I Forgotten Tomb stanno per raggiungere il notevole traguardo dei vent’anni di attività. E’ passato effettivamente del tempo da quando la realtà emiliana era soltanto un progetto solista del leader Ferdinando Marchisio (Herr Morbid), all’epoca dedito ad una primitiva miscela di black metal e atmosfere malinconiche e sconfortanti che di lì a poco sarebbe stata comunemente definita depressive black metal. “Songs To Leave”, il debut album della formazione, è in effetti considerato ancora oggi uno dei primi grandi esempi e una pietra miliare di questo determinato filone, i cui dettami hanno poi fatto da base per vari altri sottogeneri, non ultimo quel “post” black metal oggi tanto in voga. Per sottolineare il suddetto importante anniversario, i Forgotten Tomb – ormai da diverso tempo diventati una vera e propria band interprete di un sound più robusto e variegato di quello degli esordi – hanno deciso di riproporre per intero il summenzionato “Songs To Leave” in una serie di concerti lungamente attesi dai loro fan della prima ora. Uno di questi eventi farà parte del cartellone della seconda giornata del Metalitalia.com Festival 2018, quindi quale occasione migliore per contattare Ferdinando Marchisio e tastare il polso al gruppo prima di questa attesa celebrazione?
PROSSIMAMENTE TERRETE DEI CONCERTI – FRA CUI QUELLO AL NOSTRO METALITALIA.COM FESTIVAL IN ESCLUSIVA NAZIONALE – INCENTRATI SUL DEBUT ALBUM “SONGS TO LEAVE”: DA DOVE NASCE QUESTA IDEA?
– Il 2019 segnerà il ventennale della band, per cui abbiamo pensato di fare qualcosa di speciale per i fan. Anche se la maggior parte degli show dedicati si terrà ovviamente il prossimo anno, abbiamo accettato di fare un paio di show di presentazione anticipati: uno al Metalitalia festival a settembre e l’altro in dicembre al Madrid is The Dark festival in Spagna. Riguardo alla scelta del primo disco, siccome “Songs to Leave” è rimasto un album storicamente importante e che ha smosso particolari corde emotive nella maggior parte dei fan vecchi e nuovi, è sembrata una buona idea riproporlo, anche perchè la maggior parte della fan-base attuale non ci ha mai visto live nei primi anni d’attività e di quel disco dal vivo han potuto vedere solo parte di “Disheartenment” nel medley finale che proponiamo ai concerti abitualmente. Saltuariamente abbiamo proposto “Solitude Ways”, ma il resto dei pezzi non sono stati suonati live da tempi immemori e nel caso di “No Way Out” non è nemmeno mai stata suonata dal vivo. Personalmente non sono mai stato troppo un fan di questo genere di operazioni revival, ma visto il ventennale imminente ho deciso di accettare il compromesso, se così si può chiamare. Avevamo fatto una cosa analoga in alcune date sparse in Europa per il decennale di “Springtime Depression” nel 2013, ma per convincermi a riproporre “Songs to Leave” c’è voluto più tempo. Spero che la cosa alla fine dei conti venga apprezzata, anche perché penso proprio che sarà la prima e ultima volta che proporremo l’album per intero. Non sono uno che ama le operazioni nostalgia, ma è anche vero che di questi tempi questa cosa degli special set è ormai un passaggio quasi obbligatorio, specialmente in occasione di anniversari importanti.
SONO TRASCORSI SEDICI ANNI DALLA PUBBLICAZIONE DI “SONGS TO LEAVE”: COME VEDI OGGI QUEL DISCO? SPESSO QUANDO SI PARLA DI COSIDDETTO “DEPRESSIVE” BLACK METAL NON SI PUÒ FARE A MENO DI NOMINARLO. SI TRATTA DI UN’OPERA ASSAI IMPORTANTE PER IL GENERE. TE NE RENDI CONTO? E, SOPRATTUTTO, PENSAVI DI AVERE FRA LE MANI QUALCOSA DI SPECIALE QUANDO LO HAI COMPLETATO ORMAI TANTI ANNI FA?
– E’ un album ormai riconosciuto più o meno ovunque come uno dei pilastri fondanti del cosiddetto DSBM, anche se all’epoca la sigla non esisteva nemmeno. Ai tempi io lo chiamavo “Depressive Dark Black Metal” o robe del genere, ma non esisteva alcuna scena con un sound o tematiche analoghe, la maggior parte delle black metal band erano ancorate a temi fantasy/satanici e cercavano di suonare il più veloce possibile o s’erano date all’elettronica; le band underground che stavano creando (inconsapevolmente) questo movimento si contavano sulle dita di una mano ed avevamo tutti una personalità definita. Oggi, vedendo tutta quella scena DSBM cresciuta in seguito, mi rendo conto dell’importanza del disco. All’epoca francamente pensavo di aver fatto un buon lavoro, ma non credevo che avrebbe avuto il feedback che invece ebbe e che continua ad avere dopo così tanti anni, influenzando centinaia di band. Già all’uscita si creò un vespaio non indifferente, sia per lo stile anomalo che per l’attitudine portata avanti. Ha venduto anche molte migliaia di copie, già all’epoca e poi con le numerose ristampe. Anche quest’anno uscirà un’ulteriore ristampa sia in CD che in vinile; fai conto che con queste nuove ci saranno ormai 7 edizioni diverse solo dei vinili. La cosa paradossale è che, a mio gusto, tra tutti i dischi che abbiam fatto, oggigiorno è quello che mi piace di meno, per vari motivi, pur riconoscendone l’importanza “avanguardistica”, se così si può dire. Certo è che senza quel disco non saremmo qui a parlare dopo 20 anni, quindi diciamo che questo tour di tributo è anche un modo per celebrare e riaffermare qualcosa che indissolubilmente resta “nostro” e di cui le nuove generazioni talvolta non sono nemmeno al corrente. Come tutti i debut album è ancora acerbo e si sentono alcune influenze, ma ci sono quella genuinità e quella passione proprie di tutte le opere prime e che il pubblico percepisce. Inoltre credo si sia distinto anche per una certa vena rock che era già presente e che è rimasta parte integrante di FT fino ai giorni nostri, oltre ad avere un sound tutto sommato curato e pulito rispetto al genere. Anche il rallentare drasticamente i tempi fino a livelli doom in quel periodo era una scelta impopolare, così come l’accordatura in SI che praticamente nessuno usava in ambiti black metal e l’utilizzo di arpeggi con diteggiature anomale, tutti concetti poi sviluppati in maniera più estesa già nel disco successivo, “Springtime Depression”.
COSA RICORDI DEL PROCESSO DI COMPOSIZIONE E DI REGISTRAZIONE DI QUEL DISCO? QUALI ERANO LE TUE INFLUENZE, MUSICALI E NON, ALL’EPOCA?
– Il disco è stato scritto immediatamente dopo il demo, che in realtà era composto da brani più vecchi e che avevo fatto uscire giusto per mettere in giro il nome della band. La composizione di “Songs to Leave” è iniziata a fine 1999 e proseguita nel 2000 e il disco è stato registrato tra il 2000 e il 2001. E’ uscito con un anno esatto di ritardo (estate 2002) perché la label dell’epoca ci mise tutto quel tempo per farlo uscire; d’altro canto, erano uscite underground e si lavorava tutti a un livello pressoché amatoriale, anche se tuttora penso che se fosse uscito l’anno prima avrebbe avuto un impatto anche maggiore. Il disco era stato registrato esclusivamente da me, in quanto all’epoca FT era una one-man band, e fu realizzato in uno studio locale (l’Elfo Studio) che all’epoca era ancora in un garage; successivamente diventò uno studio “serio” in cui abbiamo anche registrato diversi altri dischi. La registrazione fu funestata da uno dei miei vari incidenti automobilistici che mi fece perdere 2 o 3 mesi di tempo, per il resto andò piuttosto liscia, devo dire. Le mie influenze all’epoca erano perlopiù Burzum, primi Bethlehem, i demo dei Thorns, primi Manes, Strid, Forgotten Woods, primi Katatonia, primi Paradise Lost, Celtic Frost e la dark/wave anni ’80, su tutti Sisters of Mercy e le prime cose dei The Cult; poi tutta la scena doom, sia quella classica anni ‘70/’80 che i primi album funeral o death/doom pre-2000. Riguardo alle influenze extra-musicali, ero molto affascinato dai luoghi abbandonati, dal disagio suburbano oltre che da un immaginario legato ai temi del suicidio, dell’autolesionismo e del nichilismo, tutte cose a quei tempi per nulla popolari. All’epoca trovai un alleato in Kvarforth degli Shining, che era giovanissimo ma che aveva questa label chiamata Selbstmord Services e che si offrì subito di far uscire il disco; ci son stati un paio d’anni in cui sia io che lui andavamo avanti e indietro tra Svezia e Italia, ci telefonavamo spesso e avevamo mille progetti per la testa; poi, come spesso succede, i rapporti si sono deteriorati e ognuno è andato per la sua strada, la label chiuse i battenti e il resto è storia. Rimangono comunque bei tempi in cui si credeva fermamente nella musica e nei concetti espressi, con quell’estremismo vero e quell’ingenuità giovanile d’altri tempi e tanta voglia di fare qualcosa di nuovo e a suo modo “pericoloso”. C’era tutta una nuova microscena estrema, specialmente in Svezia, con cui si restava in contatto e conoscevo bene molte band, alcune delle quali poi diventate molto note.
PUR SENZA TRADIRE LE PROPRIE RADICI, LA CARRIERA DEI FORGOTTEN TOMB HA PRESO UNA PIEGA DIVERSA NEGLI ULTIMI ANNI, ABBRACCIANDO ALTRE INFLUENZE E FORGIANDO UN SUONO PIÙ PESANTE E AGGRESSIVO. C’È TUTTAVIA CHI DIRÀ SEMPRE CHE I VERI O I MIGLIORI FORGOTTEN TOMB SONO QUELLI DEI PRIMI ALBUM. COME VIVETE LE REAZIONI DI ASCOLTATORI E STAMPA OGNI VOLTA CHE RILASCIATE UN NUOVO DISCO?
– Il metal è un genere tradizionalista e non vede di buon occhio nessuna innovazione o cambiamento, anche nel caso di dischi fatti bene e di evoluzioni sensate e anti-commerciali. Nel nostro caso, già da “Negative Megalomania” (2007) avevamo introdotto molti elementi diversi come le parti sludge, le voci pulite, i soli tipicamente rock, e quell’evoluzione è poi proseguita attraverso gli album successivi, che aggiungevano sempre qualche elemento inedito o comunque più originale, offrivano registrazioni più curate e via dicendo. Nel bene e nel male, abbiamo sempre mantenuto un suono unico anche nei dischi in cui “siamo cambiati”. Da parte mia ho sempre cercato di rimanere fedele a me stesso e fare dischi per quanto possibile originali ma senza compromessi, anche perché spesso il compromesso è proprio clonare un’idea di successo a vita come invece han fatto molte band negli anni. Noi ci siam sempre presi rischi in questo senso e, oltretutto, invece che ammorbidirci siamo diventati sempre più duri, sia musicalmente che a livello di concetti. Capisco la fascinazione per i primi dischi e “Love’s Burial Ground” rimane uno dei miei dischi preferiti, ad esempio, ma penso che alcune cose non siano più riproducibili per troppi motivi; quando sento band in giro da 20 o più anni che cercano di fare un disco “nel vecchio stile” risulta sempre posticcio alle mie orecchie e la condizione di “mistero” che era ancora possibile avere all’epoca ora non è più credibile. Anche tecnicamente e a livello compositivo non si può regredire, penso sia normale cercare di migliorarsi. Io francamente penso che sia un po’ una moda criticare a priori certe band, una di quelle cose basate più sul sentito dire che su un ascolto onesto dei dischi. Con questi presupposti è ovvio che qualunque cosa tu faccia non venga recepita positivamente da una certa fetta di pubblico. Alla fin fine chi “vince” nel vasto mondo del metal è chi fa sempre le stesse cose, con la stessa immagine e con più clichè possibile: l’audience ha bisogno di una comfort-zone e io ho basato la mia carriera sulla distruzione della comfort-zone, sia a livello tematico che musicale. Al tempo stesso, capisco la fascinazione per “i primi dischi”: pure io nel caso di molte band ascolto solo i primi 2 o 3, forse perché mantengono quell’immediatezza e quella spontaneità che per forza di cose poi va persa successivamente, ma esistono anche casi in cui preferisco la seconda parte della carriera. In ultima analisi, ho notato che tutti i nostri dischi vengono apprezzati a distanza di tempo; molti adesso dicono che “Negative Megalomania” è il loro disco preferito, ma quando uscì si gridò allo scandalo. A dirla tutta, anche con i primi dischi c’era sempre qualcuno che diceva che eravamo “finiti” o che quello prima era meglio. Il “nuovo” spaventa sempre e fin dal primo disco ci siamo attirati le critiche di chi non accettava che suonassimo diversamente dal resto. Credo che alla fine il fatto di essere ancora in giro, vender dischi e fare concerti – anche in ambiti di un certo rilievo – parli da sé.
QUANTO TI SENTI CRESCIUTO COME UOMO E COME ARTISTA DAI TEMPI DI “SONGS TO LEAVE”?
– Quando ho composto e registrato quel disco avevo 19-20 anni, ora ne ho 38, quindi ovviamente di acqua sotto i ponti ne è passata molta in tutti gli ambiti, sia artistici che di vita. Vedo “Songs to Leave” come un disco giovanile, pertanto ci vedo molte ingenuità, una certa urgenza, insicurezze e alcune cose che oggigiorno non scriverei mai, anche perché era un disco all’epoca concepito senza la cognizione che avrebbe ottenuto il successo che poi ha ottenuto e che con l’espansione di internet sarebbe stato ascoltato da centinaia di migliaia di persone per gli anni a venire. All’epoca facevo comunque una vita radicalmente diversa per vari motivi e il disco rifletteva un po’ quei tempi; per certi versi sono molto cambiato e quel disco non mi rappresenta affatto. Capisco perché piaccia a tanta gente e quale connessione ci trovino, ma al tempo stesso viene spesso estrapolato dal contesto e dall’età in cui è stato realizzato e si tende a dimenticare che era solo un’istantanea del momento, come a suo modo ogni disco, d’altro canto; molte persone sono convinte di poterti inquadrare con cose scritte 16 anni fa senza rendersi conto che per chi le ha create nel frattempo è passata fondamentalmente una grossa fetta di vita. Come ognuno dei miei lavori, a livello artistico personalmente lo considero un disco formativo verso qualcosa di migliore e più rappresentativo di ciò che sono.
IL PROSSIMO ANNO CELEBRERETE I VENT’ANNI DI CARRIERA: AVETE IN MENTE QUALCOSA DI SPECIALE PER L’EVENTO? IL LIVE IN STUDIO PUBBLICATO PER IL DECENNALE ERA STATO UN’INIZIATIVA ORIGINALE. TUTT’ORA È UNO DEI VOSTRI LAVORI CHE ASCOLTO PIÙ SPESSO.
– Mi fa piacere, “Vol 5” è stata una release che non fu capita del tutto, ma che per la band ha segnato un traguardo importante. Per il momento penso faremo varie date celebrative di “Songs to Leave”, principalmente in festival o occasioni speciali e verrà ristampato il disco con nuove edizioni anche in vinile. Faremo anche altri live in cui proporremo un set che spazia su tutta la carriera della band e probabilmente stamperemo del merchandise celebrativo per il ventennale. Per il momento tutto qui, ma potrebbero venirci altre idee entro l’anno prossimo. E’ un po’ che vorrei fare un cofanetto con tutti i dischi, ma è un lavoro molto impegnativo, quindi non so se sarà possibile, visti anche i limiti del mercato discografico attuale.
AVETE CERTAMENTE CONTRIBUITO A CREARE UN NUOVO FILONE NEL BLACK METAL: COME VIVI E VEDI QUESTO GENERE MUSICALE OGGIGIORNO? LO TROVI ANCORA STIMOLANTE? VI SONO NUOVE REALTÀ CHE REPUTI IN GRADO DI PROPORRE QUALCOSA DI PERSONALE, COME FATTO DAI FORGOTTEN TOMB?
– A quei tempi a parte noi c’erano principalmente Silencer, Shining, Abyssic Hate e Xasthur che si muovevano su coordinate simili e facevano uscire i loro primissimi lavori, ma tutti avevamo uno stile definito e differente. Si parla del periodo a cavallo tra 2000 e 2003. Tutto quel che è venuto successivamente è stato perlopiù un riciclo di musiche, immagini e concetti definiti da questa manciata di band e spesso stravolti fino a renderli francamente una pessima caricatura, motivo per il quale dopo il 2004 ho perso interesse nel genere e ho cercato altre vie espressive anche per la mia band, pur mantenendo alcune caratteristiche di fondo già presenti in “Songs to Leave” e nei successivi “Springtime Depression” e “Love’s Burial Ground”. Per me quegli anni hanno rappresentato gli ultimi tempi d’oro di certo black metal, prima della massificazione dovuta a internet, con lo strapotere di YouTube e dei P2P fino ad arrivare ai giorni nostri con i vari servizi di streaming. Non sono particolarmente un nostalgico, ma sono contento di aver vissuto e di essere stato parte attiva sia degli anni ’90 che di quei primissimi anni 2000, per me gli ultimi anni in cui aveva senso fare certe cose e dove nascevano band degne di nota. Tutto quel che c’è stato dopo raramente mi è interessato in quanto mi pare solo un riciclo più o meno malfatto di idee realizzate anni prima e meglio. Escono cose interessanti a cavallo tra black, doom e crust, ma raramente si può parlare di qualcosa d’innovativo; anche il post-black, che va molto di moda, ha preso tanto dal depressive. In generale, non trovo dischi che incontrano i miei gusti nel genere e preferisco ascoltare altre cose, mi sembra un po’ che la magia sia scomparsa; non capisco l’entusiasmo dei ventenni per certe band, ma credo sia anche inevitabile arrivati a una certa età dove si è già visto e sentito un po’ tutto. Il problema per me è che molta musica odierna non è più “riff-oriented”, ascolti un disco e alla fine non ti ricordi nulla. Inoltre in passato le band osavano e cercavano sempre di differenziare ogni disco dal precedente e persino nello stesso disco c’erano grosse differenze tra l’umore di un brano e l’altro. Questo portava spesso ad album eterogenei ma anche molto interessanti e innovativi, il crossover tra i vari generi era fonte di freschezza. Negli anni questa caratteristica è andata progressivamente scomparendo e ora ci ritroviamo con migliaia di uscite senza personalità e senza canzoni memorabili, che fanno breccia principalmente tra un pubblico che per età e altri limiti non conosce i fondamentali e ascolta musica saltando da una traccia all’altra su Spotify.
SE DOVESSI SCEGLIERE UN ALTRO ALBUM DA PROPORRE PER INTERO, DOPO “SONGS TO LEAVE”, PER QUALE OPTERESTI? QUAL È SECONDO TE L’ALTRO PERNO DELLA VOSTRA DISCOGRAFIA?
– “Springtime Depression” è già stato fatto ed è un disco che generalmente preferisco a “Songs to Leave”, a dire il vero; della prima trilogia “classica” mi piace molto “Love’s Burial Ground”, mentre tra gli altri mi sarebbe piaciuto fare “Negative Megalomania”, di cui ricorreva il decennale l’anno scorso, ma per vari motivi non è stato possibile. Un altro disco che mi piace molto, a parte l’ultimo, è “…And Don’t Deliver Us From Evil”, ma non so se lo suonerei necessariamente tutto dal vivo. L’ultimo disco è ovviamente il mio preferito del momento.
“WE OWE YOU NOTHING” È ORMAI FUORI DA PARECCHI MESI: CHE BILANCIO PUOI TIRARE SU QUESTO DISCO? CAMBIERESTI QUALCOSA ADESSO?
– No, è un disco di cui generalmente sono molto soddisfatto. L’album è andato piuttosto bene, almeno per gli standard di vendite attuali, e a livello di critica ha ricevuto perlopiù ottimi responsi. A livello di fanbase come al solito ci sono stati pareri discordanti, ma in generale è piaciuto di più di quello precedente. Alcuni dettagli e innovazioni naturalmente non sono stati recepiti o sono stati del tutto travisati, ma ormai ci sono abituato. Per me rimane un album molto importante in quanto ho fatto un incidente grave proprio all’inizio delle registrazioni e il disco ha rischiato di non essere mai finito; è un lavoro nato intorno a grosse difficoltà personali e l’averlo portato a termine con successo è stato per me un traguardo importante; il resto sono chiacchiere.
STATE GIÀ LAVORANDO A DEL NUOVO MATERIALE? PREVEDI ULTERIORI CAMBIAMENTI NEL VOSTRO SOUND? ULTIMAMENTE AVETE MANTENUTO UN RITMO PIUTTOSTO SERRATO NELLE PUBBLICAZIONI. PRATICAMENTE UN NUOVO ALBUM OGNI DUE ANNI.
– Ci stiamo prendendo un periodo di pausa a livello compositivo e nel frattempo siamo impegnati con gli show celebrativi di “Songs to Leave” e probabilmente con un tour nei primi mesi del 2019; purtroppo con il mio incidente di fine 2016 abbiamo un po’ “perso il giro” e nonostante siamo riusciti ugualmente a far uscire “We Owe You Nothing” l’anno scorso avevamo dovuto abbandonare i piani per un eventuale tour. Purtroppo sono cose che vanno organizzate almeno 6 mesi prima e, tra l’incidente e altre complicazioni, tra cui la dipartita del nostro chitarrista A., non ci sono più stati i presupposti per organizzare un tour continuativo fatto come si deve. Speriamo che questa sia la volta buona. Già da qualche anno parto dal presupposto che ogni disco potrebbe essere l’ultimo, sia per le condizioni del mercato sia perché non mi piace affatto la direzione in cui si sta muovendo la “scena”; mi sento abbastanza alieno a come funzionano le cose oggigiorno e alla generale superficialità con cui viene affrontata la musica, per cui si vedrà. Non sono uno che fa i dischi per andare in tour e tantomeno mi piace far uscire dischi che vengono trattati con sufficienza. Sulla direzione stilistica, è un mistero anche per me, come d’altronde succede ogni volta, quindi non vorrei sbilanciarmi in affermazioni che poi potrei dover contraddire. Probabilmente registreremo durante il 2019, ma non so se l’album uscirà entro l’anno.
DI RECENTE VI SIETE ESIBITI AL FAMOSO ROADBURN FESTIVAL – UN CONTESTO PER VOI NUOVO – E L’INVITO È ARRIVATO DIRETTAMENTE DA JACOB BANNON DEI CONVERGE. SAPEVATE DELLA SUA AMMIRAZIONE NEI VOSTRI CONFRONTI? COM’È ANDATO LO SHOW? HAI DEI RETROSCENA PARTICOLARI CHE PUOI RACCONTARCI?
– Non ero assolutamente al corrente che fosse un nostro estimatore addirittura dai tempi di “Springtime Depression”, per cui quando mi ha scritto una mail mi ha colto completamente di sorpresa; erano tanti anni che ci sarebbe piaciuto partecipare al Roadburn, ed essere invitati addirittura nella sezione speciale del festival – in questo caso curata da Jacob – è stato certamente un onore e un’iniezione di energia che in questo momento ci voleva. Lo show è andato bene e il contesto del festival è veramente godibile, ho potuto anche vedere svariate band che mi piacciono e incontrare amici provenienti da ogni dove; il festival è organizzato molto bene e siamo stati trattati con riguardo. Tra gli aneddoti, potrei dirti che avendo alcuni amici in comune ho avuto modo di conoscere e passare una serata con Tompa Lindberg, una persona veramente simpatica e in gamba. Ho anche assistito allo show dei Greenmachine, che è stato formidabile.