FEN – La mente in viaggio

Pubblicato il 12/07/2017 da

Nella nostra recensione al loro ultimo uscito, “Winter” , parlavamo di una sorta di ‘impegno’ richiesto all’ascoltatore, di uno sforzo doveroso e necessario a intuire cosa si celasse, nel complesso, dietro le menti dei Fen, e in sede d’intervista i Nostri non hanno smentito la propria connotazione culturale e la forte intellettualità che permea il progetto inglese. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Frank Allain, aka The Watcher, ossia chitarra (e una delle voci) all’interno della band, una persona di grande intelligenza e conoscenza, introspettiva e profonda, che non ha lesinato in questa sede molti dei suoi punti di vista su arte, comunicazione, senso della vita, il tutto con un’arguzia e una genuinità disarmante quasi quanto l’enorme passione per la musica che traspare dalle sue parole; un lungo discorso in cui non per un momento sia trasudata della presunzione volta a rovinare i molti pensieri del musicista, e un punto della situazione sui progetti del gruppo, la cui posizione, anche alla luce del grande valore della propria discografia, dovrebbe oramai essere conclamata nel panorama del metal estremo. 

“WINTER” E’ UN ALBUM COMPLESSO MA ESTREMAMENTE MUSICALE. COME LO DESCRIVERESTI?
“Dunque, in realtà è un lavoro piuttosto difficile da descrivere sommariamente. Dovendo connotarlo, direi che si tratta di un introspettivo, labirintico viaggio interiore attraverso scoperta, rivelazione e finalità. Da un punto di vista musicale, è senza dubbio l’album più ambizioso che abbiamo scritto e registrato ad oggi. All’inizio del processo compositivo avevamo deciso di voler creare qualcosa basato su parametri differenti da quelli usati sinora – di scrivere un disco che fosse un unico, continuo fluire, in cui ogni capitolo si collegasse quasi impalpabilmente all’altro. E non è tutto, abbiamo cercato di rivedere il nostro approccio alla composizione, di incorporare gli elementi con i quali compositori classici approcciano i propri lavori. Inoltre ho passato molto tempo ad ascoltare classic progressive a quel punto, in particolare gli Yes, e volevo davvero incorporare quello stile di scrittura nel processo di creazione di ‘Winter’. Se il tutto suona un po’ pretenzioso o troppo ambizioso, beh, non posso essere del tutto in disaccordo! Ovviamente, se messo a confronto ad album ‘classici’ universalmente riconosciuti, questo lavoro impallidisce in termini di complessità, ma quanto meno ho voluto provarci. Infine, c’è da dire che eravamo determinati a spingerci il più in là possibile, scavare a fondo in quello che possiamo raggiungere come musicisti essendo in soli tre elementi. Mi preoccupa il fatto che troppe band siano a loro agio semplicemente avendo raggiunto il loro ‘groove’, mettere in atto la stessa cosa che hanno sempre fatto – per quel che riguarda i Fen, per quanto non abbia dubbi che vi sia chi, là fuori, non ha tempo per il nostro modo di fare extreme metal o a cui non piacciano i nostri album (e del resto la musica è completamente soggettiva), quello che non può essere messo in questione è l’ammontare di duro lavoro che mettiamo in ogni album. A questo proposito, abbiamo inserito un’enormità di cose in questo lavoro: soffici momenti puliti, doom metal, ambient, discordante black metal – in ogni caso qualcosa che credo contribuisca ad una narrazione musicale coerente”.

DI QUALE VIAGGIO SI PARLA IN “WINTER”?
“Il viaggio descritto in ‘Winter’ è un’esplorazione molto personale che, tuttavia, può anche essere interpretata dall’ascoltatore in una maniera che possa riguardarlo in prima persona come individuo. In sostanza, rappresenta un percorso alla ricerca del vero ‘io’ di ognuno, la scoperta del sé stesso interiore e, nel processo, il raggiungimento di una forma di scopo. Che sia la consolazione della comprensione o redenzione attraverso il dolore della realizzazione, o ancora la disperazione generata dalla visione della marcia natura dell’essere di ognuno, lo scopo finale è la chiusura di un cerchio. Credo che sia qualcosa intrinseco a tutti, con cognizione di causa o meno. Posso avvertire un palpabile senso di inquietudine che picchietta, qualcosa che i più faticano a riconoscere o a mettere in parole anche quando questo mastica la loro psiche: chi sono io? Cosa sono io? ‘Winter’ mette in scena questo metaforico tragitto, sullo sfondo dell’immaginario che ci appartiene in quanto Fen”.

COME SIETE ARRIVATI A “WINTER”, GUARDANDO INDIETRO AI VOSTRI ESORDI?
“Credo davvero che quest’album fosse inevitabile, visti gli individui coinvolti, i nostri interessi musicali e passioni, e i principi della band. Sin dal concepimento dei Fen abbiamo voluto che gli album venissero pubblicati più come una pura esperienza sonica che una più o meno connessa serie di canzoni. Abbiamo sempre voluto che i dischi funzionassero individualmente, unità coerenti, entità concettuali in loro stesse, nelle quali le canzoni contenute non fossero nulla più che capitoli di una storia più grande. Essendo cresciuti come musicisti e come persone, siamo stati capaci di provare a realizzare quest’idea in maniera anche più effettiva – per molti aspetti ‘Winter’ sembra quasi un disco di debutto. Atmosfericamente ero dell’idea di distillare l’essenza del messaggio dei Fen, di prendere i temi esplorati in ‘The Malediction Fields’ e affinarli, perfezionarli, esplorare cosa stavamo cercando di dire al tempo e portarlo alle estreme conseguenze. Su ‘Winter’ abbiamo deciso di disegnare su alcuni di questi elementi, di dislocare una forma più astratta e progressiva di composizione ed esecuzione. Dunque, il matrimonio tra questi miglioramenti musicali in una continua ricerca di accrescimento della natura concettuale dei nostri dischi, con il tentativo di impersonare genuinamente l’essenza della ‘missione’ che ci siamo dati come Fen, se così possiamo dire, è quello che ci ha portato ad ottenere ‘Winter’. Si tratta di qualcosa di idealizzato, sviluppato ed eseguito con uno scopo ben preciso: non è per tutti, e sono conscio del fatto che non sia perfetto, ma in termini di realizzare quanto ci eravamo preposti, credo che il risultato in sé sia un successo”.

DIREI CHE QUESTO E’ UN ALBUM CHE VA CAPITO, ASCOLTATO ATTENTAMENTE E NON SENZA QUALCHE SFORZO, CONCENTRANDOSI E PRESTANDO ATTENZIONE. E’ COME SE CI FOSSE UN SILENZIOSO ACCORDO DA RISPETTARE TRA VOI E L’ASCOLTATORE, COME VEDI QUESTA COSA?
“Credo che la si possa decisamente mettere così! (Ride, ndR). Voglio dire, nel momento in cui qualcuno mette il CD nel lettore e vede ‘ sei tracce, 75 minuti’, sa che ci sarà da fare qualche sforzo. Empatizzo completamente con ciò, ci sono momenti in cui io per primo semplicemente non ho l’energia mentale e/o emozionale richiesta da investire in dischi del genere. E’ appunto un investimento, me ne rendo conto, e certamente chiede molto all’ascoltatore perché possa veramente entrare nell’album ed esplorare tutto ciò che ha da offrire. Voglio dire, tutti i nostri dischi precedenti sono così, per certi aspetti, ma ‘Winter’ davvero spinge quest’idea al limite. Ciononostante, mi piace pensare che abbiamo costruito una sorta di rapporto di fiducia con i nostri ascoltatori, durante gli anni – ossia, loro sanno come scriviamo, come operiamo e come creiamo, e possono essere certi che i loro sforzi (e la loro pazienza) verranno in effetti premiati, dando il giusto tempo. Quest’ultimo lavoro è decisamente uno dei meno immediati, ci vuole tempo perché spieghi le ali, perché decida di rivelare alcuni dei suoi segreti, e questo richiede un po’ di impegno da parte dell’ascoltatore. E perché no, dopo tutto? In questa cultura di creatività sacrificabile, di streaming e mp3, di ‘qui oggi, sparito domani’, di mentalità in cui chiunque sta cercando il prossimo trend, perché non pubblicare qualcosa con un ché di profondo in sé, qualcosa che chiami a una sfida, che ispiri e stimoli? Siamo in giro da ormai una decina d’anni e molti dei nostri ascoltatori sono stati con noi sin dal principio. Credo che abbiano intenzi0ne di proseguire con noi questo viaggio, che empatizzino con quanto abbiamo provato ad inserire in questi dischi e che capiscano che, se il risultato sia in grado di riflettere anche una piccola parte di questi tentativi, anche loro saranno in grado di raccogliere i frutti di ciò che vi risiede. Quindi si, c’è un ‘patto’, e credo che sia anche vantaggioso!”

COME VI SIETE APPROCCIATI ALLA SCRITTURA E ALLA REGISTRAZIONE?
“Le sessioni di scrittura sono state piuttosto impegnative, nel senso che ci siamo seduti e abbiamo pensato profondamente, davvero profondamente, a come avremmo voluto far suonare questo disco. Invece, ero convinto dal principio su come volevo approcciarmi alla composizione – ero determinato ad avere tutte le canzoni incluse una nell’altra, senza spazi tra esse, che lo stesso riff non dovesse mai ripetersi, che il disco sarebbe stato basato su di un rifluire di temi, dinamiche, eccetera. Per quanto possa suonare pretenzioso, ho voluto approcciarmi alla composizione quasi come se fosse una lavoro di musica classica. Ora, io non sono per nulla istruito nell’arte di tali composizioni, perciò senza dubbio questo mio ‘scopo’ impallidisce di fronte alle complessità e stilemi intricati di tali lavori – nonostante ciò, però, era qualcosa a cui valeva la pena puntare, e che decisamente ci ha dato l’impeto di spingere e spingere, di buttarci nel fare qualcosa di diverso con quanto a disposizione. Come per i nostri album precedenti, parte del materiale è evoluto nelle prove studio e parte è stato scritto in quasi completo isolamento – non ci siamo mai limitati ad uno specifico modo di lavorare. Alcune delle cose migliori possono emergere in una jam fra noi tre in sala prove, permettendo al nostro ‘non detto’ di fluire liberamente, ma allo stesso tempo il lavoro di intense ore concentrati in composizione solitarie può dare i suoi frutti. Le registrazioni sono state supervisionate dal nostro buon amico Jaime Gomez agli Orgone Studios. Conosco Jaime da una ventina d’anni, e ho registrato altre volte con lui. Conosco i suoi metodi, le sue preferenze, le sue ispirazioni sono molto simili alle mie: tenere le cose più vive ed organiche possibili, utilizzare strumentazione vintage, lasciare le cose essenzialmente scarne, semplici, focalizzandosi maggiormente su atmosfere e sonorità. In parole povere, esattamente l’opposto di come molte metal band moderne lavorano! Insomma, abbiamo iniziato a lavorare come facciamo normalmente – come registrare la batteria live mentre suonava con la band (quindi niente guide, niente click), con un occhio ad assicurarci che la performance fosse la più reale e onesta possibile. La batteria era destinata ad una traccia analogica, e abbiamo usato un kit particolarmente ‘grosso’ per dargli la presenza che volevamo. Siamo poi andati a chitarre e basso, infine le voci. E’ stato un lavoro duro – lo è sempre quando gli standard sono alti – ma molto gratificante. Eravamo preparati e avevamo speso molto tempo a provare – da una prospettiva chitarristica, ho operato molte sperimentazioni su toni ed effetti per assicurare equamente chiarezza e atmofera, usando un mix di amplificatori moderni e vintage (uso generalmente un vecchio Mesa Mark e un Matamp con a fianco un sacco di delay e riverberi). Credo che il risultato giustifichi il duro lavoro che ci siamo sobbarcati. Anche dal punto di vista delle voci, credo che siano senza dubbio le migliori che io abbia mai messo su nastro”.

SUONERETE TUTTO L’ALBUM LIVE O STATE PENSANDO AD UTILIZZARE SOLO ALCUNE TRACCE?
“Non ne sono sicuro. Vorrei suonarlo interamente, un giorno, ma richiederebbe un’enorme preparazione e lavoro – dopo tutto sono 75 minuti di musica che dovremmo preparare! Suoneremo di sicuro (come già abbiamo iniziato) un gran numero di pezzi da ‘Winter’, certamente le prime due parti, come chi è venuto a vederci di recente ha potuto vedere. Chissà. Se dovesse arrivare l’opportunità giusta, fare tutto il disco nella sua interezza sarebbe bello (lo facemmo quando pubblicammo ‘Dustwalker’), ma al momento la mia mente è già orientata a lavorare su nuovo materiale piuttosto che spendere energie e tempo lustrando quello di ‘Winter’. Insomma, si vedrà.

COME DETTO, “WINTER” E’ PIENO DI SIGNIFICATI E DETTAGLI, DI ATMOSFERE. QUAL E’ PERO’ IL LINK CHE ATTRAVERSA LE TRACCE, COS’E’ CHE RENDE COMPLETA L’ESPERIENZA ATTRAVERSO L’ALBUM?
“Per l’appunto, come dicevamo, ogni traccia rappresenta un capitolo sequenziale all’interno di un viaggio descritto nella sua interezza dall’album in sé. E’ la metafora di una figura solitaria che arranca stancamente verso la cattedrale che si staglia, larga, all’orizzonte del desolato, nebbioso panorama. La cattedrale stessa rappresenta il punto finale di questo viaggio, uno scopo alla fine non realizzato. In sé, l’intero lavoro simbolizza un viaggio verso l’essenziale verità di chiunque, un tentativo di scoprire – se ce n’è uno – il nostro significato. Dentro ognuno di noi pulsa un un non specificato senso di vuoto, una nozione assillante che ci dice che il nostro monologo interiore non sarà mai in grado di articolare sé stesso. Perché siamo qui? Ancora una volta, fondamentalemente, chi sono? Questi pensieri stanno nella nostra psiche, si siedono sulla radice della nostra dissonanza cognitiva di un’esistenza giorno-per-giorno che si invischia in triviali ed arbitrari rituali che, alla fine, non hanno altro scopo che quello di distrarci dal più intrinseco dei nostri viaggi. E dunque ‘Winter’ affronta ciò, la ricerca di un senso, di un punto fermo e finale, del quale non sappiamo nulla finché non lo raggiungeremo. Per alcuni, può rappresentare redenzione, conforto, pena, ascensione ad un nuovo piano dell’essere, comprensione. Per altri, miseria e angoscia. Oblio e morte per altri – se non altro, per la maggior parte di noi. Naturalmente ‘Winter’ diviene spesso una metafora della fine della vita, l’oscura finalità dell’esistenza, e non è una coincidenza che molto dell’immaginario lirico qui può essere visto come un riferimento alla fine di qualcuno. Qualsiasi sia il caso, qualsiasi sia l’interpretazione che l’ascoltatore decide di applicare ai testi, una finalità di sorta verrà raggiunta”.

COME DESCRIVERESTI L’ENTITA’ FEN A CHI NON VI CONOSCE?
“E’ una domanda sempre difficilissima! Dipende – e assumendo dovessimo parlare a qualcuno che conosce la terminologia del metal estremo, io uso sempre l’etichetta ‘atmospheric black metal’. Non è poi così adeguato, a dire il vero, ma credo che serva allo scopo. Ora, nel 2017, ci sono così tante versioni e sottogeneri nel metal estremo che è quasi divenuta un’autoparodia – voglio dire potrei descriverci come ‘atmospheric shoegaze post-black progressive ambient metal’ se proprio volessi. E potrebbe essere condiviso dai puristi del genere che questa sia una più accurata rappresentazione del nostro sound ma, ammettiamolo, è uno spreco di fiato e sarebbe ridicolo descriverci in questa maniera. Per coloro fuori dal mondo del metal, di solito dico qualcosa di aleatorio, tipo ‘ambient heavy metal’ o qualcos’altro di altrettanto vago. E’ un po’ complesso, ma se proprio dovessi direi che siamo ‘la colonna sonora di un viaggio crepuscolare attraverso una terra di paesaggi tempestosi dove tetra bellezza, dolore, riflessione e rabbia tuonano da cieli grigi attraverso un nero terreno torbato!’ Si, questo probabilmente spiega tutto (ride, ndR)!”.

QUALI BAND TI AIUTANO AD ISPIRARTI, AL MOMENTO?
“Al momento? Non saprei, ad essere onesto ho passato la maggior parte della settimana scorsa ascoltando nient’altro che i primi quattro dischi dei W.A.S.P.! Credo ci siano state delle ottime release quest’anno in campo di metal estremo – The Ruins of Beverast, Inferno, Ofermod, Nightbringer e The Great Old Ones sul fronte del black metal , più dell’eccellente death metal da Artificial Brain, Immolation, Dodecahedron. Il 2017 è stato un anno molto forte per la musica, bisogna dirlo, abbiamo visto alcuni act che hanno fatto centro e rilasciato del materiale veramente trascendentale. Nei termini di quale potrebbe essere una diretta ispirazione per quello che facciamo coi Fen al momento, è un po’ più difficile da dire. Ho avuto una gran serie di sessioni con gli Swans recentemente, sto davvero entrando in ‘White Light from the Mouth of Infinity’, c’è qualcosa di brillante e ‘arioso’ in quell’album che tuttavia nasconde un seme di vera oscurità. Oltre quello, non saprei. I Fen hanno preso una tale ‘vita propria’ che entro all’interno di un diverso, isolato spazio quando compongo per la band. Ho fermentato un numero di nuove idee, ed è difficile dire dove molta dell’ispirazione nasce; forse la parte più cruda, più ambient della scena scandinava degli anni ‘90, come i primi Setherial, Vemod, Kvist, persino i primi Covenant”.

E COS’ALTRO – FUORI DALLA SCENA MUSICALE – TI ISPIRA PER LE VOSTRE COMPOSIZIONI?
“Tutte le esperienze possono fungere da canale dal quale assurgere ispirazione, quando parliamo dei Fen. Di certo, per molti aspetti, queste esperienze possono essere anche più importanti e significative che le fonti musicali stesse. Una rigenerante passeggiata attraverso paesaggi e boschi è uno dei modi in cui riesco a far lavorare le mie cellule cerebrali, può esserci qualcosa di quasi spirituale nel camminare nelle zone paludose nel tardo autonno, guardando il sole lentamente perdersi nel cielo aperto. Un buon whisky è un’altra esperienza per me evocativa; trovare il tempo di sedersi in solitudine con la mia chitarra e un buon Lagavulin diventa sempre più difficile, ultimamente, ma questo è un modo con cui mi connetto nella ‘purezza’ della creatività. Mettiamola così, molto di quello che scrivo nasce da momenti come questi. Anche certe forme di letteratura fungono da catalizzatore per il processo intellettuale che circonda i Fen. Parlando in via generale, gli scritti di filosofi esistenzialisti come Hume, Kant, Satre e Wittgenstein sono dei trampolini per noi. Molti degli scritti possono avere elementi di impenetrabilità, e a volta possono scomparire in quello che sembra essere un circolare testacoda di ragionamento. Ci vuole un po’ di tempo, di concentrazione e duro lavoro per scoprire l’essenza del significato di certi lavori, ma è molto, molto meglio prendersi del tempo per concentrarsi su ciò. Può espandere la comprensione di sé stessi in maniera incommensurabile, e personalmente esploro gli impatti di molti di questi temi nelle nostre canzoni”.

QUALE DISCO IN PARTICOLARE TI E’ PIACIUTO FINORA DEL 2017?
“L’ultimo Slowdive è stato una bella sorpresa – abbastanza breve, certo, ma con della roba davvero buona. Di sicuro il nuovo Ruins of Beverast, è immenso, così come il nuovo The Great Old Ones. Di recente ho scoperto una band svizzera post-rock di nome Hubris che ha pubblicato un album eccellente un paio di mesi fa, inoltre. Come dicevamo, sinora il 2017 è stato un anno molto buono”.

COSA SIGNIFICA PER VOI SUONARE LA VOSTRA MUSICA, QUALE MESSAGGIO VOLETE PORTARE CON ESSA?
“Questa è una gran bella domanda! Credo di aver detto parecchie cose a riguardo in questa intervista, ultimamente suonare ed esprimermi attraverso composizioni e performance è la cosa che guida la mia esistenza. Questo suonerà estremamente arrogante, ma almeno sono onesto a riguardo. La gran parte degli aspetti della mia vita ruotano attorno la creazione di musica, non si tratta semplicemente di dedicarmici come e quando posso. E’ incredibilmente importante per me, significa davvero moltissimo. Credo che la creatività, la ‘canalizzazione’ della musica sia una potentissima esperienza spirituale. C’è qualcosa che quasi ti trasforma, nell’abilità di portare un brano musicale alla sua esistenza, modellarlo, dargli vita e definizione. Per quanto riguarda il messaggio, non direi di averne uno specifico che cerco di veicolare. Almeno non coscientemente. Il mio obiettivo è quello di trasportare, descrivere un’atmosfera, evocare una risposta emotiva nell’ascoltatore e portarlo con me attraverso il viaggio . Onestamente non credo nel fare musica per motivi diversi – c’è chi desidera fama, altri cercano di diffondere un messaggio politico, altri semplicemente vogliono fare le rockstar. E’ una cosa che non credo di capire. Voglio dire, sono il primo a ‘spaccare tutto sul palco’ (‘revel rocking out on stage’ in originale, ndR) esattamente come qualsiasi altro metallaro, ma si tratta di un estremamente apprezzabile effetto collaterale di una più aperta visione di creazione e comunicazione. Peraltro, è certamente una sensazione speciale quella che si prova sul palco, un qualcosa che nutre, con te, un’audience che sembra voler viaggiare insieme a te – e questo è quando stare on stage diventa qualcos’altro, quasi il raggiungimento di un incontro trascendentale tra pubblico e performer. E’ raro, ma il raggiungere un tale tipo di connessione è qualcosa che ci dà motivo di lottare!”.

SIETE STATI DA SEMPRE PROLIFICI E COME DETTO STATE GIA’ LAVORANDO A QUALCOSA DI NUOVO.
“Certo. Guardo sempre avanti, non abbiamo alcun desiderio di diventare una band da greatest hits e riposarci sugli allori di dischi composti dieci o venti anni fa. Sei buono solo come lo è il tuo ultimo disco, questa è la mia teoria, e il motivo per cui non appena un disco è stato scritto e registrato, le attenzioni devono rivolgersi al prossimo. La creatività dovrebbe essere un fluire, un processo continuo cui porre sempre attenzione. Certo, può divenire un impulso incontrollabile, ma la fiamma dovrebbe essere sempre lì ad incoraggiarti nel cominciare le basi della prossima uscita. Di sicuro quei momenti di ‘vuoto’ possono essere i più eccitanti: cosa fare adesso? Con che approccio? Cosa possiamo fare diversamente o migliorare, questa volta? Dove vogliamo andare? Il futuro non è scritto, è lì che attende solo che noi lo modelliamo, che prendiamo le redini della nostra arte verso qualsiasi sia la strada e scriviamo il prossimo capitolo della band”.

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