Dopo aver esaminato nel dettaglio il loro nuovo lavoro in studio, abbiamo avuto modo di parlare con i prog metaller per antonomasia per immergerci ulteriormente nelle atmosfere oniriche e sognanti evocate in quel “A View From The Top Of The World” che comunque, nel bene o nel male, rappresenta uno dei lavori più ficcanti dell’anno ormai quasi concluso. Il nostro interlocutore è l’enigmatico e imperscrutabile bassista John Myung, attivo in formazione sin dagli esordi e, ad oggi, uno degli esempi più illustri ed ammirati della sua intera categoria strumentale. Inutile dire che non siamo in presenza della tipica chiacchierata di stampo caciarone, ma ammettiamo di essere rimasti piacevolmente sorpresi dalla loquacità del nostro virtuoso del sei corde, il quale in questa sede ci spiegherà non solo il processo che ha portato una formazione ancora così provvista di creatività ad immettere il suo ennesimo album sul mercato, ma anche cosa significa essere uno dei capisaldi di un intero filone musicale; anzi, probabilmente il più ambito da una foltissima schiera di musicisti con gli occhi rigorosamente puntati verso il futuro. In poche parole, oggi è tempo di capire in cosa consiste essere ‘progressive’ nell’anima. Buona lettura!
CIAO JOHN, DA SEMPRE OGNI ALBUM DEI DREAM THEATER GODE DI UN’ESSENZA PROPRIA. COME HA PRESO FORMA IL VOSTRO NUOVO LAVORO IN STUDIO?
– Ciao a tutti! Il primo brano si cui abbiamo iniziato a lavorare è anche il primo presente in scaletta, ossia “The Alien”, e per essa volevamo qualcosa che potesse trasmettere un alto contenuto di energia ed intensità emotiva, dotata magari di quelle vibrazioni che avevano fatto la fortuna del predecessore “Distance Over Time”, seppur con un range di emozioni potenzialmente ancora più ampio. Da questo punto di partenza si è sviluppato l’intero disco, non esageratamente lungo e provvisto di ben sette brani, con “Sleeping Giant” come secondo pezzo ultimato e “Transcending Time” come terzo, accoppiata che abbiamo deciso di mantenere anche all’interno della tracklist. Il quarto arrivo è stato “Answering The Call” e, nonostante la sua natura complessa potrebbe lasciar intendere diversamente, la lunga titletrack è stata ultimata come quinta canzone del pacchetto, con “Invisible Monster” e “Awaken The Master” a concludere i lavori.
Indipendentemente dalle singole soluzioni che abbiamo scelto di adottare, la nostra priorità era mettere insieme un album che ci facesse sentire felici e soddisfatti all’unanimità, dal momento che non è un compito facile riuscire a mettere d’accordo cinque menti diverse, con la possibilità che una possa intervenire col proprio pensiero appena un’altra mette giù la base di un’idea. Ciò a suo modo rappresenta anche il bello di essere in una band: quella particolare eventualità che si presenta, spingendo di fatto a continuare a impegnarsi affinché ogni musicista coinvolto possa trovare la propria soddisfazione ammirando l’opera ultimata, che poi di fatto potrà contare sul contributo artistico e compositivo di ognuno.
IL TITOLO SCELTO APPARE NEL CONTEMPO SEMPLICE E COMPLESSO: TU CHE TIPO DI SPIEGAZIONE FORNIRESTI IN MERITO?
– Credo che l’interpretazione più corretta risieda nel processo stesso che porta le persone a lottare per superare le proprie battaglie e le avversità ad esse associate. La vita a modo suo è un po’ come la scalata di una montagna altissima, irta di pericoli e non sempre provvista dei giusti appigli in evidenza. Ciò comporta un sacrificio e un impegno costante, con sempre quel rischio di cadere a tormentarci ogni volta che il suolo si fa più distante, mentre noi cerchiamo in tutti i modi di raggiungere una vetta che non siamo nemmeno del tutto certi esista. Allo stesso modo, se io guardassi dalla cima del mondo verso là dove tutti gli esseri umani vivono la propria quotidianità, ciò che vedrei è appunto una moltitudine di persone che lottano ogni giorno per le proprie necessità, e ciò risulta davvero molto ispirante per noi come musicisti e compositori, sempre alla ricerca di tematiche di cui parlare.
DOPO L’USCITA DELL’ALBUM, SI SONO POTUTI LEGGERE NUMEROSI PARERI IN MERITO, E SONO IN TANTI A RITENERE “AWAKEN THE MASTER” IL MOMENTO PIÙ INTERESSANTE. COSA PUOI DIRCI SU QUESTA PARTICOLARE TRACCIA?
– Allora, l’intero comparto musicale del suddetto brano ha preso vita a partire dalla volontà di John (Petrucci, ndr) di utilizzare la sua nuova chitarra a otto corde, e tutto questo si è svolto abbastanza in ritardo rispetto al resto dei lavori. Come ti dicevo prima, “Awaken The Master” è stata l’ultima traccia a prendere forma, e questo perché a Gennaio la band si è riunita per tirare le somme sull’andamento dei lavori, e in quella medesima sede abbiamo deciso tutti insieme di scrivere un ultimo brano che potesse permettere a John di mettere in pratica il suo proposito. Il risultato è un brano molto accattivante, a mio avviso, musicalmente molto intenso, potente e con un testo che di fatto si rivolge all’emotività umana: il vero ‘maestro’ che governa il mondo dovrebbe essere il cuore stesso delle persone, che di fatto si ritrovano ogni giorno ad affrontare questioni anche molto più grandi di loro, e per farlo spesso diventa necessario prestare orecchio proprio al proprio cuore che, in molte occasioni, viene un po’ lasciato da parte in favore di altro. Mi viene in mente un documentario che ho visto un po’ di tempo fa, in cui veniva spiegata l’eventualità che l’eccessivo progredire della tecnologia, e in generale di determinati ‘strumenti’, potesse col tempo portare l’uomo a perdere di vista il proprio io e le giuste priorità, verso se stesso e verso il mondo.
LE TUE PARTI DI BASSO ALL’INTERNO DEL DISCO SONO BEN DISTINGUIBILI: SU COSA TI CONCENTRI PRINCIPALMENTE NEL MOMENTO IN CUI TI DEDICHI A NUOVA MUSICA?
– Senza dubbio la mia priorità è che le mie mani non siano addormentate, bensì pronte ed efficienti per mettersi al lavoro, in modo da permettermi di sprigionare un sound in grado di appagare perfettamente quelle che sono le mie esigenze tecniche, sonore ed esecutive. Inoltre, è molto importante essere provvisti della giusta strumentazione: nel mio caso, mi sono servito ancora una volta del mio personale Music Man Bongo a sei corde e in sua compagnia devo dire che è stato davvero piacevole lavorare a questo nuovo album. Al tempo stesso, ho avuto modo di arricchire la mia esecuzione con altra strumentazione all’avanguardia, tra cui una nuova e compatta pedaliera per la distorsione, ovviamente progettata appositamente per adempiere alle mie esigenze. L’abbiamo battezzata ‘JM Double Drive’ per via dei due differenti canali distorsori e più di recente l’abbiamo immessa sul mercato, di modo che chiunque sia interessato la possa provare in prima persona.
FAI PARTE DELLA BAND SIN DALL’INIZIO: COME DESCRIVI L’ESSERE PARTE DI QUALCOSA DI TANTO GRANDE DA OLTRE TRENT’ANNI?
– Personalmente credo che sia grandioso, anzi di fatto è un sogno che si realizza. Tieni conto che ho diviso ben più di metà della mia vita con John, dai tempi in cui andavo con lui in bicicletta stringendo il basso in una mano, fino ad ora che calchiamo i palchi più importanti del mondo insieme ad altre persone che si sono aggiunte nel corso degli anni. Ricordo di quando incontrammo Mike Portnoy ai tempi del college, con cui comunque abbiamo avuto modo di avviare e proseguire la nostra avventura, immettendo sul mercato tanti album che hanno richiesto l’impegno collettivo di tutti noi. Purtroppo, come tutti ben sanno, le nostre strade si sono divise, ma anche dopo la sua uscita noi abbiamo continuato a fare ciò che facevamo prima, con un nuovo ingresso in pianta stabile dietro alle pelli (il batterista Mike Mangini, ndr) e sempre gli immancabili James (LaBrie, voce, ndr) e Jordan (Rudess, tastiere, ndr) ad arricchire ulteriormente le nostre esistenze. Siamo una famiglia in tutto e per tutto, amiamo ciò che facciamo e continuiamo a crescere insieme, mentre percorriamo quel lungo viaggio chiamato Dream Theater.
DOPO TUTTO QUEL CHE HAI FATTO CON LA BAND E COME MUSICISTA IN GENERALE, HAI ANCORA QUALCHE SOGNO IRREALIZZATO CUI ADEMPIERE?
– Sarò sincero, il mio principale obbiettivo ora come ora è continuare a fare ciò che sto facendo, nella speranza di poterlo fare sempre meglio fino al momento in cui non me la sentirò più, sperando a quel punto di essere arrivato a un punto tale da potermi ritenere pienamente soddisfatto. Del resto, c’è sempre qualcosa di nuovo da fare e da provare quando si ha la volontà di continuare a scoprirsi ogni giorno che passa.
GENERALMENTE, QUANDO SI PARLA DI ‘PROGRESSIVE’, CHIUNQUE PENSA AI DREAM THEATER COME PRIMO NOME. A TUO MODO DI VEDERE, COSA SIGNIFICA ESSERE ‘PROGRESSIVE’ OGGI COME OGGI?
– Credo che tra le varie spiegazioni in cui ci si imbatte abitualmente, la più coerente sia quella che associa il termine ‘progressive’ ad un processo, per l’appunto, di crescita. Come ti dicevo poc’anzi, non importa quanto si è vecchi e nemmeno da quanto tempo ci si trovi all’interno di una scena musicale, la cosa più importante è continuare a crescere, migliorare, maturare e comprendere finché non arriva il momento di lasciare prima il palco e poi questo mondo. Ciò si traduce in una costante ricerca di un miglioramento anche a livello esecutivo e compositivo, cercando man mano di donare nuova linfa alla propria musica, oltre che alla propria creatività in generale. Allo stesso modo, per favorire questo processo, ritengo sia buona iniziativa prendersi cura di se stessi e della propria salute, così da poter perseguire l’obiettivo di avere una vita lunga e sana, con sempre quell’energia e quella voglia necessarie per continuare a migliorarsi, come persone e come musicisti. Questo è ciò che significa essere ‘progressive’.