Abbiamo speso molte parole per cercare di descrivere il mastodontico nuovo lavoro di Devin Townsend, tornato a stupire con un album tanto sfaccettato da essere spiazzante. Nonostante questo, però, siamo ancora ben lontani dal riuscire a convogliare l’enorme quantità di spunti e colori che sgorgano dalle tracce di “Empath”. Chi meglio di Devin stesso può aiutarci a trovare la giusta chiave di lettura per capire l’opera che abbiamo ascoltato? Abbiamo dunque scambiato una piacevole chiacchierata con il geniale artista canadese, che ci ha raccontato di questo suo viaggio alla scoperta della sua mente e delle emozioni che l’hanno guidato nel corso della composizione, il tutto all’insegna della più totale e anarchica libertà.
CIAO DEVIN, TI VA DI INIZIARE RACCONTANDOCI QUALI SONO LE MOTIVAZIONI CHE TI HANNO SPINTO A CONCLUDERE L’ESPERIENZA DEVIN TOWNSEND PROJECT?
– Certo, prima di tutto voglio dire che la band è sempre stata grandiosa e mi sono sempre divertito con loro. Però si trattava di una rock band, di una heavy metal band, o di una hard rock band, scegli tu quale definizione dare. E questo comporta dei limiti, indipendentemente dallo stile dei singoli musicisti, o dalla vastità di ciò che amano o non amano suonare, o anche solo dalle limitazioni imposte dall’essere solo quattro-cinque persone. Avevo la sensazione di aver ‘finito la benzina’ in un contesto come questo: avevo la necessità di poter dire “ok, questo musicista suona questo mentre non suona quest’altro, quindi ho bisogno di persone nuove: qui mi serve un’altra voce, qui un altro bassista e via dicendo”. E questo è importante perché è necessario per poter seguire la musica lungo la strada su cui mi sta indirizzando: compromettere questa visione scegliendo un gruppo di persone predefinito non sarebbe stato altrettanto interessante.
IN UNA DELLE PUNTATE DEL DOCUMENTARIO DI PRESENTAZIONE DI “EMPATH”, RACCONTAVI COME IN PASSATO TI VENISSE SPONTANEO ASSOCIARE OGNI TUO DISCO AD UN COLORE DOMINANTE, MENTRE CON IL NUOVO ALBUM QUESTO NON E’ STATO POSSIBILE. POSSIAMO DIRE CHE “EMPATH” E’ LA SUMMA DI TUTTI I COLORI DELLO SPETTRO DI DEVIN TOWNSEND?
– Sì, penso proprio che sia così, almeno ad oggi. Dietro al concept dell’album c’è il fatto che ormai inizio ad essere un uomo di mezza età: ho quarantasette anni e questo mi porta a fare delle riflessioni, che necessitano di analizzare il rapporto con il mio passato e le mie emozioni. E nel fare questo mi sono reso conto di avere emozioni e colori molto diversi dentro di me. Ho fatto in modo che tutto ciò venisse fuori e la combinazione tra la maturità e il desiderio di descrivere quello che sento da un punto di vista emotivo ha dato vita ad un lavoro che non ha un colore predominante, ma che è più vicino all’arcobaleno.
VORREI CHIEDERTI UN PENSIERO SUL TEMA DELL’EMPATIA. LO CONSIDERI UN VALORE IMPORTANTE? FORSE, A PENSARCI BENE, E’ UNA DELLE COSE DI CUI ABBIAMO PIU’ BISOGNO, MAGARI MOLTI PROBLEMI SI POTREBBERO RISOLVERE PIU’ FACILMENTE…
– Non credo di essere abbastanza intelligente da poterti dire cosa potrebbe migliorare il mondo: onestamente non lo so, ho sempre vissuto in un ambiente protetto e ogni storia ha così tanti aspetti e punti di vista che davvero non saprei dirlo. Tuttavia, nella limitata esperienza che coinvolge me e le persone che mi circondano, mi sono reso conto che in molte occasioni è stato di grande aiuto fermarsi, prendere fiato e provare a capire le motivazioni che si nascondono dietro alla rabbia degli altri. provare a mettersi nei loro panni e a quel punto decidere se accettare il loro punto di vista e capire se e come convivere con esso. Quindi, da un punto di vista pratico, un certo livello di empatia, almeno a me, è servito. Su una scala più vasta non saprei, forse sarebbe semplicistico dire che basterebbe una maggiore empatia, ma certamente la sensazione è che ci sia un sacco di gente che sembra non avere tempo per i sentimenti altrui, e questo di certo non aiuta!
SE C’E’ UN AMBITO IN CUI SEMBRA ESSERCI UNA FORTE MANCANZA DI EMPATIA, QUELLO E’ IL MONDO DEI SOCIAL MEDIA. FORSE PER IL FATTO DI NON AVERE UN CONFRONTO DIRETTO, DI INTERAGIRE ATTRAVERSO LA MEDIAZIONE DI UNO SCHERMO. QUAL E’ IL TUO RAPPORTO CON IL MONDO DEI SOCIAL? LI USI IN PRIMA PERSONA?
– Sì, li uso molto. Lo faccio per lavoro, ma anche per divertimento, perché se è vero che le persone non hanno un vero rapporto diretto, faccia a faccia, è anche vero che resta comunque un modo per entrare in contatto con gli altri e questa è una buona cosa. Tuttavia sono convinto che ci sia una mancanza di responsabilità legata al mondo dei social media. È una delle conseguenze dell’anonimato, una cosa che appartiene alla natura umana: se una persona sa di poter non essere ritenuto responsabile di ciò che dice o fa, può lasciarsi andare a comportamenti terribili, per qualunque ragione. Ancora una volta non saprei spiegare le motivazioni che ci sono dietro, ma ne abbiamo evidenza tutti i giorni, anche sui social media. È una delle caratteristiche del nostro tempo, qualcosa che dobbiamo affrontare, ma non sono uno di quelli che pensa che sarebbe meglio chiuderli del tutto definitivamente, perché, come dicevo, è un modo per connetterci con le altre persone e ho avuto anche esperienze nei social media che sono assolutamente positive e salutari.
NEL RACCONTARE IL CONCEPT DIETRO AD “EMPATH” HAI USATO UN’IMMAGINE: UN UOMO SOLO, CHE SI RITROVA SU UN’ISOLA DESERTA, CIRCONDATO DA MOSTRI E ANIMALI. TI VA DI SPIEGARCI PIU’ NEL DETTAGLIO DI COSA SI TRATTA?
– Certo, è un’analogia della mente. Tu sei la persona sull’isola, che a sua volta rappresenta la tua mente, il tuo ego. I mostri e gli animali sono i tuoi pensieri. Il concept dell’album è proprio un’esplorazione di quest’isola, nella speranza di raggiungere la cima della montagna che è posta proprio al centro dell’isola. La cima della montagna rappresenta la creazione di una connessione con se stessi, riappacificarsi con l’idea che tutto questo orrore e tutta questa bellezza convivano all’interno di ciascuno. Chissà, forse il prossimo capitolo di questa storia sarà su cosa succede una volta stabilita questa connessione, non lo so ancora. Quello che è certo è che l’isola rappresenta la mente dell’esploratore.
E NELLA TUA ISOLA, CHI SONO I MOSTRI PIU’ TERRIBILI E QUALI GLI ANIMALI PIU’ FEDELI?
– Sono sempre io! Il desiderio di registrare quest’album nasce proprio da questo, dal voler conoscere me stesso, confrontarmi con le mie paure così come con le mie gioie, fare pace con la parte di me di cui avevo paura e stringere amicizia con quella parte che invece mi è utile. Penso, però, che questo non valga solo per me ma per tutti: temiamo il nostro passato, il nostro io più profondo (o almeno per me è così), tanto da cercare di vivere la nostra vita cercando il più possibile di non doverci fare i conti. Con quest’album ho cercato di mettermi invece nella condizione di non avere altra scelta se non quella di affrontare queste paure e, sebbene ci sia ancora tanta strada da fare in termini di crescita personale, credo di aver fatto un notevole passo avanti nel cercare di entrare in contatto con questi mostri e animali.
NELL’ALBUM TROVIAMO MOLTI OSPITI, PRIMO TRA TUTTI MIKE KENEALLY, BEN TRE BATTERISTI, STEVE VAI, ANNEKE… COME TI SEI APPROCCIATO AL LORO LAVORO? VOGLIO DIRE, HANNO SEGUITO LE TUE INDICAZIONI O IL LORO CONTRIBUTO E’ STATO PIU’ ATTIVO?
– Ho chiesto loro di seguire le mie indicazioni ma lasciando comunque un ampio margine di libertà. Provo a spiegartelo così: è come se avessi detto a ciascuno di loro, ecco, questa è la strada che ho tracciato, con i suoi confini e la direzione: all’interno di questi confini potete agire con assoluta libertà, potete andare piano o correre veloce, quello che preferite.
SAREBBE MOLTO INTERESSANTE APPROFONDIRE UNO PER UNO TUTTI I BRANI DELL’ALBUM, MA PURTROPPO NON ABBIAMO ABBASTANZA TEMPO. QUINDI MI LIMITERO’ GIUSTO AD UN PAIO: LA PRIMA E’ “WHY?”, UNA COMPOSIZIONE SORPRENDENTE, CHE SEMBRA USCIRE DA UN MUSICAL DI BROADWAY, E CHE LASCIA ESTERREFATTI ANCORA DI PIU’ VENENDO DOPO “HEAR ME”, CHE INVECE E’ IL BRANO PIU’ AGGRESSIVO DELL’ALBUM.
– (ridacchia, ndR) Sì, “Why?” rappresenta uno stile musicale che amo fin da quando ero un bambino: ho sempre amato i musical, ci sono cresciuto e mi sono interessato ad essi ancora prima che nascesse la mia passione per la musica heavy. Quando ero un ragazzo c’erano i grandi musical degli anni Settanta, come “Jesus Christ Superstar”, “Il fantasma dell’Opera”… davvero, ci sono cresciuto, sono state le opere che mi hanno fatto capire il rapporto tra la musica e le emozioni, come certe tonalità descrivessero alla perfezione le emozioni che provavo. Per un bambino è un metodo straordinario di apprendimento. Ho sempre voluto fare un vero e proprio musical, qualcosa in pieno stile Broadway e negli ultimi tre-quattro anni ho lavorato proprio ad un musical intitolato “The Moth”, che è completamente separato da “Empath”. Tuttavia ero consapevole che se avessi pubblicato “The Moth” senza nessun tipo di ‘avvertimento’… (ride, ndR)
SAREBBE STATO UNO SHOCK!
– Esatto, un vero e proprio shock. In un certo senso “Why?” funziona bene non solo perché segue “Hear Me”, creando quindi un interessante contrasto, ma anche perché mi servirà per ammorbidire il colpo per quando uscirà un mio ‘musical’!
L’ALTRA COMPOSIZIONE PER LA QUALE VORREI UN TUO COMMENTO E’ “SINGULARITY”, UNA SUITE ENORME, CHE RACCOGLIE UN’INFINITA’ DI SPUNTI E SONORITA’…
– “Singularity” è stata una delle prime cose che ho composto e mi ha occupato parecchio tempo, perché l’ho dovuta registrare in sei diverse sezioni, ma è stata anche la composizione che per prima ha dato forma al feeling generale dell’album. Dopo “Singularity” ho registrato molti altri pezzi, ma alcuni suonavano come “Transcendence”, altri come “Epicloud”, altri come “Ziltoid”… non avevo ancora una direzione precisa. Poi mi sono reso conto che l’idea dell’isola e del protagonista che vi arriva, sarebbe stata perfettamente rappresentata da una sorta di epico viaggio di un eroe. Mi serviva una progressione, da un punto di vista musicale; ho pensato che, affinché questo viaggio fosse chiaro all’ascoltatore, fosse necessario utilizzare molteplici stili, o mondi, se vuoi. L’idea è quella di un uomo che si trova prima immerso nel mare e che poi arriva sulla spiaggia e incontra questo strano gruppo di bellissimi animali. Poi si ritrova a fronteggiare dei mostri, arrivando infine alla decisione di creare una propria forma di intelligenza artificiale, una forma di vita che però si ribella, dando inizio ad una sorta di Apocalisse, un punto di non ritorno. Ed è a quel punto che il protagonista prende coscienza del fatto che tutto questo non è altro che il frutto della propria mente e questa consapevolezza gli permette di creare una connessione non solo con la propria umanità ma anche con gli altri. Volevo che questa storia venisse descritta non solo in generale all’interno dell’album, ma anche attraverso un’unica lunga canzone: “Singularity”, appunto.
POSSIAMO DIRE CHE L’ESPERIENZA CON L’ORCHESTRA PER IL CONCERTO DI PLOVDIV, IN CUI HAI RIPROPOSTO PER INTERO “OCEAN MACHINE”, SIA STATA UN’ISPIRAZIONE PER L’APPROCCIO SINFONICO DI “EMPATH”?
– In realtà la vedrei dal punto di vista inverso: penso che il mio approccio sinfonico, che si è sviluppato un po’ per volta negli ultimi anni, mi abbia portato a realizzare quello show. Diciamo che l’opportunità del concerto “Ocean Machine Live” di Plovdiv è stato un modo per fare pratica rispetto a questo aspetto della mia musica, in vista della realizzazione di “Empath”, piuttosto che un’influenza diretta vera e propria.
COME PENSI DI PORTARE IN SCENA DAL VIVO UN ALBUM COMPLESSO COME QUESTO? CHI SARANNO I TUOI COMPAGNI DI VIAGGIO ORA CHE LA BAND NON C’E’ PIU’?
– Non lo so ancora… (ride, ndR). Sto facendo delle audizioni con diverse persone, ma, esattamente come in fase di scrittura, sto aspettando che la visione che ho in mente, lentamente vada a chiarirsi. Ho delle idee, ovviamente, che si stanno formando proprio in questi giorni, su chi vorrei includere, su come vorrei impostare lo spettacolo, anche da un punto di vista visivo, ma ancora tutto è in una forma molto grezza, informe. Quindi al momento la risposta migliore che posso darti è che sto raccogliendo i pezzi, mentre il quadro generale va pian piano a chiarirsi. Tra un mesetto, più o meno, le cose già dovrebbero essere più definite, ma al momento c’è solo questa specie di blob grigio!
IMMAGINO PERO’ CHE NON SARA’ POSSIBILE RIDURRE IL TUTTO ALLA CLASSICA FORMAZIONE ROCK, AVRAI BISOGNO DI QUALCOSA DI PIU’…
– Assolutamente, e anzi, aggiungo questo: se c’è una cosa che al momento ho ben chiara è che non voglio utilizzare basi pre-registrate. Voglio che ci siano delle vere persone a suonare i brani, anche se ovviamente non sarà semplice, perché servirebbe un gran numero di persone per riprodurre tutto dal vivo. Quindi ci sono diversi aspetti da valutare: in primo luogo di natura economica, perché ovviamente uno show con queste caratteristiche è costoso; ma anche di natura personale, perché vorrei che fossero le persone giuste, le più adatte a suonare quelle parti. Sarebbe facile scegliere quattro-cinque persone e poi circondarci di Mac e laptop, potremmo fare tutto così; invece quello che mi piacerebbe avere potrebbe essere composto così: tre chitarre, con stili molto diversi, di cui una ad occuparsi delle parti ambient, l’altra di supporto nei passaggi più pesanti; un bassista, un percussionista, due tastieristi, una sezione d’archi, un piccolo coro, con voci sia maschili che femminili… Si tratta di avere una quindicina di persone sul palco, capaci di ricreare dal vivo il sound del disco. Veri musicisti che suonano, non uno show di karaoke, capisci?
QUESTA E’ UNA SPLENDIDA NOTIZIA E, ANZI, CON QUESTE PREMESSE, SPERIAMO CHE UNO SHOW DI QUESTO TIPO POSSA CONCRETIZZARSI ANCHE DA NOI IN ITALIA.
– Anche a me piacerebbe portare questo concerto in Italia, ovviamente. Non posso ancora darti notizie, però, perché al momento siamo ancora in questa fase di progettazione sulla pura e semplice logistica.
TEMPO FA ERA USCITA UNA TUA INTERVISTA IN CUI DICEVI DI ESSERE AL LAVORO SU QUATTRO DIVERSI PROGETTI: UNO OVVIAMENTE E’ “EMPATH”, L’ALTRO, DI CUI ABBIAMO PARLATO POCO FA, E’ “THE MOTH”, COSA PUOI DIRCI INVECE DEGLI ALTRI DUE?
– Sai, in realtà non so ancora esattamente come andranno le cose, perché gran parte del mio processo creativo avviene in tempo reale: vengo intervistato molte volte nel corso dell’intero anno e quello che esce come dichiarazione riflette quello che è il mio stato d’animo e le mie intenzioni di quel momento. Quindi se è vero che certamente “The Moth” sarà un progetto a sè, completamente separato dal resto, una grossa parte delle altre idee che avevo in mente, e di cui avevo parlato in quell’intervista, sono finite per concretizzarsi direttamente in “Empath”. Ho da parte ancora un po’ di idee per un paio di progetti, più piccoli: qualcosa di acustico, magari un nuovo capitolo di “Ziltoid”…
MAGARI ANCHE UN NUOVO CAPITOLO DEI CASUALTIES OF COOL?
– Abbiamo pronte due canzoni, che abbiamo scritto nel corso degli ultimi… quattro anni (risate generali, ndR)!
PUO’ VOLERCI ANCORA UN PO’!
– Sì, esatto, è un processo di scrittura un po’ lento… Comunque, sì, certamente non ho intenzione di abbandonare il progetto e sicuramente prima o poi ci saranno delle novità in quel senso, ma al momento ci stiamo muovendo con molta calma.
INVECE HAI AVUTO MODO DI ASCOLTARE DEL MATERIALE SCRITTO DAI TUOI EX COMPAGNI NELLA LORO NUOVA BAND, GLI IMONOLITH?
– Oh sì, mi hanno fatto ascoltare l’intero disco! Non posso dirti molto, ma mi è piaciuto, ci sono delle grandi cose e sono molto contento che abbiano deciso di fare qualcosa assieme.
GRAZIE MILLE, DEVIN, PER QUEST’INTERVISTA. CHIUDIAMO CON UN’ULTIMA DOMANDA. L’IDEA DI TROVARSI NAUFRAGHI SU UN’ISOLA DESERTA A QUALCUNO PUO’ SEMBRARE UN PARADISO, PER ALTRI INVECE IL SOLO PENSIERO E’ UN VERO INCUBO. TU DA CHE PARTE STAI?
– Dipende dalle giornate! A volte non riesco a pensare a niente di meglio che stare su un’isola tropicale tutto da solo; in altre occasioni, invece, mi sembra che non ci possa essere niente di peggio che stare da solo con me stesso. Ecco, se c’è una cosa che è emersa in maniera chiara durante questo processo creativo è che sì, è vero, ci sono persone che possono essere responsabili di alcuni dei peggiori momenti della vita, la mia la tua, quella di tutti; però al tempo stesso ci sono persone che rendono altri momenti della vita i migliori in assoluto. Penso che non si possano ottenere i secondi, senza dover sopportare anche i primi. Ecco, la mia isola è così: metà è deserta, il luogo migliore in cui stare da solo; nell’altra metà invece abitano i miei amici e la mia famiglia.