Duff McKagan è una star abituata alle folle oceaniche, eppure non ha mai dimenticato il piacere di esibirsi davanti una (relativamente) piccola audience in un club: lo faceva quando suonava punk rock, o agli albori dei Guns, e lo fa ancora oggi che ha scoperto il piacere di abbandonarsi al caldo suono di una chitarra acustica.
Mancano poche settimane alla data milanese di Duff, che si esibirà ai Magazzini Generali il 16 ottobre, e abbiamo colto al volo l’occasione di raggiungerlo per una breve chiacchierata su questa sua nuova avventura solista che l’ha portato a pubblicare due dischi, prima “Tenderness”, nel 2019, e ora “Lighthouse”, il quale vede il bassista cimentarsi in stili molto diversi da quelli a cui ci ha abituato, dal blues alla canzone d’autore.
Duff ci ha sempre dato l’impressione di essere il componente più alla mano e affabile dei Guns N’ Roses e la nostra conversazione non ha potuto che confermarlo: ci siamo trovati di fronte ad un interlocutore pacato, con cui scambiarci opinioni su cosa voglia dire avere figli adolescenti o sull’energia che restituisce andare ad un concerto, un artista orgoglioso della propria musica ed un vero appassionato di tutti i numerosi musicisti che l’hanno influenzato.
DUFF, IL TUO NUOVO ALBUM “LIGHTHOUSE” CI HA COLPITO PER LA SUA ETEROGENEITA’, CHE LO RENDE MOLTO DIVERSO DA QUELLO CHE FAI CON I GUNS N’ ROSES. COME E’ NATA QUESTA TUA ISPIRAZIONE COSI’ INTIMISTA?
– Quella che vedi è la mia stanza, dietro di me ci sono due chitarre acustiche, un basso e poi ci sono altre chitarre. Dovunque mi trovi, cerco sempre di avere una chitarra a portata di mano.
Intorno al 2014 ho deciso di ascoltare davvero il suono della chitarra acustica, la sensazione che mi dà averla appoggiata al mio petto: avevo delle melodie, degli accordi ed era come se la chitarra stessa mi suggerisse quando e come cantare. Ad un tratto mi sono reso conto che quello che stava nascendo non voleva urlare, non mi diceva di spingere con la voce, piuttosto mi prendeva per mano e mi chiedeva di abbandonarmi al suono della chitarra stessa.
Vedi, io sono un grande fan di Mark Lanegan, fin dagli anni Novanta, col tempo siamo diventati amici e mi sono sempre promesso di fare qualcosa in questo stile, prima o poi. Così, quando finalmente ho dato ascolto alla mia chitarra acustica, mi sono ritrovato in un posto nuovo, con un nuovo stile ed un’infinità di melodie che hanno continuato a moltiplicarsi dal 2014 in poi.
“LIGHTHOUSE”, PERO’, E’ MOLTO DIVERSO ANCHE DAL TUO PRECEDENTE ALBUM SOLISTA, “TENDERNESS”…
– Il sound di “Tenderness” è molto diverso da quello di “Lighthouse”, perché nel primo con me c’è Shooter Jennings, che ha prodotto il disco, coinvolgendo in studio anche la sua band. Chiaramente avendo lui e la sua band, il disco ha preso una certa direzione: c’è la chitarra pedal steel, il violino e in generale quell’atmosfera tipica dell’americana (un sottogenere del country, ndR) che amo molto e che per me era completamente nuovo. Le canzoni erano quelle, ma venivano lette con una particolare inclinazione negli arrangiamenti.
Facciamo un salto avanti e arriviamo fino al 2020: eravamo in procinto di fare un grosso tour in Sud America ed Europa con i Guns, avevo avuto giusto il tempo di registrare delle demo per quattro-cinque canzoni e poi ero volato a Los Angeles per le prove del tour.
A quel punto è arrivata la pandemia e inizialmente sembrava che saremmo dovuti restare chiusi in casa per un paio di settimane, così pensai che sarebbe stata una buona idea finire quelle canzoni che avevo iniziato a Seattle. Poi quelle due settimane diventarono quattro e così ho avuto ancora più tempo per lavorare alle nuove composizioni. Ho fatto quasi tutto da solo, con l’aiuto di Martin Ferveyear, il produttore, e Jamie Douglas, che è il batterista di Shooter Jennings. Gli mandavo le tracce e lui me le rimandava indietro dopo due-tre giorni con le parti di batteria. In alcune canzoni l’ho suonata direttamente, ho ripreso in mano le bacchette, come quando suonavo in una band punk.
Questa è la differenza principale, in questo disco sono solo io, con l’aiuto di qualche amico, come ad esempio Tim DiGiulio, un chitarrista che suonerà con me anche dal vivo assieme a Jeff Fielder, il chitarrista di Mark Lanegan. Se verrai al concerto, tieni d’occhio questi due chitarristi, sono eccezionali. Comunque, dicevo, Tim DiGiulio è riuscito a suonare alcune parti di chitarra, ma siccome era periodo di Covid, tutto era complicato, gli dicevo cose tipo “riesci a finire queste cinque canzoni nelle prossime quattro ore? Suona al tuo meglio, pensa che dobbiamo lasciare un segno, ma fallo in cinque minuti!”. E lui è stato fantastico.
L’energia in studio era veramente speciale, c’era molta creatività, tant’è che abbiamo continuato a registrare. Potrei finire quattro album con tutto il materiale che abbiamo! “Lighthouse” è il risultato di queste registrazioni, abbiamo scelto dieci canzoni che stessero bene assieme e volevo che l’album raccontasse una storia.
Leggo molto e volevo dare al disco una struttura simile a quella di un romanzo, con un’introduzione, picchi e momenti di discesa e con una bella conclusione. Su quello che ci sarà dopo, non lo so proprio, e non lo dico in senso negativo. Sono curioso io per primo di scoprirlo.
HO LETTO CHE ADDIRITURA BOB DYLAN HA SPESO DELLE PAROLE MOLTO LUSINGHIERE SU UNA TUA CANZONE, “CHIP AWAY”. DYLAN NON E’ CERTO UN ARTISTA CHE SI SPERTICA IN LODI DI CHIUNQUE, DEVE ESSERE STATA UNA BELLA SODDISFAZIONE.
– Sì, è una cosa venuta fuori all’improvviso, perché Bob Dylan non è uno che rilascia molte interviste. Il mio nome è saltato fuori nella prima intervista che ha fatto dopo chissà quanto, non ricordo se fosse il Wall Street Journal o il Washington Post, comunque una pubblicazione grossa.
Ho iniziato a ricevere dei messaggi, prima dall’Inghilterra, perché sai, col fuso orario certe notizie arrivano prima lì, poi dalla East Coast, il mio telefono stava esplodendo! E’ stato davvero speciale… Quest’estate c’era Jacob Dylan (il figlio di Bob, cantante dei Wallflower, ndr) a Seattle e per me era la prima estate libera da quando avevo, non so, vent’anni. In città suonavano i Pearl Jam, e io e mia moglie abbiamo invitato Jacob ad andare a vederli: ci eravamo incontrati anni fa, ma il mio manager lo conosce e quindi ci ha messi in contatto, l’abbiamo incontrato in hotel e poi siamo andati al concerto assieme. Allora gli ho chiesto questa cosa di suo padre e lui mi ha detto “no, davvero, gli piaci tantissimo!”, e per me è una cosa fuori di testa!
NELL’ALBUM, POI, CI SONO DIVERSI OSPITI E PENSO CHE UNO SIA PARTICOLARMENTE IMPORTANTE PER TE, MI RIFERISCO A IGGY POP. SO CHE SEI UN SUO GRANDE FAN, TANT’E’ CHE DAL VIVO SUONI SPESSO ANCHE DELLE COVER DEGLI STOOGES.
HAI ANCHE AVUTO MODO DI SUONARE DIRETTAMENTE CON IGGY DAL VIVO, IN PASSATO. COME E’ NATA QUESTA COLLABORAZIONE?
– Sì, ormai ci conosciamo da tanto, dal 1990, quando suonai con lui sull’album “Brick To Brick”. Mi ricordo che mi chiamò a casa, “ehi, sono Iggy”… Pensavo fosse uno scherzo di un mio amico, perché per me Iggy è uno dei più grandi. Sono tre, Iggy, Prince e Lemmy, non male come top tre, vero?
Comunque, tornando a noi, un paio d’anni fa ho avuto l’occasione di suonare nel nuovo album di Ozzy Osbourne, assieme a Chad Smith, con Andrew Watt come produttore. Poco tempo dopo Andrew mi chiamò dicendomi che avrebbe prodotto il nuovo album di Iggy e mi voleva a bordo per scrivere qualche canzone assieme! E l’abbiamo fatto, io, lui e Chad Smith. A Iggy sono piaciute molto e le ha incluse nell’album, dopodiché gli serviva una band per suonare dal vivo, cinque-sei show e non ce lo siamo fatto ripetere due volte.
E’ stato durante questo tour che ha potuto ascoltare “Lighthouse” e si è offerto di registrare quel pezzo parlato che ascolti sul disco. I nostri manager si sono accordati e ci siamo ritrovati in studio. Ne ha registrate quattro versioni e senti che risultato? Basta la sua voce, riempie la stanza…
E’ stato grandioso avere Iggy e lo stesso vale per Jerry Cantrell, che ha sentito “Just Don’t Know” e si è offerto di registrarne l’assolo, e poi ovviamente Slash su “Hope” che è una canzone del 1996: esisteva il master di quella canzone, che all’epoca si chiamava “Beautiful Disease”, ma non era mai stata pubblicata.
Ci sono voluti vent’anni per recuperarla, ma alla fine ci sono riuscito e ho voluto inserirla qui perché era perfetta per la storia che volevo raccontare con “Lighthouse”.
ABBIAMO AVUTO MODO DI ASSISTERE AL TUO PIU’ RECENTE CONCERTO IN ITALIA, A MILANO. E’ STATA UNA BELLISSIMA SERATA E HAI FATTO UN REGALO PARTICOLARE AI FAN ITALIANI, PERCHE’ HAI SUONATO, PER LA PRIMA E UNICA VOLTA IN QUEL TOUR, “SO FINE”.
– Quello di Milano è stato davvero uno show speciale, è sempre stato così in Italia, i fan sono davvero appassionati, me ne accorgo anche con i Guns N’ Roses. Hai proprio l’impressione che il pubblico percepisca ogni singola emozione, la musica viene vissuta come una cosa importante, ti senti apprezzato come artista. Ecco perché quella sera ho pensato di fare qualcosa di speciale per Milano.
E sai una cosa divertente? Il giorno prima mi aveva morso un ragno velenoso! In hotel, in Svizzera! Mi ricordo che gli scattai una foto e la mandai a Slash, perché lui è un esperto di ragni, mi disse che era il ragno non-so-cosa-delle-querce, che vive proprio in Svizzera. E siccome il suo morso è velenoso, mi ha dato problemi alle corde vocali. Lo show è andato bene, ma poi ho scoperto che certi ragni di possono causare una specie di laringite e due ore lo show ero completamente senza voce! Mi sono ripreso completamente dopo settimane…
A PROPOSITO DEL TOUR, COME STAI STRUTTURANDO, INVECE, QUESTA SERIE DI DATE? COSA CI DOBBIAMO ASPETTARE?
– Inizieremo stasera le prove del tour, io suonerò la chitarra acustica, Tim DiGiulio l’elettrica, Jeff Fielder alla seconda chitarra, ma lui suona anche le tastiere, il B-Bender, la slide, sa cantare… quindi quando faremo le canzoni di “Tenderness” potrà suonare come se ci fosse un violino nella band, è uno di quei musicisti capaci di fare di tutto. Poi Mike Musburger alla batteria e Mike Squires dei Loaded al basso e alla seconda voce.
Questa band sarà molto potente, molto diversa dallo stile della band di Shooter. Io sono pronto, mi sto preparando da due mesi e non vedo l’ora. Ti vorrei dire di più, ma ci dobbiamo ancora lavorare. Se me l’avessi chiesto tra una settimana, avrei potuto darti una risposta più completa.
C’E’ UN ASPETTO SULLO STATO DI SALUTE DELLA MUSICA HEAVY, O DEL ROCK IN GENERALE, CHE FA SEMPRE RIFLETTERE.
I GUNS N’ ROSES SONO UNA BAND PLANETARIA, CHE RIEMPIE GLI STADI ANCORA OGGI, PERO’ SEMBRA CHE QUESTA MUSICA PARLI PIU’ ALLA STESSA GENERAZIONE CHE VI HA CONOSCIUTI NEGLI ANNI OTTANTA O NOVANTA. NON SEMBRA ESSERCI ALL’ORIZZONTE UNA NUOVA GIOVANE BAND DELLA PORTATA DEI GUNS N’ ROSES, FORSE NON CI SARA’ PIU’. COME MAI SECONDO TE?
– Tre giorni fa sono andato a vedere un concerto dei Metallica e ho passato metà del tempo a guardare il pubblico. Anche quando suono con i Guns guardo molto il pubblico, perché io ho un grande rispetto e ammirazione per la storia di ciascuno. A volte le persone che incontro hanno delle storie che mi fanno andare fuori di testa e magari hanno diciotto anni.
Guardando il pubblico, mi accorgo che raccoglie tante generazioni: vedi ragazzi di quindici-sedici anni, bambini di nove, ventenni… Noi raggiungiamo ancora quel tipo di pubblico, per chi lo vuole, ma la cosa triste è che poi non hanno una loro band.
Con i Metallica, ho visto le stesse cose: bambini, ragazzi, adolescenti, ma forse non ci sono dei nuovi Metallica. O forse sì, e noi non lo sappiamo.
Io ascolto spesso la musica che piace alle mie figlie, mi piace la nuova musica e per la maggior parte non è musica heavy. Ad esempio loro amano una band di Orange Country che si chiama The Garden, sono in giro da dodici anni e sono molto originali, heavy, ma non metal. Non saprei davvero dire come mai…
Forse c’entrano i social media, che hanno ridotto di tanto la soglia di attenzione: quante persone non leggono nemmeno mezzo articolo, ma si fermano al titolo? Con la musica è lo stesso, si ascolta un terzo della canzone, magari suggerita da un algoritmo di Apple Music e se è un brano pop e ti piace, l’algoritmo pensa che ti debba piacere solo quello e ti suggerisce solo musica pop.
A me il pop piace, è sempre piaciuto, ma sembra che oggi esista solo quello, eppure ci sono tante grandi band heavy là fuori, che non riescono ad essere grandi quanto lo siamo stati noi… Non lo so. Posso solo guardare le mie figlie e cercare di capire come la vivono loro.
DEVE ESSERE MOLTO DIVERSO SUONARE SU UN PALCO GIGANTESCO, CON DECINE DI MIGLIAIA DI PERSONE DAVANTI, CIRCONDATO DA MAXISCHERMI, RISPETTO AD UN TOUR NEI CLUB, DECISAMENTE PIU’ RACCOLTO. TU COME VIVI QUESTA COSA?
– Penso che per il tipo di canzoni che scrivo ora, quelle di “Tenderness” e “Lighthouse” è molto meglio un ambiente piccolo e raccolto. Non so mai in anticipo quanto saranno grandi i locali in cui mi esibirò, ma a grandi linee ho un’idea delle dimensioni.
L’esperienza del tour di “Tenderness” mi ha fatto capire che in questi contesti vedi davvero tutti, ed è importantissimo per questo stile di musica. E’ un gruppo di persone che si raccoglie intorno a delle canzoni che hanno una forte carica emotiva e questo mi arricchisce tanto.
E’ un po’ come andare in chiesa, un’assemblea di persone che sono interessate a quello che accade e stanno lì tutte assieme per lo stesso motivo. E’ un’esperienza completamente diversa e io cerco sempre di fare cose nuove. Ora è arrivato il momento di iniziare questa nuova avventura.