HAKEN – Come barche contro la corrente

Pubblicato il 19/06/2020 da

E’ il 29 aprile quando raggiungiamo telefonicamente Richard Henshall degli Haken per farci raccontare qualche dettaglio in più sul nuovo album della band. Al momento della telefonata sia noi che il chitarrista siamo chiusi in lockdown e ci parliamo da due delle zone più colpite dalla pandemia: la Lombardia da una parte e l’area metropolitana londinese. Parliamo di un album che si intitola “Virus” e già questo è strano. E in più ne parliamo provando a ragionare su scenari futuri che sono inediti per tutti e, quanto tali, diventano ancora più imprevedibili. Ci troviamo di fronte un interlocutore acuto, che non abbandona la sua professionalità, supportando al meglio un’uscita discografica importante, su cui sono stati spesi tempo ed energie. Al tempo stesso, però, emerge anche quel lato umano del musicista, che si preoccupa in primo luogo per la salute dei suoi concittadini, per gli operatori sanitari in prima linea, e contemporaneamente prova ad immaginare strade nuove da percorrere per continuare a nutrire la propria arte, con tecnologie, idee e proposte. Senza ulteriori indugi, dunque, a lui la parola.

 

CIAO RICHARD, A BREVE CI ADDENTREREMO NEL DETTAGLIO NEL NUOVO ALBUM, “VIRUS”, MA PRIMA VORREMMO FARE UN PASSO INDIETRO E FARE IL PUNTO SU “VECTOR”, CHE HA AVUTO UN NOTEVOLE SUCCESSO.
– Sì, “Vector” è stato un album molto divertente da realizzare, con un sacco di materiale tra i più pesanti che abbiamo mai scritto ed eravamo molto curiosi di vedere come questo lavoro sarebbe stato accolto dai nostri fan. Noi eravamo orgogliosi del risultato finale, ma eravamo consapevoli che sarebbe potuto essere diverso per i nostri fan: fortunatamente non solo l’album è piaciuto, ma ci ha consentito di raggiungere nuovi ascoltatori. Inoltre grazie a “Vector” avremmo avuto la possibilità di partecipare a tutta una serie di grandi festival, come il Download Festival, il più grande festival di musica heavy nel Regno Unito, ma ovviamente ormai non sarà più possibile (a causa dell’emergenza Covid-19, ndR). Quindi tornando alla domanda, sì, è stato un album molto importante, che ci ha permesso di stare parecchio in tour lo scorso anno e che, se non fosse stato per il Coronavirus, ci avrebbe permesso di fare ancora diverse date. Infatti eravamo nel mezzo di un tour con Devin Townsend quando la situazione è peggiorata e abbiamo dovuto prendere armi e bagagli e tornare a casa.

SAPPIAMO CHE IL TITOLO DELL’ALBUM, “VIRUS”, NON HA NESSUNA ATTINENZA CON LA SITUAZIONE ATTUALE. SI E’ TRATTATO DI UNA SFORTUNATA COINCIDENZA MA, NONOSTANTE QUESTO, AVETE PRESO IN CONSIDERAZIONE L’IDEA DI MODIFICARE IL TITOLO DELL’ALBUM ALLA LUCE DELL’ATTUALE PANDEMIA?
– Avevamo in mente di intitolare l’album “Virus” molto prima che questa pandemia prendesse piede: abbiamo iniziato a lavorare al nuovo disco due anni fa, ma fin dalla composizione di “Vector” avevamo in mente l’idea di andare a creare una sorta di doppio album; già mentre scrivevamo il primo, dunque, avevamo già abbozzato almeno in linea generale i due dischi. Non a caso già nei testi di “Vector” ci sono dei rimandi a questo virus che poi abbiamo sviluppato nel secondo album. Quando la pandemia è esplosa, era tutto già pronto: il concept album, i testi, il master, perfino l’artwork. Ci siamo accorti che sarebbe stato davvero troppo complicato apportare delle modifiche a questo punto del lavoro ed è per questo che ci abbiamo tenuto a rilasciare una dichiarazione, quando abbiamo dato l’annuncio dell’album, in cui spiegavamo come tra questi eventi non ci fosse nessun tipo di correlazione e di come fosse semplicemente il frutto di una sfortunata coincidenza.

TI VA DI RACCONTARCI BREVEMENTE COME SI EVOLVE IL CONCEPT ALLA BASE DI QUESTI DUE ALBUM?
– In maniera sintetica possiamo dire che racconta la storia del “Cockroach King”, il protagonista dell’omonima canzone che avevamo pubblicato nell’album “The Mountain”. Si tratta di una canzone che ha avuto molto successo tra i nostri fan, forse una delle più apprezzate in assoluto, tanto da continuare a riproporla dal vivo ad ogni concerto da quando è stata pubblicata. Al tempo stesso, però, c’erano numerosi retroscena e idee intorno ad essa che avremmo potuto ampliare e sviluppare e da questi spunti hanno preso vita i due album. L’album quindi racconta la storia di quest’uomo e ruota sostanzialmente intorno al concetto di avidità. Possiamo dire che ha dei parallelismi con la vicenda raccontata ne “Il Grande Gatsby”: un uomo che vive cercando di raggiungere la cima della catena alimentare, da un punto di vista economico, ottenendo sempre più ricchezza e potere, alimentando uno stile di vita narcisistico, che lo fa vivere in una sorta di torre d’avorio ma che, alla fine della storia, lo porta anche all’autodistruzione.

“VECTOR” AVEVA UNA MARCATA IMPRONTA HEAVY, MENTRE “VIRUS” HA UNO SPETTRO DI SONORITA’ PIU’ AMPIO, CON MAGGIORI INFLUENZE.
– Sì, come dicevo prima “Vector” è senza ombra di dubbio l’album più heavy che abbiamo mai scritto, un album in cui praticamente ogni canzone contiene questi elementi, dando un’atmosfera e una direzione ben precisa all’intero album. In “Virus”, invece, abbiamo uno spettro molto più ampio di influenze, che comprendono band come gli Elbow o i Radiohead, uno spettro talmente ampio da andare dai Fear Factory agli Sugar, con tutto quello che può esserci nel mezzo. Per esempio una canzone come “Canary Yellow” suona molto Elbow, una canzone emozionante, vellutata, molto diversa ad esempio da “Prosthetic”, che è molto più ricca, metallica e industriale. L’intero album è quindi una sintesi di quelli che sono i nostri gusti musicali e rappresenta probabilmente il massimo impegno che abbiamo messo in atto come band fino a questo punto della nostra storia.

SE NON ERRO, UNA PARTE DELL’ALBUM E’ STATO COMPOSTO DURANTE IL TOUR CON DEVIN TOWNSEND…
– Sì, abbiamo passato tanto tempo assieme sul tour bus e tutto sommato non è una situazione che possiamo ripetere facilmente in altri contesti, dato che viviamo in diverse parti del mondo. Una parte della band vive a Londra, Conner negli Stati Uniti, Diego in Messico e Ross in una regione nel sud dell’Inghilterra e questo rende complicato riuscire a stare nella stessa stanza, condividendo idee e proposte. Durante il tour, invece, eravamo sempre insieme e quindi abbiamo pensato di convertire il retro de nostro tour bus in una sorta di studio improvvisato, con qualche microfono, dei laptop e via dicendo. Ormai la tecnologia ci permette di lavorare da remoto, rendendo tutto portatile e questo è stato ottimo per noi: abbiamo passato ogni singolo giorno, prima e dopo ogni show, insieme a parlare, passandoci il microfono per registrare delle linee melodiche, o anche semplicemente scambiandoci continuamente idee su quella massa enorme di arrangiamenti che puoi ascoltare nell’album. Tieni però presente che, quando abbiamo iniziato il tour con Devin Townsend, la struttura e la maggior parte degli arrangiamenti erano praticamente già pronti, quindi si è trattato più di un lavoro di rifinitura.

NON E’ DIFFICILE LAVORARE A DELLE PARTITURE COSI’ COMPLESSE COME LE VOSTRE IN UN AMBIENTE CAOTICO COME PUO’ ESSERE QUELLO DI UN TOUR? COME VI SIETE TROVATI IN QUESTA SITUAZIONE?
– Se devo parlare della pura e semplice scrittura, dico la verità, preferisco lavorare da solo, dove puoi metterti nella condizione ideale, mettere giù le tue idee in modo più organico. È effettivamente difficile riuscire a lavorare in modo coerente in un continuo scambio di idee. La situazione ideale è quella in cui ciascuno ha la possibilità di mettere giù le proprie proposte, in un ambiente ideale, per poi sottoporle al resto della band, affinché si possa lavorare assieme per dar loro la forma migliore. Questo tipicamente si traduce in un continuo scambio di materiale, attraverso uno spazio condiviso online, che pian piano prende forma. Altre volte, invece, una composizione nasce da delle sessioni in cui fondamentalmente facciamo delle jam: ad esempio la sezione iniziale e la ritmica di “Puzzle Box” è nata da una jam tra me, Ray Hearne e Charles Griffith. Lo stesso vale anche per “Red Giant”, nata da una lunga jam session tra me e Ray, che ha portato a quella che è la struttura portante del brano. Diciamo quindi che diversi approcci possono portare a diversi risultati: le parti più intricate del songwriting beneficiano maggiormente di un lavoro in solitudine, ma le rifiniture o i cambiamenti alla struttura delle canzoni funzionano meglio quando si ha la possibilità di lavorare tutti assieme.

INDUBBIAMENTE IL BRANO CARDINE DELL’ALBUM E’ LA SUITE “MESSIAH COMPLEX”, UN VERO E PROPRIO TOUR DE FORCE. TI VA DI RACCONTARCI LA GENESI DI QUESTA CANZONE? E’ CRESCIUTA LENTAMENTE NEL TEMPO O AVEVATE GIA’ IN MENTE UNA STRUTTURA PRECISA?
– Questa è la composizione che ha richiesto più tempo e lavoro per essere completata, siamo partiti proprio con l’idea di dare alla canzone più tempo e spazio, per farla crescere fino a diventare quello che puoi ascoltare oggi. La demo iniziale era piuttosto diversa, più leggera, con dei colori più tenui; successivamente abbiamo deciso di renderla più uniforme al mood generale dell’album, dandole un tono più oscuro. Il risultato è quella che, probabilmente, è la canzone più complessa che abbiamo mai scritto: ci sono un sacco di passaggi complicati, parti ritmiche molto difficili e credo che sarà davvero una sfida suonarla dal vivo. Mi ci è voluto quasi un anno per arrivare alla soluzione su come gestire tutte le mie parti di chitarra. Ecco perché ci è voluto così tanto tempo e impegno per completarla, possiamo dire che questa composizione è la sintesi, musicale e concettuale, di tutto quello che volevano essere questi due album. Avevamo una struttura iniziale della durata di circa dodici minuti, poi pian piano abbiamo aggiunto varie idee, facendo attenzione che le varie aggiunte si incastrassero in maniera efficace all’interno del flusso ritmico, perchè non volevamo che il risultato finale assomigliasse semplicemente ad un’accozzaglia di idee diverse mescolate alla rinfusa. Quindi sì, ci è voluto parecchio lavoro, ma siamo assolutamente contenti del risultato finale.

ANCHE QUEST’ALBUM VEDE IN VESTE DI PRODUTTORE ADAM GETGOOD. COME VI SIETE TROVATI A LAVORARE CON LUI?
– Sì, esatto. Lui è fantastico, un grandissimo produttore e anche un bravissimo musicista. È uno di quei produttori che hanno una perfetta comprensione di come debbano suonare gli strumenti, soprattutto la batteria. Quest’ultima ha un’importanza centrale in un sound come il nostro e quindi il suo supporto è stato particolarmente efficace. Ci ha dato numerosi consigli, anche per le mie parti di chitarra, su cui abbiamo lavorato nel suo studio, provando una serie di amplificatori diversi, fino a trovare il sound più adatto alle canzoni. Per noi è stata un’esperienza divertente e anche formativa, perché non avevamo mai avuto occasione di lavorare in questo modo: ci ha dato l’opportunità di comprendere meglio le dinamiche e il funzionamento di uno studio di registrazione o nel mixaggio, potendo così intervenire in prima persona per aggiustare le varie imperfezioni.

SIA “VECTOR” CHE “VIRUS” HANNO UNA DURATA INFERIORE RISPETTO ALLA MEDIA DEI VOSTRI ALBUM. QUESTA E’ STATA UNA SCELTA CONSAPEVOLE O, SEMPLICEMENTE, QUESTI LAVORI SONO NATI COSI’ IN MANIERA NATURALE?
– In passato abbiamo scritto degli album davvero lunghi, “Aquarius” e “Vision” durano entrambi più di settanta minuti, ma questo era dato anche dalla nostra scarsa esperienza nella scrittura: componevamo le canzoni e quello che duravano, duravano, senza farci grossi problemi. In un certo senso quello che è cambiato in “Vector” e “Virus” è proprio l’approccio alla composizione: ora partiamo dalla una struttura iniziale, da cui andiamo a stralciare man mano tutti gli orpelli inutili, quei dettagli che non aggiungono niente alla composizione nella sua interezza. Quello che ne esce fuori è un’idea molto più concisa di canzone e, sì, questo si traduce anche in una durata minore dei due album, un fatto che alla fine gioca anche a nostro favore. Essendo concepito come una doppio album, penso che alcuni ascoltatori potrebbero volersi sedere con calma e ascoltare i due dischi tutti d’un fiato, dall’inizio alla fine: in questo senso la somma dei due album può essere paragonabile a quella di un unico album molto lungo, come i nostri primi lavori.

ANCHE DAL PUNTO DI VISTA DELL’ARTWORK IN QUESTI DUE ALBUM AVETE FATTO DELLE SCELTE MOLTO NETTE, USANDO UN COLORE DOMINANTE, PRIMA IL ROSSO E ORA IL GIALLO. COSA PUOI DIRCI A RIGUARDO?
– Abbiamo la fortuna di lavorare con un eccellente studio grafico, che si chiama Blacklake, che cura i nostri artwork. Per quanto riguarda i colori, volevamo che gli album spiccassero, sia presi singolarmente, sia se messi uno di fianco all’altro. Tra l’altro ci sono questi colori contrastanti, ma un layout che invece è simile, creando comunque un legame tra i due album. Non c’è stato un ragionamento conscio dietro la scelta del colore: l’unica cosa che mi viene in mente è che il giallo è anche il colore utilizzato nei segnali di rischio biologico, dei luoghi sottoposti a quarantena.

PERSONALMENTE HO TROVATO UN PARALLELISMO IN QUESTA SCELTA CROMATICA CON DUE ALBUM DEI KING CRIMSON: “DISCIPLINE” E “THREE OF A PERFECT PAIR”. NESSUN OMAGGIO ALLA BAND DI ROBERT FRIPP, QUINDI?
– Siamo senza dubbio dei grandi fan dei King Crimson e “Discipline” è in assoluto uno dei miei album preferiti, però non è stato un omaggio voluto, magari a livello inconscio…

IL PROGRESSIVE METAL STA VIVENDO IN QUESTI ANNI UNA SECONDA GIOVINEZZA: CI SONO TANTISSIME BAND DI VALORE, C’E’ VOGLIA DI SPERIMENTARE, DI PORTARE AVANTI QUELLA FILOSOFIA ALLA BASE DEL GENERE. COSA NE PENSI?
– Devo dirti che come compositore e come musicista mi considero fortunato a poter lavorare in una band in questo momento storico: se è vero che da una parte ci sono così tanti talenti là fuori, da rendere difficile orientarsi, in questo mare di proposte; dall’altra non posso non essere contento di fronte ad una tale mole di ispirazione. Anche dal punto di vista tecnologico, ci sono tantissimi dispositivi che possiamo utilizzare: l’elettronica ci mette a disposizione materiale, idee e sonorità che sarebbero state difficili da riprodurre una quindicina di anni fa. Sono convinto che sia gli artisti che il pubblico stiano davvero capitalizzando questa rivoluzione digitale. Non solo nella produzione della musica, ma anche nella sua distribuzione, nel modo in cui le persone e i musicisti rimangono costantemente in contatto tra loro online. Da questo punto di vista, un grande esempio da cui trarre ispirazione è quello di Jacob Collier, il modo in cui riesce ad interagire con i suoi fan è incredibile. È un genio: fa un sacco di video interessanti su YouTube, in cui magari prende un video di qualcuno che canta una melodia, la utilizza, andando poi ad aggiungere armonizzazioni e centinaia di parti vocali sovrapposte. È forte, in un certo senso è come fare una jam con il proprio pubblico. Lui è proprio l’esempio perfetto di questa rivoluzione che stiamo vivendo.

LO SCORSO ANNO HAI DATO ALLE STAMPE ANCHE UN TUO ALBUM SOLISTA, TI VA RACCONTARCI QUALCOSA ANCHE SU QUESTO ASPETTO DELLA TUA CARRIERA?
– Certo, ho pubblicato il mio album solista, “The Cocoon”, lo scorso agosto. Ho raccolto il materiale che avevo composto negli ultimi tre anni e, in realtà, mi sono trovato tra le mani abbastanza musica per realizzare non uno ma due album. Così ho pubblicato il primo ma conto di riuscire a dare alle stampe anche il secondo, il prossimo anno probabilmente. Nel mentre, però, sto anche lavorando ad altro album, un progetto più elettronico, che conto di riuscire ad ultimare grazie al tempo libero che si è creato in questa situazione.

PERSONALMENTE HO UN BUONISSIMO RICORDO ANCHE DI UNA BAND DI CUI HAI FATTO PARTE QUALCHE ANNO FA, I TO-MERA: QUELLO VA CONSIDERATO DEFINITAMENTE COME UN CAPITOLO CHIUSO?
– È un peccato perchè non riusciamo più a fare qualcosa assieme da tanti anni ormai, otto se non erro. La band era stata formata dal nostro bassista, Tom McLean: io mi ero unito a loro più avanti e assieme abbiamo realizzato due album: “Exile” e “Earthbound”, dove io suonavo sostanzialmente solo le tastiere. Chissà, certo ormai siamo sempre più impegnati: io sono completamente assorbito dagli Haken, su cui concentro quasi tutti le mie energie, e anche Tom nel mentre si è dedicato ad altri progetti. Entrambi abbiamo dei figli e io sono anche impegnato in un altra band che si chiama Nova Collective, il che significa che ho già tre progetti musicali attivi e questo mi renderebbe davvero difficile trovare il tempo per un quarto. Però chissà, un giorno, magari…

GRAZIE, RICHARD, UN’ULTIMA DOMANDA E NON PUO’ CHE ESSERE SULLA SITUAZIONE CHE STIAMO VIVENDO. QUESTA PANDEMIA STA SPEZZANDO VITE MA SPAVENTANO MOLTO ANCHE LE CONSEGUENZE ECONOMICHE. IL MONDO DELLA MUSICA DAL VIVO SARA’ PROBABILMENTE QUELLO CHE NE USCIRA’ PIU’ MALMESSO, ESSENDO IL PRIMO AD ESSERE STATO CHIUSO E PROBABILMENTE L’ULTIMO A RIAPRIRE. SEI PREOCCUPATO PER IL FUTURO DEGLI HAKEN?
– Sì, è una situazione molto triste, surreale, ti sembra di vivere in uno di quei film apocalittici… Anche io sto vivendo in lockdown, evitando di muovermi il più possibile. Londra, proprio come l’Italia, è una delle aree più colpite al mondo e cerchiamo di evitare ogni situazione di pericolo: mio figlio non sta andando a scuola, mia moglie fa l’insegnante e quindi anche lei non sta lavorando. Al momento la mia preoccupazione e il mio pensiero è rivolto verso coloro che stanno soffrendo: le persone colpite da virus, in primo luogo, ma anche tutti coloro che stanno lottando per combatterlo, infermieri e dottori dell’NHS (il servizio sanitario nazionale del Regno Unito ndR), che stanno vivendo in prima persona la sofferenza e la pressione di questa spaventosa situazione. Dal nostro punto di vista, invece, certo, non sarà facile: avevamo tutta una serie di progetti già avviati e programmati che ovviamente non potranno concretizzarsi. Non riesco a immaginare come la nostra attività possa riprendere prima dell’anno prossimo, ma anche se i governi lo permettessero, credo che la maggior parte delle persone avrebbe delle remore a chiudersi in un locale con altre cinquecento persone rischiando di prendersi il virus. Onestamente non penso che potremo rimetterci in tour prima del 2021 e, anche quando sarà possibile, le cose saranno probabilmente diverse, con norme e controlli più restrittivi, vendite minori di biglietti… Abbiamo le nostre preoccupazioni, ma la vita andrà avanti, si troverà sempre un modo, resteremo sempre in contatto con i nostri fan. Ad esempio abbiamo aperto un account su Twitch, una piattaforma di streaming che non conoscevo in maniera approfondita fino a che non è esplosa questa situazione: ho scoperto che ci sono tanti musicisti che sono riusciti ad avere dei guadagni grazie a questa piattaforma, interagendo con i propri fan. L’abbiamo aperto anche noi e abbiamo avuto dei buoni responsi, con degli incontri online per presentare il nuovo album, in modo da continuare a rimanere in contatto con i nostri fan e con il mondo. Nel mentre ne approfittiamo per concentrarci su nuova musica, nuovi progetti, e vedremo dove ci porteranno… Però non vedo in pericolo il futuro degli Haken, ce la faremo!

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