Affrancatisi da una posizione solamente underground con lo spumeggiante “Motherblood” e importanti tour a suo supporto, i Grave Pleasures si sono concessi ben sei anni per un nuovo appuntamento discografico: un periodo temporale sufficiente a far crescere una pressante attesa, per un gruppo capace di guadagnarsi ascolti trasversali e diventare un prodotto fruibile dentro e fuori i circuiti strettamente metal.
Con “Plagueboys” è probabile che molti fan siano rimasti ‘scottati’, un po’ smarriti di fronte a un cambio di orientamenti sonori, in favore di canzoni più calme, raccolte, poco o per nulla esagitate e diluite nell’istintività punk e nella durezza metallica. Forse un peccato capitale, in tempi di valutazioni e appassionamenti dettati dalla primissima impressione; oppure, andando più in profondità nel raffrontarsi a questa nuova fatica del quintetto finnico, si potrebbe scoprire una dimensione interessante come quella che giù conoscevamo. Difatti, negli ammorbidimenti e nel ricamare melodie soffici e confortevoli, pur malinconiche e cupe, Mat McNerney e soci dimostrano di non aver perso lo smalto, di essere songwriter versatili e per nulla banali, anche quando il discorso sembra farsi semplici e poco elaborato.
Per chi scrive, molte delle tracce del disco da poco uscito girano in testa che è un piacere, ed è difficile che da lì si schiodino in tempi brevi. Dei pensieri e delle sensazioni che hanno guidato a queste dieci piccoli odi apocalittiche ci siamo confrontati direttamente col frontman di origine inglese, con qualche intervento del chitarrista Aleksi Kiiskilä.
DOPO UN ALBUM MOLTO DIRETTO E POTENTE COME “MOTHERBLOOD”, CON IL NUOVO “PLAGUEBOYS” LE ATMOSFERE CAMBIANO DRASTICAMENTE: PIÙ CALMO, MENO METALLICO, CONTEMPLATIVO E QUASI POP IN ALCUNE CANZONI. QUALCOSA DI MOLTO DISTANTE DALLE CAVALCATE PIROTECNICHE DI “MOTHERBLOOD”, E DISTANTE ANCHE DA “DREAMCRASH”. CHE COSA HA CAUSATO QUESTO FORTE CAMBIAMENTO NEL SUONO?
Mat McNerney: – Ci piace creare delle esperienze sonore ben distinte in ogni disco, invece che scrivere continuamente la stessa musica. Penso sia interessante far progredire un’idea, portarla avanti, svilupparla.
Mi viene in mente, come paragone, quella di una finestra di una casa che si affaccia su uno splendido panorama. Quando osservi la stessa visuale a lungo, ti abitui ad essa, quasi te ne viene a noia. Allora vai a un’altra finestra, trovandoti dinnanzi la medesima area, osservata però da un’altra prospettiva. Ti è familiare, ma non l’hai mai vista prima. Per me, il nuovo album è proprio questo, una nuova visuale sulla musica che conosco. Un suono rinnovato per la band, nuove idee, qualcosa di fresco.
Mi è sempre piaciuto pensare che i Grave Pleasures avessero un loro lato contemplativo, che riuscissero a mostrare un livello serio e profondo nel modo in cui guardano alle cose. Ora avevo sentito che era arrivato il momento di portare all’attenzione queste nostre qualità, proprio quando l’intero mondo è in preda a una cupa, deprimente tristezza.
SONO TRASCORSI QUASI SEI ANNI TRA “MOTHERBLOOD” E “PLAGUEBOYS”: A COSA È DOVUTO QUESTO LUNGO INTERVALLO DI TEMPO TRA UN DISCO E IL SUCCESSIVO?
Aleksi Kiiskilä: – Dopo “Motherblood” e i diversi tour fatti assieme è stato più facile per noi comprendere cosa rappresentasse il nostro suono, come fosse fatto e cosa intendesse esprimere. Ed è stato anche più semplice capire quali fossero le dinamiche all’interno del gruppo. È infatti più semplice scrivere, per esempio, delle demo o dei tempi di batteria sapendo già quale sia l’idea generale di suono nella quale si andranno a collocare, quando andrai a mettere assieme tutto quanto come band. Oppure quando vuoi sfidare Rainer (Tuomikanto, batterista della band, ndR) puoi provare a scrivere qualche pattern intricato e strano, e osservare come si ingegna per suonarlo veramente…
LA LINE-UP È RIMASTA LA STESSA DA “MOTHERBLOOD” AD OGGI. NEL MODO DI LAVORARE E DI COMPORRE, QUANTO VI HA AIUTATO QUESTA STABILITÀ?
Mat McNerney: – Ha aiutato moltissimo. Non penso che i Grave Pleasures esisterebbero senza la line-up che ha creato “Motherblood” e la chimica che si è creata tra di noi. Per quanto mi riguarda quello che siamo oggi non è la prosecuzione dei Beastmilk, e nemmeno dei primi Grave Pleasures, a dirla tutta. Considero a questo punto “Motherblood” come se fosse il nostro vero debut album e che sia di fatto la prima vera rappresentazione di quello che sono oggi i Grave Pleasures.
CHI SONO I “RAGAZZI DELLA PESTE” DEL TITOLO E PERCHÉ AVETE PENSATO DI RAPPRESENTARE QUESTE INQUIETANTI FIGURE IN COPERTINA?
Mat McNerney: – I “Plagueboys” siamo essenzialmente noi. Gli ultimi superstiti di una civilizzazione che ha preso una piega ferale, indirizzata all’estinzione. Ci affidiamo alle vecchie tradizioni, ma sono delle distorsioni. Siamo umani nella forma, ma selvaggi per natura. Quelli che vedi in copertina sono una rappresentazione delle forze primarie che muovono l’umanità, quelle che portano alla luce la sua vera natura.
Cosa rimane quando ogni cosa viene a cadere? È un buon punto di partenza per una discussione, rilevante per quello che sta avvenendo oggigiorno. Cosa significa oggi essere un ragazzo o una ragazza, o identificarsi con entrambi i sessi, cosa vuol dire esseri umani, quale sia la nostra essenza spirituale. Il titolo serve a farti sognare, immaginare, pensare e discutere. Non vi è un’idea fissa e costante alla base del titolo, se non quello di far pensare le persone, mettere in relazione questo mondo con la vita che ci sarebbe dopo un’apocalisse. Probabilmente stiamo tutti vivendo in un mondo post-apocalittico.
Lo sapevi che bisogna andare fino in fondo all’oceano per trovare relitti di nave affondate prima delle detonazioni atomiche? Lì puoi trovare gli unici metalli che non abbiano subito l’irradiazione dell’energia atomica. Riassume un po’ quello che può rappresentare la bomba atomica. Una volta che esiste, che c’è questo potenziale distruttivo disponibile, prima o poi arriverà qualcuno che vorrà usarlo, è solo questione di tempo.
PER LE REGISTRAZIONI DELL’ALBUM SIETE RIMASTI IN FINLANDIA E AVETE REGISTRATO SOTTO LA SUPERVISIONE DEL VOSTRO CHITARRISTA JUHO VANHANEN E DI NIKO LEHDONTIE COME PRODUTTORI. CHE TIPO DI SUONO VOLEVATE OTTENERE E QUANTO ERAVATE PREOCCUPATI DI SUONARE TROPPO SIMILI AI LAVORI PRECEDENTI?
Mat McNerney: – Non era una nostra preoccupazione, l’assomigliare o meno ai nostri dischi precedenti. Eravamo sicuri che il nuovo album sarebbe suonato esattamente come siamo noi adesso, che noi lo volessimo o no. Ci comportiamo in modo naturale quando creiamo e registriamo nuova musica, lasciamo che sia la nostra anima come band a dettare le condizioni.
Per le caratteristiche del suono, abbiamo discusso in anticipo con Juho sul fatto che volessimo un suono pesante, senza che vi fosse praticamente distorsione di chitarra. Volevamo utilizzare il riverbero come fosse uno strumento, come parte fondamentale del disco; pesantezza associata a un bilanciamento di spazi e distanze tra gli strumenti, avere un suono corposo senza dover per forza spingere sulla distorsione e toccare sempre le stesse corde emotive. Per farlo, abbiamo fatto vagare la mente verso magazzini abbandonati e rave nei sotterranei.
POSITIVITÀ DURANTE SITUAZIONI NEGATIVE, ENERGIA A CONTRASTARE L’OSCURITÀ, MOVIMENTO CONTRO IL PESSIMISMO MONTANTE, SONO ELEMENTI TANGIBILI DURANTE L’ASCOLTO SIA DI “MOTHERBLOOD” CHE DI “DREAMCRASH”: CON QUEST’ALBUM, AL CONTRARIO, L’ATMOSFERA È PLUMBEA E CREPUSCOLARE. POSSIAMO AFFERMARE CHE PERCEPIATE L’APOCALISSE AVVICINARSI A UNA VELOCITÀ NETTAMENTE MAGGIORE DI QUANTO IMMAGINAVATE SOLO POCHI ANNI FA?
Mat McNerney: – Già adesso noi viviamo in un mondo post-apocalittico. Sappiamo da tempo che stiamo vivendo sull’orlo dell’abisso, osserviamo non solo da oggi gli effetti dell’estinzione sul nostro pianeta. Prendo molta ispirazione da scrittori come Eugene Thacker, che parlano del genere horror come di un modo di pensare al mondo ‘impensabile’. Quando affrontiamo questa idea di nichilismo e il nostro fascino per la morte, affrontiamo il limite della nostra capacità di comprendere il mondo in cui viviamo. È quello che faccio con i Grave Pleasures. Il nome della band esprime la contraddizione del ridere di gusto di fronte alla morte. Ho sempre detto che la buona musica rock dovrebbe sempre affrontare i più grandi argomenti della vita e della morte, e se non lo fai semplicemente ti arrendi.
Questo è il mio modus operandi nei miei ascolti e nel mio metodo creativo. Voglio essere in grado di entrare in più vasti pensieri, per capire il mio posto in tutto questo. Quando guardiamo al di fuori di noi stessi, al quadro più ampio con cui abbiamo a che fare, allora penso che comprendiamo il nostro ruolo personale nel cosmo.
Quindi, quando ascolto la musica, io ricerco l’arte che non ha paura di guardare la vita e la morte, che sono d’altronde i più grandi argomenti che occupano la nostra mente. È così che trovo significati personali profondi, significati che riguardano me ma anche molti altri, come se quello che percepisco lo intendessi in una prospettive ‘comunitaria’. Quindi la mia visione musicale e lirica è meno su un tema ponderato e pianificato, guarda piuttosto sull’arrivare al cuore di chi sono e di come mi sento in rapporto alla vita, all’universo e tutto il resto.
L’apocalisse è un ottimo modo per arrivare al cuore di ciò che significa essere umani. Abbiamo trovato un modo nella bomba atomica per ingannare la morte, in un certo senso. Con la bomba atomica non muori da solo, ma porti con te tutto il resto. Questo è l’epitome del male ed è un riflesso diretto del genere umano, di come ragiona. Siamo un’icona perfetta del caos nel cuore dell’universo: siamo sia creazione che distruzione, tutto e nulla. Penso che sia un buon punto di partenza per divertirsi. Potrebbe essere intensamente profondo, ma penso che sia bello mettere tutto sul tavolo prima di iniziare a ballare. Raggiungi i recessi più oscuri della psiche, per poi buttare via tutto e lasciarlo andare all’inferno mentre balli con le lacrime agli occhi.
TORNANDO INVECE ALLE CANZONI DI “PLAGUEBOYS”, IL SECONDO SINGOLO ESTRATTO È STATO “HEART LIKE A SLAUGHERHOUSE”. PER DESCRIVERE LA SUA GENESI, AVETE CITATO IL VOSTRO CONCERTO AL WAVE GOTIK TREFFEN, CHE VI AVEVA COLPITO PER L’ESPLOSIIONE DI COLORI E STRANEZZE. CHE COSA VI COLPÌ MAGGIORMENTE DI QUELLA SITUAZIONE? CHE COSA PENSATE IN GENERALE DELLA SCENA GOTHIC E DARK, ALLA QUALE IN PARTE APPARTENETE, MA DALLA QUALE VI DISTACCATE PER MOLTI ALTRI ASPETTI?
Aleksi Kiiskilä: – Penso che a rimanerci impressi siano stati soprattutto lo sforzo che queste persone hanno profuso nel mostrare il loro stile di vita e la loro estetica. E anche la rapida visione di come sarebbe una città se tutti si vestissero così. Quindi queste scene potrebbero averci influenzato inconsciamente, poiché il nostro ambiente di solito influenza la musica che esce da noi stessi. Per quanto riguarda la scena rock gotica e dark, è una valle così profonda da esplorare! Abbiamo somiglianze con il lato visivo, per esempio, ma per quanto riguarda la musica, siamo sempre alla ricerca di quel suono speciale post-punk tipico dei Grave Pleasures. Abbiamo tematiche oscure, ma la nostra musica è piuttosto veloce, divertente e ballabile, piuttosto che dal ritmo lento, triste o malinconico.
UNA DELLE MIE CANZONI PREFERITE DI “PLAGUEBOYS” È “TEARS ON THE CAMERA LENS”: È STRUGGENTE, CHIUDE L’ALBUM IN MODO COMPLETAMENTE DIFFERENTE DALL’URAGANO DI “HAUNTED AFTERLIFE”, CHE ANDAVA INVECE A PORRE FINE A “MOTHERBLOOD”. C’È QUALCOSA INESORABILE E DEFINITIVO NELLA SOFFICE TRISTEZZA CHE LASCIA NEL CUORE “TEARS ON THE CAMERA LENS”. QUAL È IL PUNTO CENTRALE DELLA CANZONE E PERCHÉ PENSAVATE FOSSE PERFETTA PER CHIUDERE “PLAGUEBOYS”?
Mat McNerney: – “Tears On The Camera Lens” è, come dici tu, completamente diversa come chiusura rispetto a “Haunted Afterlife”, eppure ci sono delle somiglianze tra le due canzoni. Esprimono tutte e due una triste prospettiva su un tema simile. Penso che con questa canzone stia dicendo che va bene sentirsi esposti e feriti. Ci sono fantasmi e ombre nella vita di tutti e a volte all’inizio reagiamo con rabbia, poi ci sentiamo crudi e nudi, più vulnerabili. “Tears On The Camera Lens” parla forse più di quel periodo in cui tutto si calma e il fumo si dirada e tutto ciò che resta è una grande ferita.
È una delle mie canzoni e ho cercato di ottenere il tipo di purezza che Billy Bragg ha in “A New England” (contenuta nell’album “Life’s a Riot With Spy Vs Spy” del cantautore inglese, ndR) . Penso che quando hai canzoni concettuali, dove cerchi di esprimere ragionamenti elaborati, è bello mescolarle con qualcosa di veramente crudo e personale. Questo è quello che ho cercato di proporre quanto a tematiche, nell’ultimo album. Racconto di come i problemi più grandi della società possano essere accostati e confrontati ai piccoli traumi personali della vita di ognuno.
Per me “Tears On The Camera Lens” può anche riguardare la morte e come si affronta questo tipo di perdita. Immagino di pensarla meno come una canzone d’amore che spezza il cuore e più invece la perdita definitiva di qualcuno a noi vicino. “Mano al mio cuore, temendo l’alba, traccio il tuo contorno, fingendo che tu sia vicino”, sono parole che penso siano forse tra le più personali che abbia mai scritto. Provo molto spesso quel tipo di sensazione.
DEVO AMMETTERE CHE AI PRIMI ASCOLTI C’ERA QUALCOSA CHE NON MI CONVINCEVA PIENAMENTE DI “PLAGUEBOYS”: SUONAVA TROPPO DIVERSO, CALMO ED EDUCATO RISPETTO A “MOTHERBLOOD”. SOLO CON QUALCHE ASCOLTO AGGIUNTIVO E MAGGIORE ATTENZIONE AI DETTAGLI HO INIZIATO A COMPRENDERNE LE QUALITÀ. TI CHIEDO QUINDI SE ERAVATE PREOCCUPATI CHE UNA GROSSA FETTA DI PUBBLICO POTESSE NON CAPIRE QUESTA SVOLTA.
Mat McNerney: – Penso che l’esperienza che hai avuto inizialmente con il disco sia comprensibile e comune a molti che ci ascoltano. Ma non avremmo realizzato quest’album se non ne fossimo stati pienamente convinti; non è che l’abbiamo semplicemente spinto fuori velocemente.
Pensiamo a Grave Pleasures più di chiunque altro a questo mondo, quindi in questo senso penso che non potrebbe interessarci di meno se le persone capiscano o no “Plagueboys”.. Facciamo questo come una nostra espressione artistica e quindi la reazione che otteniamo è quella che l’arte merita. Amo quello che è e ciò che rappresenta e ho fatto pace con quello una volta che l’abbiamo registrato, mixato e completato in ogni aspetto. Ciò che gli altri ne fanno dipende interamente da loro.
NONOSTANTE VOI NON SIATE PROPRIAMENTE UNA METAL BAND, IL PUBBLICO METAL È STATO PRESTO RAPITO DAI BEASTMILK PRIMA, QUINDI DAI GRAVE PLEASURES. COME TI SPIEGHI QUESTO SUCCESSO NELL’AMBIENTE? PERCEPITE CHE, IN QUALCHE MISURA, I GRAVE PLEASURES SIANO UNA UN GRUPPO METAL A TUTTI GLI EFFETTI?
Mat McNerney: – In effetti questa concezione che si ha di noi è un qualcosa strettamente legato all’ambiente metal. Può essere per quello che siamo/eravamo come persone. Qualcosa che sta proprio nel nostro DNA. A volte, lo confesso, questa cosa mi lascia perplesso.
Tutto quello che poso dire è che la musica metal è la più variegata che ci sia nel mondo e che oggi ci sia una scena molto vasta dedicata a proporre musica non metal per metalhead. Penso a Emma Ruth Rundle, ad esempio, e come lei ci sono tantissimi altri artisti che, pur non facendo propriamente ‘metal’, hanno una larga fetta dei loro ascoltatori tra i metallari. Detto questo, non è una tematica sulla quale mi soffermo più di tanto.
SE C’È UNA BAND CHE NEGLI ULTIMI ANNI È RIUSCITA A EVOCARE UN IMMAGINARIO SIMILE AL VOSTRO E A DARE VIBRAZIONI ACCOSTABILI A QUELLE DEI GRAVE PLEASURES, QUESTI SONO I ROPE SECT. ADDIRITTURA TU, MAT, HA CANTATO IN DUE CANZONI DEL LORO ALBUM “THE GREAT FLOOD”, OSSIA “PRISON OF YOU” E “FLOOD FLOWER”. CHE COSA PENSI DI QUESTO GRUPPO E DEL LORO SUONO CREPUSCOLARE E SEDUTTIVO? CI SONO ALTRE BAND CHE SENTI VICINE AI GRAVE PLEASURES?
Mat McNerney: – Adoro i Rope Sect e la voce del loro cantante Robert! Desideravo collaborare con loro perché sentivo che la band arrivava da un luogo – immaginario – simile al nostro, c’era sintonia. Mi piacciono molto anche Naut, Violent Hearts, Unto Others, The Nightmaers, Maggot Heart e diverse altre formazioni che, come noi, seguono un filone post-punk.
NEGLI ULTIMI ANNI AVETE COMPIUTO ALCUNI TOUR CON BAND MOLTO DIFFERENTI TRA DI LORO, ECLETTICHE E ANCHE, A VOLTE, ABBASTANZA DISTANTI DA VOI DAL PUNTO DI VISTA STILISTICO. COSA AVETE IMPARATO DA QUESTE ESPERIENZE E COME VI SIETE TROVATI A ESIBIRVI DAVANTI A AUDIENCE MOLTO DIVERSE, CHE MAGARI NON VI CONOSCEVANO BENISSIMO?
Mat McNerney: – Il tour più importante che abbiamo vissuto è stato finora quello di spalla ai Killing Joke, mentre quello dal quale forse abbiamo imparato di più è stato quello assieme ai Tiger Army. Ogni band è diversa e quanto sei in tour con loro, anche dalle band di supporto, tu impari tantissimo. Se devo essere sincero, forse di questi tempi imparo maggiormente proprio dai gruppi di supporto, quelli più piccoli, per come riescono a divertirsi suonando la loro musica. È facile, quando il tutto diventa più ‘professionale’ e intenso, prendere le cose troppo seriamente e perdere la componente di divertimento e spensieratezza. Quando diventi più esperto e navigato è più difficile godersi semplicemente quello che stai suonando.
La cosa bella ad esempio del suonare di spalla ai Killing Joke è che loro da un certo punto di vista sembrano ancora giovani, non hanno perso quel tipo di freschezza che ti dicevo prima. Vivono il momento e hanno i loro buoni e cattivi giorni come se fossero una cara vecchia punk band! Un gruppo dovrebbe essere un gruppo, sentire sempre il fuoco dentro tutte le volte che va sul palco!
QUALI SONO I VOSTRI PIANI PER IL 2023? AVETE IN PROGRAMMA TOUR ESTESI?
Mat McNerney: – Nessun grande piano per noi per adesso. Neanche per quanto riguardo i tour c’è finora qualcosa di fissato. Vedremo cosa accadrà.