FIT FOR AN AUTOPSY – Segnali dal futuro

Pubblicato il 13/02/2022 da

Il ritorno dei Fit for an Autopsy in questo inizio 2022 è coinciso con uno dei migliori dischi death-core degli ultimi anni, oltre che con il raggiungimento di una maturità stilistica non più trascurabile da chi è solito seguire le frange più estreme del metal moderno. Un’opera che si guarda bene dallo scadere nella faciloneria o nel kitsch di altri giovani esponenti del filone, ultimando quel processo di affinamento della personalità e ricerca atmosferica avviato da dischi comunque fortunati come “The Great Collapse” (2017) e “The Sea of Tragic Beasts” (2019). Intercettato via Skype nel pieno della tournée americana in compagnia di Ingested, Great American Ghost e altri, il chitarrista/super-produttore Will Putney ci è parso più che conscio dello stato di forma della sua creatura, confermandosi altresì un interlocutore brillante, rilassato e coi piedi assolutamente per terra, anche quando la conversazione è virata su argomenti extramusicali. A voi il resoconto della nostra chiacchierata…

SONO PASSATI TRE ANNI “THE SEA OF TRAGIC BEASTS”, COME VEDETE OGGI QUEL LAVORO? PARLIAMO DI UN DISCO MOLTO APPREZZATO, CHE HA DEFINITO UNA VOLTA PER TUTTE IL VOSTRO SUONO: QUALI ERANO I VOSTRI OBIETTIVI PER “OH WHAT THE FUTURE HOLDS”?
– Sai, quando iniziamo a lavorare ad un nuovo disco non abbiamo mai un obiettivo chiaro in mente. Scriviamo sulla base di ciò che ci piace e di ciò che ci ispira in quel momento, senza troppi calcoli sul risultato finale. Ci troviamo ad un punto della nostra carriera in cui siamo consapevoli di quello che deve avere una canzone per essere okay, e non ci preoccupiamo granché di quello che potrebbe pensare la gente. Spesso gli ascoltatori non vedono l’ora di metterti in una scatola, capisci cosa intendo? Per questo motivo, il processo di lavorazione è stato molto lineare e rilassato, sicuramente più semplice rispetto ad altre volte in passato. Dovessi poi confrontare l’album a “The Sea of Tragic Beasts”, anche se so che suonerà come un cliché, ovviamente non c’è partita… Perché questo è il nostro miglior disco! E il bello è che ti dirò lo stesso fra un paio d’anni, quando sarà uscito il prossimo (ride, ndR).

LA PANDEMIA SI È RIPERCOSSA IN QUALCHE MODO SULLA LAVORAZIONE DEL DISCO?
– Non direi, no. In realtà penso che la pandemia ci abbia solo messo nelle condizioni di lavorare con più calma e rilassatezza al disco. Devi anche considerare che con il mio studio di registrazione sono stato occupatissimo, visto che con lo stop dei tour un sacco di band si sono messe a incidere nuova musica. Diciamo quindi che l’emergenza non si è ripercossa in maniera negativa sul processo creativo: abbiamo tenuto più sessioni di registrazione, scritto più canzoni del solito, sperimentato… l’album ha avuto tutto il tempo di crescere e finalizzarsi nella maniera che speravamo e che avevamo in mente.

L’ALBUM PRESENTA DIVERSE SOLUZIONI RITMICHE E CHITARRISTICHE. COME VI SIETE APPROCCIATI AL SONGWRITING?
– Come dicevo poco fa, abbiamo scritto quello che ci sarebbe piaciuto ascoltare. A livello collettivo, traiamo ispirazione da un sacco di stili differenti, cercando poi di combinarli senza calcare troppo la mano. Non ci piacciono le forzature e non abbiamo nessun interesse a suonare ‘strani’ a tutti i costi. La vera sfida con “Oh What the Future Holds” è stata trovare cose che potessero amalgamarsi al nostro stile in maniera organica e naturale, anche se ci tengo a sottolineare che niente di tutto questo è avvenuto ‘a tavolino’. La ricerca è stata spontanea esattamente come il risultato che puoi sentire inserendo il disco nello stereo.

COME AD ESEMPIO I PASSAGGI TRIBALI DI ALCUNI BRANI…
– Era una cosa che volevamo inserire per spezzare un po’ l’ascolto. Mi piacciono i dischi che sanno essere interessanti e che regalano qualche sorpresa a chi ci dedica del tempo.

“OH WHAT THE FUTURE HOLDS” È UN TITOLO MOLTO FORTE CHE SI ADATTA PERFETTAMENTE A QUESTO PARTICOLARE MOMENTO STORICO. TI ANDREBBE DI ESAMINARE PIÙ A FONDO QUESTO PUNTO? SE POSSIBILE, I TESTI MI SONO SEMBRATI ANCORA PIÙ NEGATIVI DEL SOLITO…
– Non siamo mai stati una band molto allegra e positiva (ride, ndR). Ci siamo sempre lasciati ispirare dalla realtà che ci circonda, e come ben saprai quest’ultima non è esattamente delle migliori. Cambiamenti climatici, ingiustizie, questioni sociali… Tutte cose che per me sono importanti e che con ogni probabilità continueranno ad essere centrali nei nostri testi. “Oh What the Future Holds” è una raccolta di pensieri su ciò che ci aspetta nei tempi che verranno.

VI CONSIDERATE UNA BAND POLITICA?
– Alcuni membri della band sono sicuramente più attivi di altri su questo fronte, ma posso dire che tutti abbiamo a cuore certe questioni. Personalmente, come individuo, non sento di avere chissà quale influenza o voce in capitolo sulla politica che ci governa, specialmente in un’epoca come questa dove tutto è ridotto al silenzio dal frastuono delle idiozie di Internet. Cerco quindi di incanalare le energie in altre cose per fare la mia parte nel mondo. Non mi considero un grande esperto di politica, e preferisco dedicarmi alla musica piuttosto che dare aria alla bocca su argomenti che non comprendo fino in fondo. Non c’è niente di peggio delle persone che impiegano così il loro tempo.

A MIO AVVISO, STATE DANDO AL DEATH-CORE UN NUOVO VOLTO… PIÙ ADULTO E PROFONDO, IN UN CERTO SENSO. CHE PESO DATE ALLA PERSONALITÀ MUSICALE?
– Siamo stati inseriti in quel filone da subito, anche se a ben vedere abbiamo sempre avuto influenze più vaste. Ovviamente è da lì che veniamo, e anche ora, per semplificare al massimo ciò che suoniamo, potresti definirci death-core, ma personalmente non mi è mai interessato far parte di quella piuttosto che di un’altra scena. Non a caso, il pubblico che ci segue oggi è molto più diversificato. La prova la stiamo avendo in questo tour: ai concerti c’è gente proveniente da vari angoli del mondo della musica pesante, e ne siamo ovviamente contenti. Perché anche noi siamo quel tipo di ascoltatori. Non abbiamo mai voluto scrivere musica per una sola tipologia di persona: metallari, hardcore kid, fan del death-core… Tutti sono invitati alla festa!

“THE MAN THAT I WAS NOT” È SICURAMENTE UNA CANZONE PARTICOLARE PER I VOSTRI STANDARD. AD ESEMPIO, LE VOCI PULITE MI HANNO RICORDATO I POISON THE WELL… SEI D’ACCORDO?
– Non ci avevo pensato, ma è un paragone che mi piace e che ci può stare. Finora l’avevo visto come un mix fra Glassjaw e A Perfect Circle… Sai, alla fine è un classico intro sobrio e malinconico prima dell’esplosione del pezzo. Ma i Poison the Well sono un gruppo che amo e con cui sono cresciuto, e può darsi che il loro influsso emerga nelle melodie che scrivo.

CHE RICORDI HAI DEI PRIMI ANNI DI CARRIERA DELLA BAND?
– A dirla tutta, all’inizio non avevamo idea di quello che stavamo facendo (ride, ndR). Abbiamo avviato la band per divertimento senza intenzione di farla diventare un impegno full-time, di schedulare lunghi tour come facciamo ora e così via. Il massimo che avevamo in mente era comporre musica insieme, suonare qualche show locale e cazzeggiare, fine. Partendo da queste premesse, abbiamo imparato davvero tanto nel corso degli anni… E lo stiamo ancora facendo! Siamo fieri di come abbiamo fatto crescere la band, di come noi siamo cresciuti insieme a lei e del ruolo che siamo riusciti a ritagliarci.

TI RICORDI CHI SCELSE FIT FOR AN AUTOPSY COME VOSTRO MONICKER?
– Il batterista della nostra prima line-up suonava anche in un’altra band, chiamata appunto Fit for an Autopsy. I ragazzi però si sciolsero prima di aver pubblicato qualcosa o di essersi fatti conoscere nel circuito di Jersey City, quindi ci guardammo negli occhi e pensammo: “Non è male come nome, usiamolo noi!”. L’impegno che ci mettemmo fu pari a zero (ride, ndR). Come detto, eravamo giovanissimi e non avevamo altri pensieri per la testa al di fuori di suonare e divertirci.

QUAL È LA PIÙ GRANDE SODDISFAZIONE CHE VI SIETE TOLTI CON QUESTA BAND?
– Sinceramente? Essere riusciti a farci ascoltare da qualcuno (ride, ndR). Il fatto poi di sostenerci grazie alla musica è qualcosa che va ben oltre ogni nostra fantasia, soprattutto se pensiamo al genere che suoniamo. Non lo credevamo possibile. Essere arrivati a questo punto e avere dei fan che ci seguono e che sono interessati a ciò che facciamo è il più grande traguardo che potessimo sperare di raggiungere.

MOLTI GRUPPI TENDONO A REGISTRARE I LORO DISCHI ‘DA CASA’: IN QUESTO SENSO LA TECNOLOGIA STA FACENDO GROSSI PASSI IN AVANTI E ANCHE I BUDGET MESSI A DISPOSIZIONE DALLE LABEL SONO SEMPRE PIÙ RIDOTTI. PENSI CHE LA FIGURA DEL PRODUTTORE SIA ANCORA RILEVANTE AL GIORNO D’OGGI?
– Assolutamente sì. È qualcosa che va oltre il semplice registrare musica, cosa che in tanti oggigiorno riescono a fare da casa. Significa prendere la visione della band e indirizzarla nella giusta direzione, connettendosi anche ai fan per ottenere il miglior risultato possibile. Quando suoni in una band è difficile avere una visione completa della musica che hai scritto; è come se ce l’avessi sempre nelle orecchie, non riuscendo a distaccartene per capire cosa funziona e cosa invece no. Non credo quindi che sia una figura destinata a scomparire, anzi. Tutte le band professioniste, ad un certo punto della loro carriera, comprendono il valore dato da un buon produttore alle spalle.

QUAL È LA TUA PRODUZIONE PREFERITA DI TUTTI I TEMPI?
– Sono un grandissimo fan di Eric Valentine, per cui ti dico “Songs for the Deaf” dei Queens of the Stone Age.

E TRA QUELLE INVECE CHE HAI CURATO PERSONALMENTE?
– Non ne ho una. Ogni volta che mi guardo alle spalle, pensando ai dischi a cui ho lavorato, trovo sempre cose e dettagli che mi piacciono e che mi rendono fiero del risultato ottenuto. Non c’è una produzione in particolare che spicca sulle altre, è come se ognuna raccontasse una storia diversa.

COSA STAI ASCOLTANDO IN QUESTO MOMENTO E QUAL È IL DISCO CHE TI HA FATTO INNAMORARE DEL METAL?
– Sto ascoltando tantissimo i nuovi singoli di Cult of Luna e Author & Punisher. Per fortuna in questo momento il mondo è un posto pieno di dischi interessanti (ride, ndR). Mentre per quanto riguarda la seconda parte della domanda, citerei due dischi: il primo è di una band hardcore/metal della Pennsylvania chiamata Turmoil, “The Process of…”. Quando uscì non c’era nulla di paragonabile a quello nelle zone della West Coast in cui sono cresciuto. Il secondo invece è più un classico: “Chaosphere” dei Meshuggah. Era diverso da tutto ciò che avevo ascoltato fino a quel momento… Fuori di testa!

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