FORGOTTEN TOMB – L’incubo diventa realtà

Pubblicato il 07/05/2015 da

I Forgotten Tomb continuano a prendersi rischi, cambiando le carte in tavola ad ogni appuntamento con un nuovo album. È ormai passato diverso tempo da quando il gruppo veniva considerato uno dei migliori alfieri del cosiddetto “depressive” black metal: oggigiorno i Nostri suonano tutt’altro che affranti e demotivati. A partire infatti da “Negative Megalomania” il loro suono si è fatto sempre più nervoso e pesante, abbracciando una gamma di influenze che in varie occasioni è riuscita a spiazzare più di un ascoltatore della prima ora, tanto che probabilmente al momento i Forgotten Tomb possono vantare una schiera di “hater” e detrattori vasta tanto quanto quella dei loro fan! Questo, d’altronde, è il tipico destino di quelle band che si evolvono con costanza e diventano sempre più popolari. Il frontman Ferdinando “Herr Morbid” Marchisio evidentemente non ha mai prestato alcuna attenzione alle critiche e quasi certamente non inizierà a farlo ora che il suo gruppo ha raggiunto l’invidiabile traguardo del full-length numero sette. Con l’intervista che segue andiamo a scoprire meglio proprio quest’ultimo: “Hurt Yourself and the Ones You Love” nelle parole del suo principale compositore…

forgotten tomb - band - 2015

SI PUÒ DIRE CHE “HURT…” SEGUA IL SOLCO TRACCIATO DA “AND DON’T DELIVER US FROM EVIL”, PRESENTANDO IL VOSTRO ORMAI COLLAUDATO MIX DI BLACK METAL E SOUTHERN SLUDGE. IL DISCO TUTTAVIA MI SEMBRA UN FILO PIÙ COMPATTO, FORSE ANCHE PER LA DIREZIONE DELLA VOCE, CHE È MOLTO PIÙ IMPRONTATA SULLO SCREAMING RISPETTO AGLI ULTIMI LAVORI. CHE NE PENSI?
“Nonostante io pensi tuttora che ‘…And Don’t Deliver Us From Evil’ fosse un ottimo disco, sentivamo il bisogno di prenderci un attimo di pausa e sperimentare qualche soluzione nuova. Non abbiamo mai fatto un disco identico all’altro, spesso prendendoci anche grossi rischi, e in particolare con questo sentivamo la necessità di fare qualcosa di ulteriormente diverso. Le parti più groovy, ‘sludgy’ e pesanti del precedente disco sono state riprese, ampliate e perfezionate; al tempo stesso il nostro classico approccio a un certo tipo di black metal si è manifestato in alcune delle sfuriate più violente della nostra discografia, oltre che in un’aura particolarmente ostile e negativa. Il disco è immerso in un’atmosfera estremamente anni ’90, nel senso più ampio del termine; chiaramente tutto è stato filtrato attraverso il nostro modo di suonare e comporre, quindi rimane Forgotten Tomb al 100%. La scelta di usare lo screaming sull’intero disco è stata un’esigenza dettata dallo stile dei nuovi brani; se ci fosse stato spazio per delle voci pulite come in passato le avrei inserite, ma credo che a questo giro non se ne sentisse il bisogno. In compenso ho lavorato molto più del solito sulle ritmiche delle voci e sulla timbrica, sono molto soddisfatto del risultato e credo che ad un ascolto attento la differenza rispetto al passato si senta. Per concludere, il riffing più elaborato, le performance in studio e la cura nella produzione credo abbiano contribuito a rendere il risultato finale il più compatto di sempre”.

MI SEMBRA INFATTI CHE NEGLI ULTIMI ANNI ABBIATE LAVORATO MOLTO PIÙ ASSIDUAMENTE SUI RIFF DI CHITARRA, LASCIANDO UN PO’ DA PARTE QUELLE SOLUZIONI “KATATONICHE” CHE SI SENTIVANO SUI PRIMI ALBUM. I BRANI SONO PIÙ HEAVY E GROOVY E SICURAMENTE PER VIA DI CIÒ IN CONCERTO POSSONO RENDERE MEGLIO. SIETE UNA DELLE POCHE BAND CHE COL PASSARE DEL TEMPO DIVENTA PIÙ PESANTE ANZICHÈ PIÙ SOFT, NON TROVI?
“Assolutamente sì, questo è senza dubbio il disco più pesante che abbiamo mai fatto (per ora) ed è stato un processo che è andato per tappe durante gli anni. Chiunque, su una discografia che comincia ad allungarsi come la nostra, avrà degli album preferiti rispetto ad altri, è normale; ma siamo una band che pur attraverso cambiamenti ed evoluzioni ha sempre mantenuto un determinato feeling e tematiche coerenti. Siamo sempre stati solo parzialmente associabili a determinati stili come il black o il doom, che comunque sono generi ancora preponderanti nella nostra proposta; le soluzioni più melodiche dei nostri primi dischi sono ancora presenti, ma negli ultimi anni c’è più spazio per i riff e per l’impatto, certi arrangiamenti e melodie sono maggiormente integrati nel complesso e quindi necessitano di diversi ascolti per essere apprezzate. Possiamo permetterci di fare la musica che riteniamo migliore per la band, non avendo condizionamenti commerciali di alcun genere riguardo a stile e aspettative del pubblico, della label o di chiunque altro. Forgotten Tomb ha sempre fatto quello che ha voluto, che piaccia o no. Dal vivo abbiamo sempre suonato tutto il nostro materiale senza problemi di resa e tuttora nel tempo disponibile cerchiamo sempre di includere brani da tutto il repertorio, anche se chiaramente io preferisco suonare il materiale recente, proprio perché lo trovo più fresco e potente”.

IN OGNI CASO, LA DURATA MEDIO-LUNGA DELLE COMPOSIZIONI VI DÀ SEMPRE E COMUNQUE MODO DI ESPLORARE VARI REGISTRI. I BRANI DI PRIMO ACCHITO SEMBRANO ASCIUTTI, MA ASCOLTI ATTENTI SVELANO SEMPRE MOLTI SPUNTI ED INFLUENZE. QUANTO IMPIEGATE PER FINALIZZARE UN BRANO?
“In realtà poco tempo, di solito scrivo e registro una demo di un pezzo nuovo (inclusi gli arrangiamenti e le parti di tutti gli strumenti) in un paio di notti. La maggior parte dei brani che senti sul disco sono incredibilmente fedeli alle demo originali, salvo alcune modifiche ed arrangiamenti concordati col resto della band nella fase finale della pre-produzione. Il fatto è che scrivo raramente, quindi magari per fare 7 pezzi ci metto alcuni mesi, anche se in realtà i giorni effettivi a cui ci ho lavorato corrispondono a un paio di settimane in tutto. Preferisco non forzare il processo creativo e aspettare che l’ispirazione sia quella giusta. Scartiamo raramente materiale e non proviamo quasi mai: per intenderci, non siamo di quelli che stanno in sala prove mesi, scrivono 50 riff e ne tengono 10. Nonostante le strutture dei brani a un ascolto distratto possano sembrare semplici o schematiche, in realtà ci sono una moltitudine di arrangiamenti che spesso molti notano solo dopo svariati ascolti; inoltre ho sempre pensato che i nostri dischi si comprendano meglio se ascoltati per intero, dato che le atmosfere e i ritmi sono molto vari nell’arco dei brani. Non siamo una di quelle band di cui puoi sentire un brano e dire ‘mi piace’ o ‘non mi piace'”.

VI CAPITA MAI, DURANTE LA LAVORAZIONE, DI PENSARE “QUESTO PEZZO È TROPPO BLACK” O “TROPPO DOOM” E DI CERCARE DELIBERATAMENTE DI MODIFICARLO UN PO’ PER RENDERLO PIÙ SFACCETTATO?
“Non proprio così, ma qualche volta è successo di modificare qualche riff e raramente di scartare un brano per dare una miglior continuità stilistica a un disco. Di questi tempi c’è la tendenza a fare album monolitici, mentre noi ci siamo sempre affidati ad un approccio maggiormente anni ’90, dove esistevano band e dischi difficilmente catalogabili in uno stile preciso o assimilabili al primo ascolto, quindi ci piace avere anche una varietà e non fossilizzarci su una direzione troppo limitante. E’ anche capitato di avere brani o riff troppo ‘avanti’ rispetto alla direzione del disco, tanto che in alcuni casi sono stati riarrangiati e pubblicati dopo anni su dischi successivi. Ho una ‘banca riff’ con alcune cose non ancora pubblicate e a volte le vado a recuperare, perché c’è materiale di valore che può risultare fuori contesto su un disco e venir buono invece per un altro, anche a distanza di anni; di norma però l’80-90% del materiale su un nostro disco è di recente composizione”.

“SWALLOW THE VOID” È UNA TRACCIA MOLTO AFFASCINANTE: AVETE UN OTTIMO GUSTO PER LE STRUMENTALI, COME GIÀ SI POTEVA EVINCERE DALLA VECCHIA “SPRINGTIME DEPRESSION”, AD ESEMPIO. QUESTA È UNA COMPOSIZIONE DATATA O È VENUTA FUORI DI RECENTE?
“E’ una composizione recente che ha scritto il nostro chitarrista A., qui al suo primo disco con la band (nel precedente compariva nelle foto ma non aveva suonato sul disco). Lui aveva questa melodia e durante le due settimane in studio a Marsiglia, tra una session di registrazione e l’altra, abbiamo inciso anche questa traccia, improvvisando anche alcuni effetti e riarrangiando la struttura in gruppo. E’ stata una cosa quasi casuale, che alla fine s’è rivelata una buona idea; sta piacendo molto e credo suggelli il disco in modo adeguato”.

VI È UN CONCEPT PARTICOLARE ALLA BASE DI “HURT…”? DI COSA PARLANO I TESTI QUESTA VOLTA?
“E’ chiaramente un titolo provocatorio che riassume bene la mia insofferenza verso la mediocrità del genere umano e verso il buonismo spicciolo di questi tempi moderni. Siccome la band è sempre stata associata alla promozione di atteggiamenti autodistruttivi di vario genere, con questo titolo l’invito è esteso alla distruzione anche degli altri, è volutamente nichilista. E’ un concetto molto forte e basato sulla volontà d’intaccare la morale comune e certi valori portanti della società; è fondamentalmente una variante del classico ‘prima di andare all’inferno porto con me più gente possibile’, che è alla base ad esempio di molte stragi. I testi affrontano durante tutto l’arco del disco questi lati oscuri dell’animo umano: il tema ricorrente della morte passa attraverso scenari di violenza urbana e disordine. E’ un album estremamente anarchico, nell’accezione non-politica del termine; una sorta di anarchia spirituale e morale, dove viene fatto a pezzi passo dopo passo il confine tra bene e male, tra giusto e sbagliato. E’ uno sdoganamento delle pulsioni più orribili dell’essere umano, che normalmente vengono represse, negate e nascoste, ma che sono parte di ognuno di noi, spesso mascherate da una facciata di buonismo tipico dei benpensanti. Molte parti dei testi sono anche state ispirate da una serie di sogni macabri e inquietanti che ho avuto nell’arco della composizione del disco, quasi come fossero dei messaggi da un altro piano d’esistenza o dei viaggi astrali; il tema del sonno e dei sogni è ricorrente nell’arco dei brani ed è chiaramente affrontato in maniera spiacevole. E’ comunque un album carico d’odio, risentimento e anche d’una certa volontà di riscatto; ogni testo meriterebbe un capitolo a sé per essere spiegato”.

LA COPERTINA È PIUTTOSTO DIVERSA DALLE PRECEDENTI E NON SOLO PERCHÈ NON PRESENTA IL LOGO DEL GRUPPO. CHI VI HA MESSO MANO E COME SI LEGA AI TESTI?
“Ero partito dal presupposto di volere una foto in copertina senza nemmeno il logo, che è una cosa che mi è sempre piaciuta molto, ma non volevamo usare una classica foto di repertorio o comprarla da qualche altro artista, per cui abbiamo assunto un fotografo professionista e una modella e realizzato la foto noi stessi, in modo che fosse unica. L’idea è stata frutto di un brainstorming della band ed è principalmente stata realizzata da Alex, il nostro bassista. Credo esprima bene la violenza concettuale del disco, oltre a presentarsi bene al colpo d’occhio; dopo un paio di dischi dalle copertine più ‘artistiche’ e disegnate, volevamo tornare a qualcosa di più realistico e brutale, nello stile di ‘Songs To Leave’ o della cover censurata/alternativa di ‘Love’s Burial Ground’, che tra l’altro esprimeva un concetto simile. Come vedi, tutto torna e il cerchio si chiude anche stavolta”.

“HURT…” È STATO REGISTRATO IN FRANCIA, PRESSO I SOUND SUITE STUDIOS. RICORDO CHE QUESTI STUDI ERANO PIUTTOSTO NOTI ATTORNO AI PRIMI ANNI 2000, QUANDO OSPITARONO GRUPPI COME NOVEMBRE O TRISTANIA. PERCHÈ AVETE DECISO DI RIVOLGERVI A QUESTI STUDI E NON AI FINNVOX, COME INVECE ACCADUTO DI RECENTE? 
“In realtà i due album precedenti erano solo masterizzati ai Finnvox, ma erano registrati e mixati in Italia. A questo giro abbiamo fatto solo la batteria in Italia, poi tutto il resto delle registrazioni e il mix a Marsiglia (Francia) ai Sound Suite e il mastering agli Audiosiege a Portland, negli USA. Terje Refsnes, il produttore, è stata una scelta fondamentale in quanto, oltre a essere un nome legato ad alcuni dischi metal importanti, ha un’esperienza in fatto di produzione che inizia a fine anni ’70 e spazia da gruppi prog-rock a gruppi pop. In totale i dischi prodotti da lui hanno venduto vari milioni di copie, quindi si può dire sia uno che sa distinguere tra musica di qualità e musica mediocre, anche a livello di suono; è uno molto severo in studio, quindi, superata la soggezione iniziale, è stata una bella sfida e ci ha spronato a fare del nostro meglio. Personalmente da lui ho ricevuto dei complimenti che mi hanno fatto molto piacere. Ha un modo di lavorare piuttosto old-fashioned ed è quello che cercavamo: un produttore capace di capire com’era una produzione valida degli anni ’90. Inoltre è uno a cui piace sperimentare e che offre idee anche in fase di registrazione, ha delle opinioni molto decise e collabora attivamente alla riuscita del disco. E’ uno di quei producer di cui ti devi fidare. Volevamo sfuggire alle produzioni plastificate odierne e offrire un suono che fosse ben fatto e potente, ma senza artifizi eccessivi o cose innaturali. E’ un disco che mantiene un impatto quasi ‘live’ e la cosa ci piace molto, è piuttosto fuori dal tempo, non è assimilabile alle produzioni moderne, ma al tempo stesso non suona datato. Il mastering di Brad Boatright agli Audiosiege poi è stata la classica ciliegina sulla torta: di certo il mastering più equilibrato e ben fatto che abbiamo mai avuto”.

SEMBRA CHE A PARTIRE DA “UNDER SATURN RETROGRADE” SIATE TORNATI A COMPORRE CON UNA CERTA RAPIDITÀ. RICORDO CHE DOPO “NEGATIVE MEGALOMANIA” ERANO TRASCORSI ALCUNI ANNI SENZA CHE VENISSE PUBBLICATO MATERIALE INEDITO. VI SENTITE PARTICOLARMENTE ISPIRATI ULTIMAMENTE? SI TRATTA FORSE DELLA CONSEGUENZA DI AVERE UNA LINEUP STABILE?
“Sì, abbiamo avuto un paio di momenti di stallo nella nostra carriera, il primo tra ‘Love’s Burial Ground’ e ‘Negative Megalomania’, il secondo tra ‘Negative Megalomania’ e ‘Under Saturn Retrograde’. Nel frattempo avevamo ristampato alcuni dischi e fatto uscire alcuni vinili e cose simili, oltre a fare svariati live in tutta Europa, ma eravamo meno attivi di adesso principalmente perché in quegli anni eravamo tutti legati da responsabilità lavorative, familiari o da problemi di salute e casini vari. Nel corso degli anni successivi sono stati fatti degli aggiustamenti e prese delle scelte in seno alla band e di conseguenza abbiamo dedicato la maggior parte delle nostre vite al gruppo, producendo più materiale e tornando ad essere molto attivi dal punto di vista live. Abbiamo anche cambiato varie label e la cosa ci ha portato via molto tempo e creato non poco stress. L’ispirazione mi è spesso venuta dalle difficoltà e dalle asperità della vita, ma anche l’essere in movimento e il raggiungere risultati è una cosa che mi aumenta la creatività e la voglia di fare; la stagnazione è la cosa peggiore che può succedere a un gruppo. Un altro fattore determinante è l’età: andando avanti con gli anni ti rendi conto che non c’è tempo da perdere”.

ORMAI DA TEMPO È DIFFICILE CLASSIFICARVI COME UN GRUPPO BLACK METAL, EPPURE DA MOLTI VENITE ANCORA INSERITI IN QUEL FILONE, MAGARI SENZA NEMMENO UN ASCOLTO. VI CAPITA DI SENTIRVI SOTTOVALUTATI O FORZATAMENTE RELEGATI A RUOLO DI “REALTÀ UNDERGROUND”?
“‘Black Metal’ è sicuramente un termine riduttivo per noi, vista la moltitudine d’influenze e sfaccettature racchiuse nel nostro sound; non credo comunque sia del tutto sbagliato, nel senso che il black metal è ancora ampiamente presente nella nostra musica, perlomeno per come lo intendiamo noi, quindi prettamente legato a certe atmosfere sinistre e a un certo modo di concepirlo. Di certo però non siamo associabili al genere per molti altri versi, ad esempio a livello d’immagine o a certe derive lo-fi o tecnicamente pauperistiche. Sicuramente facciamo metal estremo, che poi venga etichettato in qualche maniera più o meno assurda o fantasiosa è una prerogativa tipica del pubblico metal, da cui solitamente mi dissocio. Riguardo alla sottovalutazione, purtroppo è una cosa a cui ti devi abituare quando vieni da un posto poco considerato nel metal come l’Italia; tutto sommato comunque abbiamo raggiunto risultati ragguardevoli finora e all’estero in particolar modo siamo generalmente ben considerati. È chiaro che si cerca sempre di fare più cose e nel migliore dei modi, nonostante ci sia da affrontare spesso e volentieri ostilità d’ogni sorta. Di sicuro abbiamo sempre fatto scelte difficili e la nostra integrità, sia musicale che come persone, ci ha chiuso alcune porte; di certo posso dire che qualunque risultato raggiunto o che raggiungeremo in futuro lo dobbiamo solo ed esclusivamente a noi stessi, alla qualità della musica, a una moltitudine di sacrifici e all’impegno messo nelle cose”.

VI VEDETE SU UNA ETICHETTA PIÙ GRANDE DELLA AGONIA RECORDS O SU UNA NON PRETTAMENTE EXTREME METAL? PENSO CHE ALLO STATO ATTUALE DELLE COSE POTRESTE INCIDERE PER CENTURY MEDIA COME PER RELAPSE O SOUTHERN LORD…
“Abbiamo cambiato varie label negli anni e al momento su Agonia ci troviamo bene; per il futuro si vedrà. Sono comunque d’accordo sul fatto che le label da te citate sarebbero altrettanto compatibili con Forgotten Tomb e non ci precludiamo alcuna possibilità per il futuro, procediamo un passo alla volta e con la massima chiarezza in questo genere di cose. Di certo una popolarità maggiore non ci spaventerebbe, a patto di continuare ad avere libertà artistica”.

IN OGNI CASO, MI PARE CHE NEGLI ULTIMI TEMPI ABBIATE AVUTO MODO DI DIVIDERE IL PALCO CON GRUPPI DI VARIO GENERE, COSA CHE MAGARI VI HA PORTATO A SUONARE DAVANTI AD UN PUBBLICO NUOVO. COME VEDI QUESTE ESPERIENZE?
“Mi piace suonare con band di vario genere, a patto che siano compatibili con noi, e la trovo sempre un’esperienza interessante. Anche la cornice dei grossi festival europei è una situazione che mi piace: l’Hellfest 2012 ad esempio è stata una grande esperienza. Non sono uno a cui piace auto-ghettizzarsi in un determinato ambiente, anche se ovviamente di solito cerchiamo di esibirci solo in situazioni che troviamo comunque in linea di massima compatibili e rispettose del genere di band che siamo, specialmente nel caso dei tour. La varietà è bella, ma deve avere un senso; suonare per un pubblico diverso può aiutare ma può anche essere un’arma a doppio taglio se la differenza stilistica/attitudinale è eccessiva”.

LO SCORSO ANNO AVETE DATO ALLE STAMPE UN LIVE DVD. UN ALTRO TRAGUARDO RAGGIUNTO. COSA VI MANCA ANCORA DA REALIZZARE IN CARRIERA? VI SONO DEGLI OBIETTIVI PARTICOLARI CHE VI SIETE FISSATI CON “HURT…” E IL RELATIVO “CICLO PROMOZIONALE”?
“Nei limiti del possibile cerchiamo di sfruttare tutte le possibilità e incrementare l’attività della band: non ci è mai interessato rimanere un fenomeno underground o di nicchia. Al momento stiamo lavorando su varie date europee, abbiamo date in Messico e in autunno faremo un tour europeo da headliner; in seguito valuteremo se fare altri tour e cercheremo di estenderci a territori non ancora visitati. Generalmente il nostro obiettivo è suonare in giro il più possibile e in situazioni sempre migliori: c’è gente nuova che ci scopre ogni giorno in ogni angolo del mondo, quindi credo ci sia ancora tantissimo lavoro da fare. Nel frattempo, cercheremo sempre di offrire album all’altezza e che abbiano qualcosa da dire, prima di tutto per noi stessi”.

IMMAGINO CHE, CON SETTE ALBUM ALL’ATTIVO, STIA DIVENTANDO DIFFICILE SELEZIONARE I BRANI DA SUONARE LIVE. STATE GIÀ PENSANDO A COME AFFRONTARE IL “PROBLEMA”? SIETE SOLITI PROPORREI I BRANI CHE IL GRUPPO HA VOGLIA DI SUONARE O QUELLI CHE IL VOSTRO PUBBLICO RICHIEDE CON PIÙ INSISTENZA?
“Questa cosa è sempre fonte di simpatici dibattiti all’interno della band, dato che io ho la tendenza a fregarmene completamente dei gusti del pubblico e voglio sempre suonare le cose più recenti o quelle che in generale preferisco, anche per non annoiarmi; vengo poi ‘moderato’ dal resto del gruppo e quindi si giunge a un compromesso sulla setlist, anche se spesso la improvvisiamo prima dei live. Nelle date successive all’uscita del disco suoneremo un paio di pezzi nuovi e almeno uno da ogni disco vecchio; a volte facciamo dei medley, vista la durata delle canzoni. Per i tour in programma comunque dovremo allungare di una decina di minuti il set e lo stiamo anche rinnovando completamente; chiaramente ci son pezzi che ormai son talmente classici che a non suonarli si rischia una sommossa popolare, ma quello vale per la maggior parte delle band. Il vero problema è nei festival, dove magari abbiamo 40-50 minuti e possiamo fare 5-6 pezzi al massimo, rischiando sempre di lasciare scontento qualcuno”.

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