FLAMEKEEPER – Essere portatori di luce

Pubblicato il 16/06/2024 da

È un percorso molto particolare quello che ha portato alla nascita dei Flamekeeper, un percorso che procede più o meno in parallelo anche con la vicenda personale del loro creatore, Marco S. Vermiglio. Questo talentuoso polistrumentista, dopo aver abbandonato la sua avventura con i Demonomancy, ha deciso di cambiare completamente strada, dando vita ad un progetto di metallo epico e tradizionale, che si pone come obiettivo quello di portare una luce dove prima c’era il buio.
Marco, che ora risiede in Svezia, ha prima dato vita ad una one-man band, per poi andare ad attingere nuove forze dagli altri musicisti che si sono via via uniti al progetto.
Abbiamo quindi raggiunto il leader e fondatore dei Flamekeeper per ripercorrere le tappe fondamentali che hanno portato alla nascita del nuovo album eponimo e ci siamo fatti guidare dalle sue parole per comprendere al meglio la filosofia e gli ideali che vuole portare avanti. Buona lettura.

CIAO MARCO, GRAZIE PER IL TEMPO CHE CI DEDICHI, INIZIAMO L’INTERVISTA PARTENDO DAL PRINCIPIO. PUOI RACCONTARCI IL TUO PERCORSO MUSICALE, CHE HA PORTATO POI ALLA NASCITA DEI FLAMEKEEPER? PARTENDO MAGARI DAI DEMONOMANCY FINO A QUESTO IMPORTANTE EVENTO CHE È STATO IL TUO TRASFERIMENTO IN SVEZIA.
– Ciao! È un piacere rispondere a questa intervista. Dopo l’uscita di “Poisoned Atonement” dei Demonomancy nel 2018, ho continuato a scrivere materiale che però stava andando su una traiettoria sempre più diversa da quella black/death metal del passato. Sentivo un contrasto molto forte tra la mia volontà di rappresentare adeguatamente il mio nuovo interesse verso temi celebrativi dell’autenticità umana, della forza interiore e della resilienza e l’uso dell’estetica e della gamma emotiva del metal estremo. C’era una canzone su cui stavo lavorando chiamata “Nomads of the World Beyond”, che però non riuscivo a finire. Un giorno, cominciai casualmente a suonare alla chitarra una progressione di accordi aperti sognante ed epica che alla fine sarebbe diventata, di fatto, il bridge della canzone e ho realizzato quanto il nuovo materiale fosse drasticamente diverso da tutto ciò che i Demonomancy erano e rappresentavano.
Ho pensato che sarebbe stato molto irrispettoso nei confronti dell’arte della musica restare nella mia zona di comfort compositivo quindi, in quel giorno, ho abbracciato l’idea che “Nomads of the World Beyond” e gli altri brani in cantiere appartenessero ad un nuovo progetto e non al terzo disco dei Demonomancy. Il materiale per un EP era praticamente già lì, poiché avevo già una canzone completata chiamata “Dead Sea Waters” e molti riff per un’altra che sarebbe diventata “Until This Earth Takes Me”, ma che all’epoca si chiamava provvisoriamente “Promethean Will”. In prospettiva, quella scelta di titolo mi suona molto ironica poiché non avevo la minima idea di quanto perfettamente preannunciasse il moniker Flamekeeper e la metafora della fiamma, che decisi di adottare soltanto svariati mesi dopo.
Oltre che ad essere un musicista, sono anche un produttore musicale e all’epoca volevo affacciarmi nel mondo del lavoro all’estero, quindi nel 2019 mi sono trasferito da Roma a Stoccolma, attratto dalla scena musicale della città e, nello stesso anno, ho pubblicato l’EP “We Who Light the Fire”, su cui ho suonato tutti gli strumenti, sotto il nuovo nome di Flamekeeper.

PARLANDO DELLA SVEZIA, DA ITALIANO COME HAI VISSUTO QUESTO CAMBIO? SIA DA UN PUNTO DI VISTA UMANO/CARATTERIALE, SIA PER QUANTO RIGUARDA IL TUO RUOLO DI ARTISTA METAL. HAI DOVUTO AFFRONTARE QUALCHE PREGIUDIZIO SUL FATTO DI ESSERE UN MUSICISTA METAL ITALIANO IN UNA DELLE GRANDI PATRIE DEL METAL INTERNAZIONALE?
– In Italia vige una narrativa onnipresente nel nostro immaginario collettivo e nelle conversazioni di tutti i giorni di quanto il nostro Paese sia inguaribilmente arretrato, malato e corrotto e che invece l’apice della civilizzazione sia rappresentato dal Centro e Nord Europa.
Io, che sono sempre stato appassionato di culture giovanili non nate in Italia (come ad esempio il metal), abboccai a questa narrativa in pieno, pensando che i risultati che stavo raggiungendo sia da musicista che da produttore stessero venendo fortemente limitati dal mio Paese d’origine e quindi feci il salto.
Nonostante degli immediati successi professionali, come quello di aver lavorato sul disco “Daemon” dei Mayhem, l’anno in cui mi trasferii fu decisamente traumatico, soprattutto per lo shock culturale a cui andai incontro. Scoprii presto che tutti i benefici che la vita al Nord Europa può offrire si riconducono alla stabilità lavorativa, ma vengono al costo di sfumature dell’esperienza umana, soprattutto relative allo sviluppo di relazioni profonde e all’aiuto reciproco, aspetti meno importanti nella cultura scandinava, ma fondamentali in quella sud-europea.
Ad ogni modo, l’avventura di vivere lontano da casa è una grande esperienza per conoscere il mondo e se stessi ma, in prospettiva, penso che la ricerca della stabilità economica sia un’utopia che danneggi più di quanto migliori la vita individuale se arriva al costo di perdere completamente la propria cultura. Ci sono cose più importanti nella vita e noi italiani le applichiamo molto bene, peccato che pensiamo sempre che l’erba del vicino sia sempre più verde. Credo che, all’estero, noi italiani siamo più colpiti da stereotipi che da pregiudizi, con infinite domande sul cibo e sul vino all’ordine del giorno, ma non posso dire di essere andato incontro a pregiudizi, in quanto la Svezia guarda alla cultura italiana con molta riverenza. Anche nel piccolo della scena metal, gruppi come Death SS e Bulldozer sono seguiti reverenzialmente.

ARRIVIAMO A PARLARE SPECIFICATAMENTE DI “FLAMEKEEPER”, COME SI EVOLUTO IL TUO PERCORSO ARTISTICO RISPETTO A “WE WHO LIGHT THE FIRE”?
– Il messaggio di Flamekeeper, sin dalla sua nascita, è quello di raccontare come conoscere chi si è veramente. Vivere in accordo con la propria natura e abbracciare il proprio scopo rappresentano l’unica chiave per raggiungere lo stato di libertà nella sua accezione più profonda.
Il mio percorso consiste in una ricerca di come raccontare questa storia in tutte le sue possibili sfaccettature. L’avanzare degli anni e dell’esperienza mi permette di affinare, sfumare e rinnovare questo racconto. “We Who Light The Fire” rappresentava questa ricerca in modo tribale e ribelle, con attenzione all’aspetto della collettività. “Flamekeeper” è un’esperienza più intima e introiettiva, quasi completamente individuale o di dialogo con l’ascoltatore.
A livello musicale, rispetto all’EP, ho lavorato sul subordinare ulteriormente la musica e il suo arrangiamento all’idea centrale di ogni canzone che si snoda attraverso una storia: nessun accordo viene suonato e nessuna riga di testo viene cantata in un mio brano se non permette alla storia che voglio raccontare di progredire. Questo si riflette in canzoni più concise che gravitano intorno al proprio messaggio principale, contenuto nel ritornello e nel titolo.
Un elemento che ha attirato l’attenzione immediata di chi ha sentito i nuovi singoli e mi seguiva da “We Who Light The Fire” è stato l’abbandono della voce roca, reminiscente del modo in cui cantavo nei Demonomancy. Per me è stato naturale usare quel tipo di canto inizialmente, visto che l’ho fatto per dieci anni, ma ho sempre voluto voci pulite per Flamekeeper e l’ostacolo principale nell’usarle maggiormente nell’EP fu la mia incapacità di performare quelle idee al livello che avevo in mente, una mancanza che mi sono impegnato moltissimo per colmare in questi anni.
Ho letto e sentito commenti come “ha abbandonato il black metal per fare cose più heavy metal”, come se modulassi la mia voce in base alla nicchia a cui voglio appartenere. Il mio obiettivo è invece quello di trascendere generi, sottogeneri ed etichette, concentrandomi sulla diffusione di un messaggio. Decido se e come usare uno strumento musicale in base al contributo che può dare alla storia che racconto, non per appartenere a un sottogenere. Sento che lo stile vocale roco e atonale del passato non sia uno strumento efficiente come il cantato melodico nei brani del nuovo disco, quindi è stata una decisione molto naturale quella di farne a meno.

SPESSO QUANDO UN ALBUM PORTA IL NOME DELL’ARTISTA, SI TRATTA DI UN ALBUM FORTEMENTE IDENTITARIO, CHE VUOLE ESSERE UNA SORTA DI PUNTO DI PUNTO DI PARTENZA (O DI SVOLTA). E’ COSÌ ANCHE PER TE?
– Indubbiamente. Il disco è stato scritto in un periodo estremamente difficile della mia vita: come musicista, produttore e tecnico del suono, gli anni del Covid sono stati durissimi in quanto dipendo totalmente dall’industria discografica e quella degli eventi live per sopravvivere. La mia vita ha preso una direzione totalmente diversa da quella che mi aspettavo e mi sono dovuto reinventare, passando da un lavoro all’altro, in un momento storico singolare e da espatriato in un altro stato. In quel periodo, ho sempre provato una più che tangibile nostalgia di casa, trasformatasi in dolore vero all’inizio del 2023, quando mia sorella è stata coinvolta in un’incidente stradale a Roma da cui è uscita viva per miracolo. Questo evento ha cambiato le prospettive sulla vita di ogni persona nella mia famiglia, me compreso, e vivere questo processo da lontano è ancora oggi molto pesante da sopportare. Lo standard che mi ero prefissato all’inizio della lavorazione del disco era quello della massima eccellenza, obiettivo già difficile da raggiungere per sua natura, ma tutti questi ostacoli hanno reso la scrittura di queste canzoni una vera e propria odissea. I quattro anni impiegati per finire il disco mi hanno visto perdere la mia identità, per poi ritrovarla e riaffermarla ancora più forte: Flamekeeper non è soltanto il nome sotto il quale scrivo canzoni, ma è lo scopo della mia vita ed il fuoco al quale brucio per trovare l’alba dopo ogni notte. Non potrei pensare ad un titolo migliore per un disco concepito in queste condizioni.

PRIMA LA TUA ERA UNA ONE-MAN-BAND, MENTRE ADESSO I FLAMEKEEPER SONO UNA VERA E PROPRIA BAND. COSA TI HA PORTATO A QUESTA SCELTA? E COME HANNO CONTRIBUTO I TUOI COMPAGNI ALLA NASCITA DELL’ALBUM?
– Flamekeeper è nato con una visione ben precisa e per questo ho voluto cominciarlo da solo, ma ho sempre considerato l’aspetto live come fondamentale, quindi l’ingresso di membri almeno per i live è parte del piano originale. In ogni caso, non ho mai escluso l’ingresso di altri membri a tempo pieno a patto che siano disposti a vivere tutti i sacrifici che tenere in vita e in salute Flamekeeper costa. Il concerto d’esordio era programmato per Giugno 2020 e pianificavo di farlo con una line-up italiana con membri di Demonomancy e Black Oath, visto che in Svezia ancora non ero riuscito a trovare nessun musicista ma, a causa del Covid, tutti i piani sono stati posticipati di due anni esatti.
Quando ho trovato una line-up a Stoccolma, avevo ormai scritto lo scheletro di tutti i brani, quindi non c’è stata molta influenza creativa da parte degli altri ragazzi. Filipe ha scritto gli assoli per “Flamekeeper”, “Raise The Banner”, “Death, You’ll Tremble To Take Me” ed “As One With Light”, oltre che a scrivere l’outro del disco con la chitarra portoghese su “The Roads Of Rome”.
Sono molto interessato a cominciare a scrivere musica con gli altri ragazzi e vedere come il loro contributo influenzerà i nuovi brani. Trovo limitante pensare Flamekeeper come “una band” o “un progetto solista”, per me è molto di più e ancora non ho trovato una definizione appropriata perchè forse non può essere spiegata a parole. Per me, fa parte di Flamekeeper chiunque contribuisca al di fuori dell’aspetto strumentale. Ad esempio, amici come Giuseppe dei Night Gaunt, Lorenzo dei Thulsa Doom, Antonio dei Vultures Vengeance e la loro manager Alicia Ratti hanno sentito ogni singola demo e le loro idee al riguardo sono estremamente preziose e mi è difficile immaginare Flamekeeper nella sua forma attuale senza di loro.

RISPETTO ALL’EP, MI SEMBRA CHE LE MELODIE DELLE CANZONI SIANO PIÙ IMMEDIATE, PIÙ FACILMENTE MEMORIZZABILI, CON CORI CHE PROMETTONO MOLTO BENE ANCHE DAL VIVO. E’ STATA UNA SCELTA CONSAPEVOLE? TI STAI GIÀ MUOVENDO PER PROMUOVERE IL DISCO DAL VIVO?
– Scrivere musica memorabile è sempre stato un mio obiettivo primario come songwriter e musicista ed è un processo in continuo divenire: ogni canzone che finisco mi permette di crescere e rendere più facile riuscire in questo intento. La relazione con l’ascoltatore è un altra priorità nel mio stile di scrittura e voglio farlo sentire totalmente immerso nel brano, per quello ricorro all’uso frequente di cori che funzionano bene dal vivo, quindi sì, è una scelta totalmente consapevole.
Ci stiamo muovendo per suonare live il più possibile. Abbiamo pianificato un live celebrativo dell’uscita del disco a Stoccolma il 10 Maggio e suoneremo all’Old Grave Fest in Romania a Ottobre, dove condivideremo il palco con Exciter, Bulldozer e Tormentor. Sono sicuro che il 2025 porterà cambiamenti esponenziali all’attività live di Flamekeeper.

HO APPREZZATO MOLTO L’USO DELLA CHITARRA PORTOGHESE, SUONATA DA FILIPE. PENSI DI SFRUTTARE ANCORA DI PIÙ QUESTO TRATTO DISTINTIVO? L’IDEA DI INCLUDERE QUESTO STRUMENTO È TUA O DI FILIPE?
– Ho conosciuto Filipe perché lavorava come traslocatore e, durante il Covid, un amico comune mi ha dato il suo numero, dato che stavo cercando lavoro. All’epoca, suonava il basso in una band heavy metal, ma, quando lo aggiunsi su Facebook, vidi vari video in cui suonava questo strumento folcloristico che mi ricordava molto il mio sound mediterraneo, così sono diventato un suo fan. Il suo background fatto di folk, rock e metal era esattamente ciò che stavo cercando per Flamekeeper. Gli spiegai ciò che avevo in mente per lui e accettò il ruolo immediatamente. L’idea di aggiungere la chitarra portoghese è stata la mia, ma ho lasciato a Filipe piena libertà compositiva sul finale di “The Roads of Rome”. Questo strumento, così come il contributo compositivo di Filipe, sono sicuramente elementi che ricorreranno molto di piu nei prossimi brani.

MI HA COLPITO MOLTO IL TESTO DI “THE ROADS OF ROME”, UNA CANZONE CHE, A DISPETTO DI UN VESTITO MUSICALE EPICO, MOSTRA UNA VENA DI NOSTALGIA DI CASA. INSOMMA, SVEDESE SÌ, MA SEMPRE CON ROMA NEL CUORE! TI VA DI PARLARCENE?
– Il tema della canzone non è Roma, che è il pretesto narrativo per aggiungere un elemento autobiografico alla storia del brano, ma proprio la nostalgia di casa. Questo tema è molto caro sia a me che Filipe, entrambi due sud-europei in Svezia. Ho perso il conto delle volte in cui abbiamo passato ore a condividere cosa ci manca rispettivamente delle nostre città e culture e, molte di queste volte, ho annotato alcune delle sue parole che sono poi finite nel testo della canzone. Proprio per questo sentimento comune, ho pensato dovesse essere di Filipe il compito di scrivere il finale, che rappresenta quasi la metà del brano ed è anche il finale del disco.

SE DOVESSI DIRE LA COSA CHE TI MANCA DI PIÙ DELL’ITALIA E AL CONTRARIO QUELLA ‘SVEDESE’ A CUI OGGI NON POTRESTI PIÙ RINUNCIARE, COSA MI DIRESTI?
– Dell’Italia mi manca moltissimo l’ospitalità e l’atteggiamento amichevole verso gli sconosciuti e la facilità con cui ogni tipo di rapporto (come il lavoro o un interesse in comune) si possa trasformare in amicizia. Sul versante della cultura nordica, sono diventato un fanatico della sauna alternata al bagno ghiacciato. Da un po’ di tempo lo sto facendo una volta a settimana ed è un’abitudine ottima contro lo stress e per allenare il sistema nervoso. Per ora il mio record è di 6.34 minuti nell’acqua a 4°.

CHIUDIAMO COSÌ: CI DICI CINQUE DISCHI CHE SONO STATI DEI ‘PORTATORI DI LUCE’ NELLA TUA VITA?
Metallica – “Master Of Puppets”
Dio – “The Last In Line”
Manowar – “Sign Of The Hammer”
Type O Negative – “October Rust”
Dead Can Dance – “Within The Realm Of A Dying Sun”

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