spero che coloro che ascolteranno questa canzone a loro volta possano provare delle sensazioni simili a quelle che ho provato io quando le ho vissute.
SE DOVESSIMO CITARE UN BRANO CHE CI SEMBRA POSSA ESSERE VICINO A QUELL’ESPLOSIONE DI COLORI A CUI FACEVAMO RIFERIMANTO PRIMA, PROBABILMENTE SCEGLIEREMMO “CHILDREN OF GOD”.
– Quando scrivo tendo a pensare in termini di colori, ma la scrittura di “Lightwork” all’inizio per me era priva di colore. Mi piacerebbe raccontarti qualcosa di più intrigante sulla nascita di “Children Of God”, tipo che ero sulla cima di una montagna, il sole stava sorgendo e cose così, ma la verità è che ho solo preso la chitarra e l’ho scritta, sul divano, mentre guardavo un programma di cucina in TV (ride, ndR). Però ho fatto fatica a trovare un colore per quest’album, perché appunto non c’erano molti colori nel momento in cui è stato scritto. Non riuscivo nemmeno bene a capire la natura dell’album e così ho iniziato ad esplorare queste tematiche nautiche: l’acqua, la nave, il faro… E a quel punto è emerso questo colore, un blu delicato, acquamarina, cose così. Quando mi sono trovato a scegliere il materiale, ho cercato cose che stessero bene con questo concetto. Molto del materiale restante, invece, è finito su un secondo disco, intitolato “Nightwork”, in cui ci sono le cose più strane, che non avevano lo stesso colore.
HAI ANTICIPATO LA DOMANDA SUCCESSIVA: “NIGHTWORK”, QUINDI, CONTIENE TUTTO CIO’ CHE NON ERA ADATTO A “LIGHTWORK”.
– Sì, l’ho fatto praticamente per ogni mio disco recente: “Empath” aveva un disco bonus, lo stesso “Transcendence”, “Epicloud”, “Casualties Of Cool”… Il motivo è che io scrivo costantemente e quando si tratta di capire quali canzoni si adattano meglio al periodo della vita che sto vivendo, entro in queste cartelle ed inizio una selezione: questa sì, questa no, questa sì, questa no. Queste canzoni sono completate, diciamo, all’80%; una volta scelte le dieci canzoni di un album, me ne trovo magari altre dodici che sono quasi pronte, ma che magari non si adattano all’atmosfera del disco. Per me è liberatorio gestire tutto così, perché potrei semplicemente fregarmene e mettere tutto assieme, senza pensarci, ma così ha più senso e “Nightwork” è proprio un esempio perfetto di questo processo.
DURANTE GLI ANNI DELLA PANDEMIA, TU SEI STATO UN ARTISTA MOLTO ATTIVO: HAI PUBBLICATO SEMPRE MATERIALE INEDITO, IMPROVVISAZIONI DI CHITARRA, HAI REALIZZATO CONCERTI IN LIVE STREAMING, ATTIVITA’ DI BENEFICENZA… E’ STATO UN MODO PER REAGIRE ALLA PANDEMIA STESSA?
– Non solo alla pandemia, ma a tutto ciò che è successo come conseguenza: tanti musicisti non hanno potuto continuare, tante band si sono sciolte e i musicisti hanno dovuto cercarsi un lavoro ‘normale’. Non volevo fare questa fine, perché amo quello che faccio. Molte di queste iniziative, quindi, sono state un modo per restare a galla in questa situazione e mi piace pensare che, in una minima parte, questo sia stato d’aiuto anche ad altri. E’ vero, abbiamo fatto dei concerti di beneficenza per raccogliere fondi per gli ospedali, cose così, ma alla fine si trattava di questo: restare a galla in questa tempesta. Riuscire a tenermi un lavoro, far sì che chi mi era vicino non impazzisse, prendermi cura dei miei genitori che stanno invecchiando, dei miei fratelli… Ho amici che si sono tolti la vita in questo periodo così difficile. Durante la pandemia ho pubblicato anche un altro disco che si intitola “The Puzzle” e quello è un lavoro che parla molto di più del caos, mentre per “Lightwork” ho avuto un approccio mentale quasi militare. Era un modo per dire “non posso permettere che questa cosa mi sconfigga, non verrò abbattuto da questa situazione, mi rifiuto di farlo”. Quindi sì, è un album che parla anche della pandemia, ma dal punto di vista di qualcuno che non vuole permettere alle tenebre di prendere il sopravvento.
VOLEVAMO CHIEDERTI PROPRIO QUALCOSA SU “THE PUZZLE” E ANCHE SU “SNUGGLES”, DUE PROGETTI CHE HAI PUBBLICATO PRIMA DI “LIGHTWORK”.
– Questi dischi contengono alcune delle cose che amo di più di tutta la mia produzione: quasi nessuno li ha sentiti e ad ancora meno sono piaciuti! Ma io li amo! Due album, un film, sessanta musicisti, un concept che secondo me è eccezionale… E’ un peccato che siano passati così in sordina, ma forse tante persone non li avrebbero nemmeno veramente capiti, o non avrebbero nemmeno voluto capirli o apprezzarli. A me invece piacciono da morire.
C’E’ UN ALTRO PROGETTO CHE SIAMO MOLTO CURIOSI DI SENTIRE, “THE MOTH”, IL TUO ALBUM ORCHESTRALE.
– Ci sto lavorando ma la pandemia mi ha bloccato: “Lightwork” e “The Puzzle” sono due lavori che non mi aspettavo e che hanno messo tutto in disparte per un po’. Hai bisogno di ispirazione per scrivere e questa viene dalla tua vita e se la tua vita cambia in maniera drastica, lo stesso succede al lavoro che stai realizzando. Ho ripreso a scrivere per “The Moth”, ma molto più lentamente. Sto finendo dei lavori nel mio studio personale, per poi potermi concentrare su questo progetto e vedere cosa ne sarà. Mi piace pensare che “The Moth” possa essere il mio prossimo album, ma forse no, non lo so. Io continuo a lavorarci, comunque e prima o poi si farà. La pandemia però ha avuto un impatto così forte, che è difficile riconnettersi con qualcosa che è iniziato prima che scoppiasse.
E’ VERO CHE HAI DA PARTE UNA LISTA DI PROGETTI CHE NON HAI ANCORA REALIZZATO? COSA CONTIENE?
– Voglio scrivere musica per la meditazione, voglio fare un musical, voglio creare un trio, voglio scrivere della musica super pop totalmente aliena, voglio fare qualcosa in cui suono principalmente il basso… Ho tante idee, questa lista continua a crescere, ma qualche volta alcune voci scompaiono e non sembrano più importanti come quando me le ero segnate.
LA SCORSA ESTATE ABBIAMO AVUTO L’OCCASIONE DI ASSISTERE AL TUO CONCERTO ALLO SWEDEN ROCK FESTIVAL. E’ STATO UN CONCERTO MUSICALMENTE BELLISSIMO, MA ANCHE MINIMALE: NIENTE BACKDROP, POCHI MUSICISTI. DOBBIAMO ASPETTARCI QUALCOSA DEL GENERE ANCHE PER IL TOUR DI “LIGHTWORK” O SARA’ QUALCOSA DI ANCORA DIVERSO?
– Non lo so ancora con certezza, però è possibile che al momento non mi possa permettere più di quanto hai visto. E’ un peccato, perché mi piacerebbe molto avere uno stage ed uno show enormi, ma preferisco comunque partire e suonare per le persone, piuttosto che stare a casa perché non posso avere maxi-schermi e proiettori dietro di me. In questo momento, a meno che tu non sia i Rammstein, devi stare molto attento a contenere i costi, perché è diventato tutto estremamente caro. Inizieremo tra un paio di settimane a lavorare sullo show e per allora avrò le idee più chiare: per ora posso dirti che vorrei uno show che rappresenti il mio catalogo, ma che al tempo stesso preveda molta più reinterpretazione ed improvvisazione. Non so ancora come sarà composta la band, forse qualche persona in più rispetto allo show in Svezia. Dobbiamo rassegnarci al fatto che le cose oggi sono molto diverse: quando abbiamo fatto il tour di “Empath”, sul palco con me c’erano dieci persone, e alla fine abbiamo avuto una perdita di un quarto di milione di dollari… Ed era prima della pandemia! Posso dire che farò del mio meglio e spero che questo basti per le persone che verranno a vederci.