FEED THEM DEATH – Nero profondo

Pubblicato il 15/07/2021 da

Partito in sordina e senza troppi squilli di tromba, il progetto Feed Them Death ha saputo diventare nel giro di pochissimi anni un’autentica certezza dell’underground estremo tricolore. D’altronde, se la presenza di Void (ex bassista della leggenda Antropofagus) nella line-up di questa one-man band non rappresentasse già di per sé un forte motivo di interesse, basterebbe ascoltare i tre dischi rilasciati finora per realizzare che simili proposte ed evoluzioni non siano esattamente all’ordine del giorno, e che l’ascolto del mix di death/grind, ambient, doom e noise messo a punto dal Nostro sia molto più che dovuto per i veri fan delle sperimentazioni e delle sonorità non convenzionali dello spettro metal. Alla luce di quanto detto e di un’opera – il recente “Negative” – già ampiamente promossa in queste sedi, una chiacchierata con il musicista genovese era quantomeno dovuta…

CIAO VOID, BENVENUTO FINALMENTE SULLE PAGINE DI METALITALIA.COM. A QUANDO RISALE DI PRECISO L’IDEA DI AVVIARE I FEED THEM DEATH? PER QUALE MOTIVO, DOPO ANNI DI LONTANANZA DALLE SCENE, HAI DECISO DI CIMENTARTI IN UN NUOVO PROGETTO MUSICALE?
– Ciao, e grazie mille per avermi ospite sulle vostre pagine! Avevo giochicchiato per anni con l’idea di riprendere in mano uno strumento. L’occasione la ebbi quando l’amico di sempre Argento mi chiese di collaborare all’editing di alcune vecchie demo. Da quel progetto nacque un doppio sette pollici che pubblicammo con lo pseudonimo di Rising Bear Flottilla nel 2017. Parallelamente mi stavo muovendo per creare una band vera e propria ma nello scontrarmi con le esigenze e necessità di altre persone mi sono ricordato di uno dei motivi per cui avevo smesso di suonare anni addietro: e cioè che musicalmente vado daccordo con davvero poca gente. Dopo avere provato a collaborare con varie persone, ho deciso che non ne valeva la pena e che invece avrei fatto tutto in solitaria. Detesto le reunion, che considero generalmente trasudare squallore intellettuale, per cui non ho mai lontanamente considerato di riesumare cose dai cassetti per presentare la mia musica in pompa magna. Ho sempre bisogno di sfide, e probabilmente la più grossa è stata quella di affrontare da solo non tanto la fase compositiva quanto quella di registrazione: per intenderci, suono il basso da quasi trent’anni, ma la chitarra l’ho cominciata a suonare appena quattro anni fa e solo perchè spinto dalla necessità di dar voce a un progetto che fosse completamente mio, dove potessi esprimermi con i miei tempi e sperimentare mescolando una gamma quanto più eterogenea possibile di influenze. A partire dal nome del progetto, che provenendo da un testo dei Bad Religion ha preferito rivendicare un’affinità di fondo con il punk e l’hardcore anzichè attingere dal solito vocabolario metal.

SE CON I PRIMI LAVORI AUTOINTITOLATI LA MUSICA DEI FEED THEM DEATH POTEVA ESSERE RICONDOTTA AD UN CLASSICO DEATH/GRIND DI MATRICE AMERICANA, A PARTIRE DA “PANOPTICISM: BELONG / BE LOST” QUEST’ULTIMA HA COMINCIATO AD INGLOBARE ELEMENTI NOISE, INDUSTRIAL E AMBIENT; SEI SEMPRE STATO UN FAN DI CERTE SONORITÀ O LE HAI SCOPERTE NEL FRATTEMPO? COME HA PRESO PIEDE QUESTA EVOLUZIONE?
– Sono sempre stato un ascoltatore eccentrico e con una specie di avversione innata per le etichette di genere, forse perchè sono cresciuto e ho mosso i primi passi da musicista in un periodo dove, seppur contaminazioni e sperimentalismi non mancavano, i sottogeneri erano davvero pochi. Diciamo che sia ambient che noise sono miei vecchi pallini, mentre l’industrial (e il doom) sono qualcosa che ho dovuto essere un po’ più avanti con l’età per apprezzare. Relativamente a Feed Them Death direi che il percorso espressivo del progetto ha in gran misura vita propria, nel senso che non forzo mai la sua traiettoria in nessuna direzione particolare, tendendo a preferire una sorta di flusso di coscienza quasi Joyciano alla composizione: non mi riferisco però a sperimentalismi ‘di pancia’ e istintivi, ma più ad un iter di ricerca che, per quanto libera da sovrastrutture di genere, rimane ad ogni modo consapevole e ricercata in tutti i suoi passaggi. Col senno di poi, personalmente vedo molto dell’ultimo album anche nei primi lavori, seppur possano sembrare a un primo ascolto un po’ derivativi: probabilmente quel che è mutato negli ultimi anni è stato il mio approccio all’espressione piuttosto che alla ricerca di soluzioni espressive. Definirei le prime uscite FTD ermetiche piuttosto che derivative o di genere, nel senso che non ho saputo non soccombere al mio vecchio vizio di nascondere le cose piuttosto che rivelarle: mentre negli ultimi lavori è avvenuta una liberazione dei vapori contenuti nel calderone iniziale, e l’eterogeneità che ne è derivata è senz’altro più manifesta.

ARRIVIAMO QUINDI A PARLARE DI “NEGATIVE”, DISCO CHE A MIO AVVISO RAPPRESENTA L’APICE ATTUALE DEL PERCORSO DELLA BAND. QUALI OBIETTIVI TI ERI PREFISSATO DI RAGGIUNGERE CON QUEST’OPERA? E VISTA LA BREVE DISTANZA CHE LO SEPARA DAL SUO PREDECESSORE, QUANDO È STATO IDEATO/COMPOSTO?
– Innanzitutto grazie per belle parole. In realtà sono sempre fuori sincrono con quel che lascio trapelare, e le prime note di “Negative” sono state composte sei mesi prima che “Panopticism: Belong / Be Lost” fosse pubblicato – similarmente, “Panopticism” era pure stato composto ben prima che “No Solution / Dissolution” venisse alla luce. Il fatto di iniziare a comporre roba nuova prima di essere a conoscenza di pareri formali sull’opera precedente è in realtà una cosa ricercata e in qualche modo liberatoria, perchè significa che il flusso compositivo non viene intaccato da pareri altrui ma segue una sua traiettoria naturale. Relativamente agli obiettivi che mi ero prefissato con “Negative”, si potrebbe dire che da una parte ero interessato a migliorare alcune cose che avevo fatto con “Panopticism”, e più nello specifico volevo rendere le escursioni in territori noise e drone più centrali all’interno dello sviluppo dei pezzi. Come detto, questo è stato un pensiero indipendente dal giudizio di terzi, ma proveniente da un parere in retrospettiva riguardo al mio disco precedente che era completamente soggettivo. Più in generale considero la ricerca formale di Feed Them Death quella di rendere la musica veloce più drammatica – spesso la musica estrema sacrifica il pathos sull’altare della velocità, e tradizionalmente certe dissonanze e profondità espressive si adattano meglio ad atmosfere più sulfuree e catramose. L’idea, obiettivo e intento dietro ogni cosa che faccio con Feed Them Death è quello di creare una coltre palpabile di disagio all’interno di una struttura fondamentalmente veloce e dinamica.

“NEGATIVE” È UN TITOLO MOLTO FORTE ED ESPLICATIVO. DA UN PUNTO DI VISTA LIRICO, SU QUALI TEMATICHE HAI DECISO DI CONCENTRARTI?
– La scelta di un titolo come “Negative” è in realtà la necessità formale di semplificare le soluzioni espressive adottate in precedenza creando una sorta di sintesi che fosse in qualche modo meno verbosa e più iconica. Il titolo deriva parzialmente da “Negative Dialektik” di T. Adorno: l’album, pure prendendo spunto da diversi scritti di Adorno, non è da intendersi come un concept, ma più come una specie di telo sul quale proiettare episodi di investigazione filosofica relativi alla mercificazione delle istanze controculturali all’interno della società dei consumi. O in altre parole, come sia possibile che anche e soprattutto correnti che dovrebbero essere in opposizione formale alle logiche tipiche dell’arte commerciale (pensa al metal in molti casi) si conformino al punto di rivelarsi inestricabilmente collegati alle dinamiche di produzione di massa e relativo consumo generalizzato. Per intenderci, molti di noi ascoltano quel che altri vogliono farci ascoltare, mascherando l’indottrinamento per scelta senziente. Il problema di personaggi famosi che indossano magliette black metal non è tanto quello che loro non se lo meritano perchè non conoscono questa o quella band, quanto che quelle band sono diventate brand. Un underground che imbocca il proprio pubblico di proposte tutte uguali, consegnando allo stesso tempo l’illusione della scelta e vestendola da controcultura, è una rappresentazione fin troppo reale di quel che ci accade intorno quotidianamente anche al di fuori del mondo della musica. La “Magna Moralia” aristotelica insegnava che si arriva a una sintesi positiva attraverso l’unione di due negativi, mentre parafrasando Adorno ho voluto proporre una “Minima Moralia” secondo la quale non vi possano essere sintesi positive in un mondo nel quale le nostre vite sono state permanentemente danneggiate.

L’ARTWORK DI “NEGATIVE” APPARE DAVVERO MOLTO CURATO. COME SEI ENTRATO IN CONTATTO CON SOPHIE GABRIELLE, L’ARTISTA AUSTRALIANA CHE LO HA REALIZZATO? LE HAI DATO INDICAZIONI SUL CONCEPT DA SVILUPPARE O LE HAI LASCIATO LA PROVERBIALE ‘CARTA BIANCA’?
– La copertina segue lo stesso principio di iconicità rappresentando un immagine sola a differenza del solito collage, e privando la veste grafica non solo del logo, ma addirittura del nome del gruppo e del titolo – che qui appaiono semplicemente come F, T, D e un simbolo “-“ agli angoli dell’artwork. Interessante a mio avviso notare che l’immagine di copertina, creata dalla fotografa australiana Sophie Gabrielle, pur non essendo stata fatta specificatamente per l’album ma facente parte di un gruppo di fotografie antecedenti alla creazione di “Negative”, è in piena sintonia con il progetto. L’immagine è stata fotografata un mucchio di volte e i negativi sono stati sviluppati all’aperto e immersi in acqua inquinata che ha permesso a microbi di formarsi e letteralmente mangiare la pellicola. Dunque anche la veste grafica del progetto ha rafforzato l’ethos dell’album nei confronti di una sintesi narrativa negativa e antipositivista.

A PROPOSITO DI COLLABORAZIONI, IN “NEGATIVE” SI È RINNOVATA QUELLA CON DAVIDE DESTRO DEI LACOLPA PER QUANTO CONCERNE L’EFFETTISTICA…
– Davide è una delle pochissime persone con le quali vado musicalmente, anzi rumoristicamente, d’amore e d’accordo. Ho sempre stimato tantissimo il suo lavoro con LaColpa, che considero una delle migliori realtà musicali in circolazione. Per come intendo io le collaborazioni, ho bisogno di gente della quale fidarmi ciecamente: non riuscirei mai a concepire una collaborazione dove esistessero paletti fissi e perimetri perfettamente delineati che inquadrassero le dinamiche di partecipazione. Quando collaboro con qualcuno, quel qualcuno ha totalmente carta bianca. Con Davide ho cominciato a collaborare su “Panopticism”, dopodichè è pure intervenuto sull’EP, e adesso su “Negative”. Questa sincronia e intesa ci ha portato per lungo tempo a considerare la possibilità di una collaborazione più vasta, che finalmente ha dato frutto al di fuori dei microcosmi di FTD o di LaColpa: abbiamo infatti ultimato le registrazioni di un progetto a due ex novo, e il primo album vedrà la luce in autunno. Il progetto si chiama Pseudodoxia e non esiste in realtà un modo semplice e lineare di definirlo: esiste ed agisce all’interno di canoni che prendono spunto da una gamma di suoni che spazia tra drone, ambient, harsh noise ed elettronica, tuttavia con un attenzione particolare alla destrutturazione del suono con una sensibilità neoclassica, e integrando il tutto all’interno di un apparato armonico di composizione quasi cantautoriale.

OLTRE A “PANOPTICISM…”, LO SCORSO ANNO HAI RESO DISPONIBILE ANCHE UN EP DAL TITOLO (PIUTTOSTO EMBLEMATICO) “FOR OUR CULPABLE DEAD”; TI ANDREBBE DI PARLARCENE UN PO’ MEGLIO? A COLPIRE DI QUEL LAVORO ERA STATA ANCHE LA DURATA DI UN EPISODIO COME “THE UNATTAINABLE JOY”, UNA SORTA DI RECORD PER GLI STANDARD DEL PROGETTO…
– “For Our Culpable Dead” in realtà è una costola di “Negative”: i due erano stati intesi come un unico disco, tanto che erano stati registrati insieme. Come dicevo, avevo cominciato a gettare le fondamenta di “Negative” molti mesi prima dell’uscita di “Panopticism”, il che mi ha dato tempo poi per ultimare e perfezionare le cose. Nell’ascoltare il lavoro finito mi resi conto che sfiorava i cinquanta minuti, il che ne rendeva l’assimilazione estremamente ostica. Inoltre volevo lasciar passare almeno un anno tra i due full-length. In aggiunta a questo, avevo anche la necessità di portare alcuni degli elementi lirici del nuovo album ‘a terra’, traslandone il significato all’interno di un contesto più privato e meno universale. Considerato tutto, decisi allora di rilasciare un EP di tre brani che agisse come ponte di collegamento tra i due full. “For Our Culpable Dead” è da una parte una lettera d’amore all’EP di una delle mie band preferite di sempre (“For Our Dead” dei Nuclear Death), e dall’altra una riflessione privata sul concetto di colpa e responsabilità dei confronti della propria infelicità. Il primo pezzo espone la storia del mito di Faust come scritto da Pessoa, mentre gli altri due pezzi affrontano il tema dell’incapacità di provare gioia per via del fatto che l’universo emotivo e privato di ognuno (o quantomeno il mio) sia stato invalidato dalle azioni (o assenza di esse) di chi ci ha preceduto, sia da un punto di vista generazionale che, nello specifico, genitoriale. Riguardo la durata di un pezzo come “The Unattainable Joy”, quello è l’unico episodio che può essere letto in relazione all’uscita dell’album precedente: ricordo una recensione anche relativamente positiva di “Panopticicm” dove mi veniva però contestato che era facile mantenere dinamismo compositivo quando i pezzi erano tutti sotto i quattro minuti, dunque quello era il mio modo di dire “ah si? Beccati ‘sti sette minuti allora”.

CHE VALORE ATTRIBUISCI ALL’ORIGINALITÀ? PENSI CHE ATTUALMENTE I FEED THEM POSSANO ESSERE CONSIDERATI TALI?
– Considero l’originalità molto importante, ma solo se e quando inserita all’interno di un contesto di ricerca e sperimentazione genuino. Per intenderci non sono interessato alla sperimentazione che avviene attraverso l’utilizzo di scorciatoie formali: pensa al jazz, da molti visto come l’apice della sperimentazione in musica, quando invece è fatto di canoni e stratagemmi compositivi che sono formulari tanto quanto la musica pop. Molto spesso nella musica metal e vari sottogeneri è presente un atteggiamento radicale nei confronti dell’originalità, da una parte premiando solo e soltanto album e gruppi fotocopia, mentre dall’altra parte esiste una ribellione cieca in atto da parte di progetti che agiscono mossi più da frustrazione e urgenze personali che dal desiderio di evolvere il proprio suono in direzioni alternative. Dunque, ci troviamo in un mercato dove le poche band che ricevono ‘hype’ sono, almeno dal punto di vista dell’originalità, poca roba, mentre nei circoli elitisti vengono spesso considerati ‘d’avanguardia’ album composti di pancia e buttati fuori a ripetizione e senza pianificazione. Si parla spesso di talento, o genio, per definire un approccio alla creazione che sia apparentemente libero, al tempo stesso validando un sistema delle caste nel definire il talento come qualcosa di innato. Personalmente ho rispetto per chi invece approccia la propria arte con la metodicità della ricerca, dandosi tempo per creare la propria originalità e farne uno strumento di espressione personale piuttosto che il fine ultimo. Riguardo Feed Them Death so di essere stato intellettualmente onesto nello svilupparne il sound, ma non credo spetti a me definirlo originale o meno.

SAPPIAMO CHE DA ANNI RISIEDI A LONDRA; PENSI CHE LA MUSICA DEI FEED THEM DEATH AVREBBE SUONATO NELLA STESSA MANIERA SE FOSSE STATA COMPOSTA NELLA ‘TUA’ GENOVA?
– Puoi togliere un genovese da Genova, ma mai Genova da un genovese. Fossi stato a Genova sicuro le circostanze relative alla nascita del progetto sarebbero state differenti, ma lo sviluppo formale di FTD non è in relazione col posto nel quale vivo, mentre lo scopro in relazione intima col posto dal quale provengo, fisicamente ed emotivamente parlando.

PARLANDO DI ORIGINI, CHE RICORDI HAI DELLA SCENA UNDERGROUND ITALIANA DEGLI ANNI NOVANTA E – NELLO SPECIFICO – DELLA REALIZZAZIONE DI UNA PIETRA MILIARE COME “NO WASTE OF FLESH” DEGLI ANTROPOFAGUS?
– Ho un ricordo romanticizzato della scena underground degli anni 90, che probabilmente va di pari passo con quello delle persone che ne facevano parte e che ancora oggi considerano “No Waste Of Flesh” una pietra miliare. Personalmente credo sia un buon album che è sopravvissuto al test del tempo ma che ha anche acquisito fascino proprio grazie alla sua storicizzazione e alla generosità della patina del tempo che passa. La scena degli anni ’90 era la scena immediatamente precedente alla digitalizzazione di tutto, che se da una parte ha portato alla democraticizzazione dei mezzi, al contempo ha pure avuto un ruolo importante nella saturazione della scena. Una volta le dinamiche di uscita di un album erano diverse: registrare costava una fortuna, le label erano poche e pagavano tutto, tuttavia mantenendo i diritti materiali sulle uscite. Di conseguenza al netto di un underground sempre molto attivo esistevano moltissime band, parecchi demo e pochi album. Quel che ne risultava era una scena molto compatta, dove le poche band che avevano accesso alla realizzazione di un album avevano la fortuna di godere del supporto di tutta la scena che cresceva con loro. Oggi le dinamiche sembrano diverse, e il fatto che ogni band possa in effetti farsi valere senza bisogno di passare per complicati iter di produzione ha inevitabilmente alzato la qualità generale della proposta, tuttavia però forse disgregando un po’ la scena, in quanto molte più band ora competono per una fetta di pubblico che è infinitamente più piccola di quella di allora. La bellezza della scena di allora era anche che non esisteva il professionismo di adesso: quando entrammo in studio per registrare “No Waste Of Flesh” non esisteva in Italia un produttore che sapesse davvero come registrare death metal. Il nostro fonico dovette filtrare le nostre richieste pur non capendole appieno, e i difetti di produzione di un album come quello, così come la produzione non canonica di altre band di allora come Spite Extreme Wing, primi Sadist, Detestor eccetera, per me erano la forza di una scena che non poteva conformarsi ad altri mercati proprio e anche per via del fatto che non esistevano mezzi per uniformarsi.

QUAL È INVECE L’ULTIMO DISCO CHE HAI ASCOLTATO?
– Ascolto moltissima musica, vuoi per passione e anche per via del gestire un’etichetta. Ricevendo nuova musica tutti i giorni diciamo che la mia quota giornaliera di metal e dintorni è appagata attraverso il lavoro di selezione e produzione che faccio con Brucia, mentre il resto del mio tempo lo impiego ascoltando le cose più disparate. Nella mia playlist del tempo libero è senza dubbio presente molto punk e hardcore, ma anche molta musica ambient e atmosferica. Per esempio, ultimamente ho collaborato ad una playlist e la mia sezione era uno svarione totale che andava da Impetigo a Progetto Nenia, passando per i Void e Vanessa Van Basten. I miei due gruppi preferiti di sempre sono Bad Religion da una parte e Nuclear Death dall’altra, quindi sono una specie di figlio improbabile di Greg Graffin e Lori Bravo (ride, ndR). Ultimo disco ascoltato: “Nebulae” di Mouth Wound (progetto noise danese).

QUALI SONO I TUOI PIANI PER IL FUTURO? POSSIAMO ASPETTARCI ALTRA MUSICA DEI FEED THEM DEATH FRA NON MOLTO?
– Stranamente ad oggi è la prima volta che, con un album già fuori, io non abbia già iniziato e quasi terminato il prossimo lavoro, ma anzi devo ancora iniziare a gettarne le basi, quindi sarà interessante vedere se questa cosa modificherà le mie modalità di lavoro andando avanti. Molta della sete compositiva è appagata dal fatto che io e Giorgio mettiamo davvero tutto in tutte le uscite che facciamo con Brucia. Tuttavia sento un prurito compositivo nuovo affacciarsi ai miei sensi, dunque non escludo un quarto capitolo con FTD ma non prima di un annetto. Riguardo il futuro immediato, oltre che Pseudodoxia sto collaborando in funzione di vocalist con un gruppo grindcore qui a Londra, e dovremmo cominciare a materializzare la nostra esistenza con un demo e qualche data dal vivo tra non molto. Ho anche accettato di collaborare al basso per la nuova manifestazione pandemonica di Continuum of Xul, al fianco di cari amici come Tya (ex Antropofagus, ex Hellish God), Matteo (Ad Nauseam) e con la partecipazione speciale di Giulio Galati (Hideous Divinity, Nero di Marte). Un EP è attualmente in realizzazione e dovrebbe uscire dopo l’estate. Grazie mille per le domande, è stato un piacere parlare con voi.

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