I Dream Theater sono da anni una band chiacchieratissima e l’arrivo, proprio in questi giorni, dell’omonimo “Dream Theater” sugli scaffali non ha fatto che dimostrarlo, monopolizzando a tratti l’attenzione di giornalisti e utenti su varie testate internazionali e del Bel Paese. Ma la cosa ha un senso… se con “A Dramatic Turn Of Events”, John Petrucci e soci dovevano dimostrare di poter sopravvivere senza il padre putativo Mike Portnoy, con questo nuovo album avrebbero dovuto dimostrare di poter ancora rendere onore ad un passato pieno di dischi amatissimi dai fan, e non solo di ‘sopravvivere’. Con questo onere da sostenere, la band formatasi a Boston più di venticinque anni fa opta quindi per una totale affermazione della propria personalità, incidendo a fuoco il proprio nome ovunque: sulla copertina, sul titolo, sulle composizioni. E’ quindi giusto dare a John Petrucci, oramai sempre più leader della band, la possibilità di illustrarci questo stato d’animo determinato, motivando le varie scelte che si nascondono dietro la realizzazione di “Dream Theater”…
SIETE SEMPRE MOLTO PUNTUALI NELLA PUBBLICAZIONE DI UN NUOVO DISCO, NON PASSANO MAI PIU’ DI DUE ANNI DAL PRECEDENTE… QUALI SONO STATE LE TEMPISTICHE QUESTA VOLTA? QUANDO AVETE COMINCIATO A COMPORRE E A REGISTRARE IL NUOVO “DREAM THEATER”?
“Abbiamo cominciato a lavorare alle composizioni all’incirca in febbraio. Abbiamo composto e registrato il tutto già a partire da quel mese, arrivando con gli ultimi ritocchi a maggio inoltrato. Dopo di che ci sono state la fase di mixing e di mastering. Direi quindi che per tutto il processo ci sono voluti circa sei mesi”.
CHE VELOCITA’! MA PARLIAMO DEL TITOLO. INTITOLARE UN ALBUM CON IL MONICKER DELLA BAND, SPECIE SE SI TRATTA DEL DODICESIMO LAVORO E NON DEL PRIMO, E’ UNA SCELTA FORTE…
“Sì, volevamo davvero mostrare al mondo che siamo veramente e al 100% convinti della musica che abbiamo creato. E’ un messaggio. Intitolare un lavoro col nome della band specie se, come dici tu, non si tratta neppure del primo, è una scelta che mostra coraggio e fiducia nel proprio operato. Perché marchi l’intero disco col tuo nome, e sottintendi che esso ti rappresenti pienamente. Una delle cose condivise sin dal principio era la certezza che ci occorreva realizzare un album che, appunto, ci riassumesse completamente, che portasse rispetto a tutto quello che c’è stato musicalmente nella nostra storia, ma non chiudesse alcuna porta sul futuro”.
LA COPERTINA E’ PURE MOLTO ESSENZIALE… UN PIANETA, IL NOSTRO FORSE, COL SOLO SIMBOLO DELLA BAND IN PRIMO PIANO. LO POSSIAMO INTENDERE COME UN ALTRO MODO DI METTERE LA BAND AL CENTRO DELL’ATTENZIONE?
“Hai colto nel segno, era esattamente quello che volevamo fare. La copertina dell’album è infatti molto semplice, essenziale. Questa mossa è stata pensata anche per creare una certa aspettativa, per non rivelare niente subito. All’esterno c’è appunto un pianeta, e il logo che qualifica il disco come nostro, ma non si danno altre informazioni… metaforicamente, l’utente deve aprire il booklet per conoscerne il contenuto, è costretto a ‘scoprire’ il disco in qualche modo. Per come la vedo io, è un buon modo di realizzare una copertina per un album: una buona immagine dovrebbe essere iconica, senza però rivelare troppo”.
DECISIONI CHE PERO’ SEMBRANO TUTTE RISPOSTE ALLA PRESSIONE DOVUTA AL FATTO CHE SI TRATTA DEL VOSTRO SECONDO ALBUM CON MIKE MANGINI, IL PRIMO SUL QUALE ANCHE LUI COLLABORA IN FASE COMPOSITIVA… COME SI E’ SVOLTO IL LAVORO CON LUI SOTTO QUESTO PUNTO DI VISTA?
“Il lavoro di Mike è stato davvero incredibile. C’era molta curiosità da parte dei fan per questo lavoro; tutti volevano vedere come si sarebbe integrato Mike col nostro metodo compositivo. I risultati li abbiamo su questo album, ben tangibili. E sono incredibili. Perché lui non ha portato solo la propria bravura quale batterista, quale esecutore, ma ha appunto collaborato con noi in ogni fase dalla creazione: dalla scrittura alla registrazione, finanche alle fasi finali. E’ stato con noi sempre, nel nostro ambiente lavorativo, e ha diviso qualcosa che era quindi più che il solo suonare la batteria. Per questo il suo lavoro nell’album è così importante. La sua capacità di interagire con noi e con i pezzi si è rivelata poi sorprendente. Mike è uno che ‘capisce’, non che suona e basta. Su ogni riff, idea, fraseggio, era sempre in grado di capire dove si volesse andare a parare, e poteva subito proporci idee sue; riusciva subito a suonarci sopra. Mike Mangini ha davvero portato una nuova dinamica nel suono dei Dream Theater”.
LA STRUTTURA DELL’ALBUM CI E’ SEMBRATA ATIPICA. ABBIAMO UNA SERIE DI CANZONI, OTTO, NON POI COSI’ LUNGHE SE RAPPORTATE AI VOSTRI STANDARD, E POI ABBIAMO UNA LUNGA SUITE FINALE DA 22 MINUTI. COME MAI QUESTA STRUTTURA, CHE RICORDA QUELLA DI “OCTAVARIUM”? ERA UNA VOSTRA IDEA FIN DALL’INIZIO, O SEMPLICEMENTE IL DISCO SI E’ SVILUPPATO COSI’?
“Fin dal principio avevamo intenzione di inserire circa nove o dieci canzoni, senza insistere troppo su un numero minore di pezzi di maggior durata. L’idea era quella di creare un prodotto che racchiudesse lo spirito più classico dei Dream Theater come band, qualcosa che ci potesse raccontare attraverso più elementi. Così nell’album puoi effettivamente trovare una drammatica intro in stile cinematografico, alcuni brani più diretti e potente, uno strumentale scollegato e, per finire, una lunga suite, epica e variegata. Era un buon modo di ‘chiudere lo show’. Quindi queste erano grosso modo le nostre idee iniziali”.
HAI PARLATO DELLO STRUMENTALE, LA BELLA “ENIGMA MACHINE”. QUESTO PEZZO RAPPRESENTA, A NOSTRO AVVISO, UN VERO RITORNO AL VOSTRO PASSATO. CI PARLI UN PO’ DI QUESTA PARTICOLARE TRACCIA?
“Era da ‘Stream Of Consciousness’ che non inserivamo in un album uno strumentale completo, quale canzone completamente a se stante. Era idea condivisa che fosse il caso di comporne una stavolta, perché la presenza di un pezzo strumentale ‘autonomo’ rappresenta sicuramente i Dream Theater come band, e rappresenta anche la nostra storia. E, infatti, puoi sentire come ci siano effettivamente tutti gli strumenti ben presenti nella canzone. Puoi sentire assoli di chitarra e di tastiera, ma ci sono anche assoli e break di basso, così come parti in evidenza per la batteria. Ognuno ha il suo sipario nella canzone, ed è anche per questo che ‘Enigma Machine’ possiede un suono molto vario, che spazia tra tanti generi e che deve in qualche modo essere ‘interpretato’ (descrizione appropriata: come detto da Petrucci stesso in un’altra intervista, ‘Enigma Machine’ era in effetti una macchina di decodifica costruita dai Tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, che veniva usata appunto per tradurre i messaggi in codice delle spie, ndR)”.
“THE ILLUMINATION THEORY” E’ INVECE UNA LUNGA SUITE, ANCHE QUESTO UN PEZZO CHE I FAN SI ASPETTANO SEMPRE DA VOI… BE’, SARANNO FELICI QUESTA VOLTA. CI PARLI UN PO’ ANCHE DI QUESTA COMPLESSA TRACCIA?
“Ho scritto io i testi per questa canzone, come mi sono occupato della maggior parte delle liriche per questo album. ’The Illumination Theory’, inizialmente doveva essere anche la canzone che avrebbe dato il titolo all’album. Si tratta di una suite, un pezzo lungo ventidue minuti e diviso in cinque sezioni, sul modello di ‘A Change Of Season’. Però ogni parte della suite risulta veramente diversificata. La sezione centrale, ad esempio, ha un approccio molto atmosferico, aiutato dall’orchestra, nella quale il protagonista è Jordan. Diversa da quella subito precedente, aggressiva e diretta. Liricamente il brano tratta di tutte quelle cose della nostra vita che amiamo, le cose per le quali saremmo disposti a morire o, addirittura, per le quali uccideremmo. Possono essere cose diverse per ciascuna persona… concetti importanti quali il proprio Paese, la persona amata, oppure qualcosa di più astratto, come il concetto stesso di libertà…”.
TI PONGO UNA DOMANDA CHE FACCIO SPESSO A BAND CHE SONO IN GIRO DA TEMPO. SEMBRA CHE, CON I TEMPI CHE CORRANO, FARE IL MUSICISTA ROCK NON SIA POI QUESTO GRANDE AFFARE. I TOUR COSTANO SEMPRE DI PIU’, E LA GENTE CI VA SEMPRE DI MENO. ANCHE QUANDO SI ESCE CON IL DISCO NUOVO C’E’ SEMPRE QUALCUNO CHE DICE MAGARI CHE “IMAGES AND WORDS” ERA MEGLIO… MA QUAL E’ ALLORA, DA MUSICISTA, IL PUNTO PER IL QUALE CONTINUARE A FARE MUSICA?
“Un po’ è come dici tu, ma la situazione può essere vista da altri punti di vista. E’ vero che ci sono critiche, ma è anche vero che per fortuna abbiamo il tipo di fan che è ancora felice ed ansioso di ascoltare nuova musica. E questo ci dà la spinta per comporne di nuove”.
COSA NE PENSATE DELL’UTILIZZO DELLE NUOVE TECNOLOGIE E DEI NUOVI FORMATI (ALBUM INSERITI IN USB KEY, DOWNLOAD DIGITALE) PER RAGGIUNGERE L’UTENTE FINALE? L’AGGIORNAMENTO AI NUOVI MEZZI DI DISTRIBUZIONE DELLA MUSICA E’ IMPORTANTE PER I DREAM THEATER?
“Sicuramente è importantissimo per qualsiasi band, non solo per noi, rimanere aggiornati sulle novità tecnologiche. Il mondo cambia, sempre più velocemente, e ogni cambiamento è dettato dal miglioramento tecnologico, che a sua volta porta nuove idee e altre tecnologie ancora più nuove. Essere aggiornati e sfruttare le nuove possibilità significa solo seguire appunto il mondo che cambia, e poter quindi raggiungere meglio il proprio pubblico e il proprio seguito”.
VI STIAMO ASPETTANDO PER IL TOUR QUI IN ITALIA QUESTO INVERNO… CI PROMETTETE DELLE BELLE SORPRESE?
“Il tour partirà in inverno, a partire da gennaio. La notizia è che sarà uno show nel cosiddetto formato ‘An Evening With’, ovvero solo noi, senza band di apertura e senza altre distrazioni… due show distinti, per tre ore di sola musica dei Dream Theater!”.