“Make Them Beg for Death”, fuori da una settimana su Relapse, ci ha restituito i Dying Fetus come non li vedevamo da parecchi anni a questa parte.
Intendiamoci, John Gallagher e compagni hanno sempre saputo difendere il loro nome, specialmente in virtù delle loro proverbiali capacità live, ma un leggero appannamento – volente o nolente – era comunque emerso nei lavori successivi all’ottimo (e non più recentissimo) “Descend into Depravity”; un calo dal punto di vista del songwriting che, dopo il fin troppo edulcorato e moderno “Wrong One to Fuck With” del 2017, può dirsi compensato da questo nuovo pugno di brani, il quale è fortunatamente coinciso con un livello di presa ritrovato e con una cura per i dettagli all’altezza della situazione.
Non un album in grado di mettere in discussione i veri capolavori della band americana, ma comunque un valido attestato di talento e mestiere che soddisferà i fan di lunga data e che saprà introdurre nel modo giusto i neofiti alla tradizione di questo moniker leggendario, la cui rilevanza storica – complice l’inaspettata rinascita del movimento death-core – è quanto mai attuale. Intercettato su Zoom durante l’ultima tournée estiva in Europa, a qualche ora dalla data allo 013 di Tilburg con Converge, Archspire e Frontierer, ecco cosa ci ha risposto il cantante/chitarrista su passato, presente e futuro della sua creatura, ribadendo nel farlo un’umiltà non certo ravvisabile in tutte le formazioni di senatori…
UNA DELLE PRIME COSE CHE SALTANO ALL’ORECCHIO ASCOLTANDO IL NUOVO ALBUM È IL SUO APPROCCIO OLD-SCHOOL, ALMENO IN RELAZIONE A QUANTO ESPRESSO SU “WRONG ONE TO FUCK WITH”. È STATO UN PASSAGGIO INTENZIONALE DOPO LO STILE PIÙ MODERNO E TECNICO DI QUEL DISCO O SI PUÒ DIRE CHE SIA NATO SPONTANEAMENTE IN QUESTA MANIERA?
- Credo sia stata una progressione naturale. In generale, volevamo che questo album fosse un po’ più breve, diretto e con meno riff dell’ultimo; ovviamente, alcuni brani suonano più tecnici di altri, come ad esempio “Feast of Ashes”, ma la differenza a livello di impatto e orecchiabilità secondo me si sente. C’è perfino una canzone che dura meno di un minuto (“Throw Them in the Van”, ndR), ed è una cosa che non accadeva da parecchio in un nostro disco.
“Reign Supreme” e “Descend into Depravity” avevano uno spirito simile, ma devo dire che questo si spinge ancora di più in quella direzione. Anche a livello di produzione abbiamo fatto delle scelte precise, con suoni naturali e niente trucchi da studio. Pure la copertina ha una vibe old-school. In sostanza, volevamo soltanto riconnetterci alle nostre radici e a quelle del genere.
IN EFFETTI, SI NOTA SUBITO COME A QUESTO GIRO LA PRODUZIONE SIA PIÙ CRUDA E ORGANICA, SENZA TRIGGER O ALTRI ARTIFICI…
– Assolutamente. C’è stato un momento, tra l’inizio e la metà degli anni Duemila, in cui qualcosa nell’approccio è cambiato e un certo tipo di produzioni ha preso piede nel death metal. Suoni molto processati, trigger sulla batteria, eccetera… per fortuna, sembra che adesso le cose stiano tornando ad essere più organiche.
Alla fine, è snervante ascoltare una batteria che suona come una drum machine. Come Dying Fetus, non abbiamo iniziato in quella maniera e non vogliamo finire in quel modo. Mi fa piacere che i nostri sforzi in studio, sotto questo punto di vista, si sentano.
COSA VI TIENE MOTIVATI DOPO TUTTI QUESTI ANNI?
– Beh, ovviamente l’amore per la musica. Voglio dire, andare in tour può essere difficile, ma nel grande schema delle cose non è un lavoro così duro. È soprattutto divertente. Oggi ad esempio siamo in Olanda, a Tilburg, che è proprio una cittadina incantevole. È bellissimo fare esperienze di questo tipo, conoscere posti nuovi, nuove culture… e poi c’è il responso dei fan, che da qualche tempo a questa parte è tornato ad essere molto buono.
Mi sento di dire che le nuove generazioni di ragazzi siano più interessate al death metal rispetto a qualche anno fa; immagino centrino qualcosa Spotify e la possibilità di avere tutto a disposizione su Internet. Tutto è a portata di mano e, di conseguenza, le persone sono più incentivate a provarlo. Questo ci aiuta sicuramente ad andare avanti. Se non avessimo i fan, se non avessimo il loro supporto, probabilmente farei qualcos’altro. Finché le cose resteranno così, non smetterò mai di suonare.
COME CONCILI IL FATTO DI ESSERE UN MUSICISTA A TEMPO PIENO CON LA TUA VITA SOCIALE?
– È difficile? È questo che vuoi dire? Sì, ma in un certo senso neanche più di tanto. Sai, quando siamo in tour abbiamo le nostre pause, non è un qualcosa che ci impegna 24 ore su 24; di solito, riusciamo a fissarci degli slot per le nostre faccende personali o per ciò che vorremmo fare.
Al rientro, le cose possono diventare più complicate quando non abbiamo tempo di rifiatare e dopo un tour negli Stati Uniti, ad esempio, dobbiamo subito volare in Europa o in Australia. Stiamo comunque cercando di distanziare un po’ le cose, quindi non è sempre così estenuante. E poi c’è da dire che tutti oggigiorno possiedono un cellulare, con chat, videochiamate e quant’altro. Non è più come una volta, quando partivi in tour e sparivi per settimane. I modi per rimanere in contatto per fortuna non mancano.
PARLANDO DI ATTIVITÀ LIVE, AVETE MAI PENSATO DI SUONARE UNO DEI VOSTRI VECCHI ALBUM DALL’INIZIO ALLA FINE?
– Sì, sta iniziando a diventare una richiesta frequente da parte dei festival. Se non sbaglio, l’organizzazione del Decibel Magazine Metal & Beer Fest si è fatta avanti in questo senso, ma non voglio dire troppo al riguardo. Sai, viviamo in un’epoca in cui diversi album stanno raggiungendo anniversari importanti, o stanno ottenendo un certo tipo di riconoscimento storico, quindi potremmo unirci anche noi al trend.
Nel caso, sarei comunque più propenso a fare una scaletta old-school, anziché suonare un disco dall’inizio alla fine. A dire il vero, una cosa simile l’abbiamo già fatta qualche anno fa ad un festival in Germania chiamato Deathfeast Open Air, quando ci era stato chiesto di suonare due set differenti. Quella volta avevamo messo insieme un po’ di brani dei primi lavori. Ad ogni modo, più si andrà avanti e più questo tipo di cose diventeranno frequenti. C’è tanta voglia di riascoltare i classici.
A QUESTO PROPOSITO, HO MOLTO APPREZZATO LA SCELTA DI RIPESCARE “WE ARE YOUR ENEMY” NELLA SETLIST DI QUESTO TOUR ESTIVO…
– Sono contento di sentirtelo dire! Ogni tanto ci piace cambiare, ritirando fuori alcune cose dal cassetto per vedere come si comportano. Quel pezzo sta sicuramente ricevendo un ottimo feedback: lo suoniamo ad inizio set, quando la gente è ancora fresca, e devo dire che la scelta ci sta ripagando. Sai, negli anni ho notato che piazzare una sorpresa a fine concerto può essere controproducente, perché il pubblico è più stanco. Mi piacerebbe mantenere questo pattern anche in futuro.
I DYING FETUS NON HANNO MAI AVUTO UNA LINE-UP TANTO FORTE E DURATURA QUANTO QUELLA ATTUALE, E PENSO CHE, COME IN UN BUON MATRIMONIO, LA CHIAVE DEL SUCCESSO RISIEDA NEL COMPROMESSO E NELLA COMPRENSIONE RECIPROCA. COME DESCRIVERESTI GLI EQUILIBRI FRA TE, SEAN E TREY?
– La base di partenza, forse banale, è che andiamo genuinamente d’accordo. Siamo tutti e tre qui per la musica e prendiamo questa cosa con serietà, impegnandoci anche ad essere collaborativi fra di noi e con gli altri, senza atteggiamenti da rockstar e lasciando ad ognuno il giusto spazio. Sean, ad esempio, è di là che si sta guardando un film, io sono qui con te… ognuno fa le sue cose e non prende per il culo l’altro.
Tutto questo di sicuro aiuta a mantenere saldi i legami. E se si accende qualche miccia, bisogna essere bravi a non alimentare il fuoco. Personalmente, cerco sempre di non arrabbiarmi in modo ingiustificato e di fare un respiro profondo, prima di parlare in certe situazioni. Come hai detto tu, è come un matrimonio. Sai che alcuni giorni litigherai, ma devi tenere duro, con la consapevolezza che dopo starai di nuovo bene. Il segreto sta nel saper mantenere unita la famiglia.
Una cosa che poi ho capito è che alla gente non piacciono i cambi di line-up troppo frequenti; i fan vogliono vedere volti familiari sul palco e non pensare “Chi è quel tizio? Da dove sbuca? Preferivo quello che c’era prima di lui“. Se ci pensi, le band più longeve e di successo sono quelle con le formazioni più stabili, come ad esempio i Rolling Stones. È importante saper rispettare i sentimenti di tutti.
PARLANDO DEL TUO PASSATO, PENSI CHE CRESCERE IN UNA CITTÀ DIFFICILE COME BALTIMORE ABBIA INFLUENZATO IL TUO MODO DI VIVERE E APPROCCIARE LA MUSICA?
– Direi proprio di sì. Ora come ora, solo Trey vive a Baltimore, ma io ci ho trascorso del tempo e come band abbiamo avuto la sala prove in città per anni. Sean invece non ci ha mai vissuto, ma l’ha comunque frequentata molto. E poi sai, ci sono anche altre zone difficili nel Maryland, come la contea di Prince George che confina con lo stato di Washington e che ha un tasso elevato di criminalità. Considera poi che Washington DC, quando abbiamo iniziato negli anni Novanta, era considerata la capitale mondiale degli omicidi, complice l’esplosione del consumo di crack e dello spaccio di droghe. Essere immerso in un contesto del genere non può che riflettersi sulla musica che suoni.
Forse è anche per questo che sento i Dying Fetus simili alle band di New York. Parlo di Pyrexia, Suffocation e di tutta quella cricca di formazioni brutali e dallo spirito stradaiolo… in un certo senso, è come se la violenza di un determinato contesto infettasse la musica concepita in quel posto. Non lo dico in tono critico, ma le band di stati con livelli di criminalità più bassi, in genere, non sono così forti. Potranno essere più progressive, tecniche o qualcosa del genere, ma non così dure. D’altronde, anche l’hardcore viene da New York, che poi è il motivo per cui questo filone ha sempre avuto un approccio ‘da strada’ che altri invece non hanno mai avuto.
NON TROPPO TEMPO FA RIASCOLTAVO “PURIFICATION THROUGH VIOLENCE”. COSA VEDI QUANDO TI GUARDI ALLE SPALLE E RIPENSI AI PRIMI PASSI COMPIUTI DALLA BAND?
– In realtà, l’approccio è rimasto bene o male lo stesso: cercare di comporre qualcosa di pesante e interessante, con tutti gli elementi giusti per rimanere in testa. Quello che di sicuro è cambiato è il lavoro in studio: all’epoca dovevamo pagare ogni cosa di tasca nostra, non avevamo molti soldi, e quindi non potevamo permetterci di stare in studio a provare e riprovare fino al raggiungimento di un risultato perfetto.
Ora abbiamo budget molto più corposi, e questa cosa ci permette di spostare il focus sulla produzione e sui vari dettagli. Un tempo era semplicemente tutto più primitivo e analogico; abbiamo iniziato a fare un po’ di editing solo dopo “Killing on Adrenaline”. I dischi avevano una resa più povera, ma tutto ciò che sentivi era vero, non programmato. Guardo a tutto questo con affetto: ho molti bei ricordi legati ad ogni album e a posteriori penso stato un percorso appagante sia per noi che per i fan.
MI SEMBRA CHE LE COSE IN AMERICA STIANO ANDANDO MOLTO BENE SIA SUL VERSANTE DEATH METAL CHE SU QUELLO HARDCORE, CON DIVERSE BAND GIOVANI CHE STANNO RISCUOTENDO UN OTTIMO SUCCESSO DI PUBBLICO E DI CRITICA. PENSO AD ESEMPIO AGLI UNDEATH O AI KNOCKED LOOSE. CREDI CHE QUESTO RICAMBIO GENERAZIONALE SI RIFLETTA IN MODO POSITIVO ANCHE SU DI VOI?
– Sì, e tra l’altro abbiamo condiviso il palco con entrambi. Per una formazione di vegliardi come la nostra, trovo sia molto importante mescolare le carte e rimettersi in gioco. Solo così secondo me si può continuare ad essere rilevanti. Bisogna lasciare da parte l’ego. Vedo troppi senatori fare ragionamenti del tipo “Noi siamo in giro da più tempo, non suoneremo mai prima di loro“, ma non mi sembra la maniera più accorta e lungimirante di gestire un business.
Noi, ad esempio, abbiamo aperto per i Knocked Loose negli Stati Uniti; quei ragazzi sono diventati IL punto di riferimento a livello mondiale per la scena hardcore. Gli Undeath invece sono più simili a noi, stilisticamente parlando, e fanno parte di una corrente di giovani death metal band che stanno riportando in auge il filone con un approccio ispirato agli anni Novanta. Potrei citarti anche i Sanguisugabogg.
È una situazione molto vantaggiosa per noi e per quella che è la natura della nostra proposta, da sempre a cavallo fra death metal e hardcore. Ci permette di uscire dal nostro giro e di far conoscere la musica dei Dying Fetus a platee variegate, recettive verso entrambi i generi.
E COSA NE PENSI DEL FILONE DEATH-CORE? TE LO CHIEDO PERCHÉ SENZA I DYING FETUS, OLTRE A QUALCHE ALTRO GRUPPO COME DESPISED ICON E SKINLESS, PROBABILMENTE NON ESISTEREBBE NEPPURE…
– È sempre una questione di progressione e di leader/follower. Gli stessi Dying Fetus non fanno parte della prima ondata death metal della storia. Ciò che siamo lo dobbiamo agli Obituary, ai Deicide, ai Cannibal Corpse. La prima generazione, insomma. Noi potremmo essere collocati nella seconda, o forse addirittura nella terza. Dipende da quanto tempo si vuole tornare indietro e da ciò che vogliamo considerare death metal. Ma ci saranno sempre i precursori e chi invece arriva dopo.
Quello che conta, secondo me, è non ridursi all’imitazione. Se non hai nulla da offrire a parte essere la copia carbone di qualcun altro, non funzionerai a lungo. È importante avere un po’ di originalità. Stasera suoniamo con gli Archspire che, pur non inventando nulla di nuovo, si approcciano al loro genere con freschezza. Per questo stanno diventando tanto grossi e seguiti. Lo stesso, in sostanza, vale per il death-core. È musica che comunque ascolto spesso.
Di recente siamo stati in tour con i Suicide Silence negli Stati Uniti, una tournée che, devo dire, ha avuto un grandissimo successo. Eravamo co-headliner del pacchetto con loro, ed è stato bello sentire Eddie (Hermida, frontman della band californiana, ndR) ricordare ogni sera alla folla come, senza band come Dying Fetus o Suffocation, il death-core non esisterebbe. È di persone come lui che questa scena ha bisogno: meno stronzi e palloni gonfiati, più musicisti interessati alla coesione, al rispetto reciproco e al non spargere odio. Per come la vedo io, il death-core è soltanto un’evoluzione del death metal: dei ragazzi che cercano di esprimersi attraverso il loro linguaggio e secondo le loro regole.
TORNANDO ALLA PRIMA ERA DELLA BAND, LO SPLIT CON JASON (NETHERTON, PRIMO CANTANTE/BASSISTA DELLA FORMAZIONE, DAL 2001 LEADER DEI MISERY INDEX, NDR) È STATO INDUBBIAMENTE UNO DEI MOMENTI PIÙ DELICATI DELLA VOSTRA CARRIERA, SPECIALMENTE CONSIDERANDO IL SUCCESSO E L’ALCHIMIA PERFETTA DI UN ALBUM COME “DESTROY THE OPPOSITION”. OGGI, ALLA LUCE DEI TANTI ANNI PASSATI, COME DESCRIVERESTI QUEL PERIODO?
– È stato un momento difficile e agrodolce, arrivato proprio quando stavamo iniziando ad ottenere un po’ di successo. Le cose giravano bene per noi, in quel periodo: eravamo reduci da “Destroy the Opposition”, uno dei migliori album del nostro catalogo; avevamo Kevin Talley alla batteria e penso che in generale ci stessimo abituando l’uno all’altro, lavorando sodo e bene. Dopo “Killing on Adrenaline”, il primo disco con quella formazione, per “Destroy…” ci eravamo concentrati molto sulla chimica fra di noi, e sono convinto che il risultato di quegli sforzi si senta ancora oggi. Insomma, eravamo molto calati nel progetto della band, quando ad un certo punto Jason espresse la volontà di iscriversi al college. Non poteva più andare in tour a tempo pieno, ovviamente, e così scelse di mollare. A quel punto, tutto è andato a puttane.
Non voglio approfondire troppo, ma ci siamo scontrati, abbiamo litigato e il processo di ricostruzione è partito da lì. È stata comunque un’esperienza formativa. All’epoca ero giovane, bevevo troppo, e probabilmente non ho saputo gestire al meglio la cosa, ma per fortuna ci siamo lasciati quegli attriti alle spalle. Voglio dire, adesso siamo amici. Lo stesso Kevin, cinque o sei anni fa, ha sostituito temporaneamente Trey, aiutandoci mentre lui aveva dei problemi da risolvere a casa. Ci ha raggiunto per circa due settimane, e puoi trovare i video di quelle date su YouTube. Mentre Jason è come un fratello per me. Parliamo molto, di tutto, e non c’è nessun rancore fra di noi. Quello che è successo è successo. Voglio dire, è stato solo un litigio. Come hai detto tu prima, una band è come un matrimonio, e a volte le persone divorziano. Ciò che conta, è quanto di buono fatto nel tempo trascorso insieme, e nel nostro caso parliamo di dischi pieni di buona musica, che spero la gente continuerà ad ascoltare e apprezzare negli anni a venire.
“BUT LIFE GOES ON”, COME DICEVANO GLI ENTOMBED…
– Esatto amico, la vita va avanti!