Con “Fauna” gli Haken hanno alzato ancora l’asticella, portando il loro progressive metal a nuove vette di inventiva e complessità.
Merito di una capacità tecnica assoluta, di un lavoro di squadra studiato al millimetro e, come leggerete nelle risposte di questa intervista, merito anche delle numerose influenze musicali che, anno dopo anno, hanno alimentato il gusto e la curiosità di questi eccellenti musicisti, portandoli ad esplorare nuove strade, soluzioni inedite e mondi lontani da quella che potrebbe essere la loro comfort zone.
Inizialmente questa intervista, che è stata realizzata pochi giorni dopo la data milanese del tour degli Haken in compagnia dei Between The Buried And Me, era prevista con Ross Jennings; il cantante però ha avuto un imprevisto e il nostro interlocutore è diventato Richard Henshall, chitarrista della band che avevamo già avuto modo di intervistare all’epoca della pubblicazione di “Virus”. Conclusi i primi convenevoli, dunque, ci siamo addentrati nei dettagli di “Fauna”.
BENE, RICHARD, PARTIAMO ALLORA DA “FAUNA”. IL NUOVO ALBUM E’ UN PASSAGGIO IMPORTANTE PER VOI, ANCHE PERCHE’ ARRIVA DOPO DUE ALBUM, “VECTOR” E “VIRUS”, CHE POSSONO ESSERE CONSIDERATI COME UN BLOCCO UNICO, IN CUI C’E’ MOLTA CONTINUITA’.
– Per me “Fauna” è come se fosse una reazione a “Vector” e “Virus”, perché come hai detto tu quei due album erano un tutt’uno, come se fosse un singolo album in due parti ed entrambi sono due lavori molto pesanti, metallici, centrati soprattutto sulle chitarre. “Fauna”, invece, è più eclettico, stratificato, il nostro album più variegato ad oggi, e forse proprio per questo fa da contrasto con l’approccio più focalizzato che avevamo scelto per “Vector” e “Virus”. Non ci sono state invece differenze in termini di metodo di lavoro, che è lo stesso che abbiamo usato negli ultimi album: condividiamo le nostre idee, lavorando il più possibile come band, e forse è anche questo che contribuisce ad un risultato finale così vario ed eclettico. C’è molto di ciascuno di noi nella nostra musica.
SAPPIAMO CHE NELL’ALBUM OGNI CANZONE E’ ABBINATA AD UN ANIMALE, CHE NE RAPPRESENTA LO SPIRITO O LE TEMATICHE. COME E’ NATA QUESTA IDEA?
– Se non erro, avevamo in mente l’idea della fauna, del regno animale, fin dagli inizi della scrittura del nuovo album, anche se all’epoca avevamo solo l’idea di usarlo come titolo dell’album, non l’avevamo ancora sviluppato come concept, come tema portante dell’album. E’ stato più o meno a metà della lavorazione che abbiamo pensato di prendere diversi animali, o diverse specie, e provare a metterli in relazione al mondo degli umani, anche ad esperienze che abbiamo vissuto individualmente. Gli animali, quindi, diventano una metafora, che racconta qualcosa che succede nel mondo reale: un esempio perfetto, che è ancora più rilevante oggi, è rappresentato da “Taurus”, un brano in cui abbiamo preso l’immagine della migrazione degli animali selvatici e l’abbiamo usata come metafora del flusso dei migranti, che oggi, con la guerra in corso tra Russia e Ucraina, è un tema all’ordine del giorno. Lo stesso accade in tutte le altre canzoni, con il mondo animale a fare da riflesso a quello reale di noi umani.
QUALCHE UTENTE NELLA NOSTRA COMMUNITY HA NOTATO COME L’ABITO CHE INDOSSA LA SCIMMIA IN COPERTINA E’ MOLTO SIMILE A QUELLO DEL JOKER, NEL FILM DI TODD PHILLIPS. E’ UNA COINCIDENZA O E’ STATA UNA SCELTA VOLUTA?
– No, non è stato intenzionale, ci sono tante cose nell’artwork che abbiamo scelto consapevolmente, ma questa cosa nello specifico, no. Si tratta di una coincidenza, davvero. Tra l’altro io sono un grande estimatore di quel film, quindi non ci sarebbe stato niente di male, ma l’idea dietro alla copertina era semplicemente quella di avere una scimmia vista in maniera elegante, civilizzata, come a voler creare un ponte tra la condizione umana e quella animalesca. Volevamo che rappresentasse una sorta di club di gentiluomini, con gli animali al posto delle persone.
Dietro la scimmia, però, c’è una carta da parati e se si guarda con attenzione è possibile trovare tutta una serie di riferimenti o di easter egg che si legano alla nostra carriera, agli album precedenti, o alle varie canzoni dell’album stesso. Tutte cose che i nostri fan amano cercare e scoprire. La copertina è stata realizzata da un artista che si chiama Dan Goldsworthy: è la prima volta che lavoriamo con lui, ma è andato oltre ogni aspettativa, realizzando una delle copertine più intricate della nostra carriera, che riflette perfettamente anche la musica dell’album, stratificata, colorata, profonda. Ne ha colto pienamente l’essenza.
ANCHE IN QUESTO CASO C’E’ UNO STACCO NETTO RISPETTO ALL’ARTWORK MONOCROMATICO DEI DUE ALBUM PRECEDENTI.
– Sì, esatto, abbiamo avuto spesso un approccio minimalista e ha funzionato molto bene, soprattutto con l’album “Affinity”, che aveva un concept perfetto per il merchandising o le magliette (e indica la maglietta che indossa che, appunto, è una maglietta di “Affinity”, ndR). Questa volta, invece, abbiamo voluto fare qualcosa di completamente diverso.
“FAUNA” VEDE ANCHE IL RITORNO DEL VOSTRO PRIMO TASTIERISTA, PETER JONES. COM’E’ STATO RITROVARVI DOPO COSI’ TANTO TEMPO?
– E’ stato bellissimo riavere Pete con noi nella band. Lui aveva già suonato con noi tanti anni fa, si parla del 2007-2008, quando realizzammo il nostro primo demo (“Enter The 5th Dimension”, ndR). Poi aveva lasciato la band per studiare fisica teorica…
AH, CASPITA!
– Sì, è un ragazzo molto intelligente, e non ha mai abbandonato la musica, affinando il suo stile, acquisendo tante influenze jazz e andando a costruire una strumentazione che lavora moltissimo con l’elettronica. Ha anche un progetto parallelo che si chiama Nested Shapes, in cui esplora in modo particolare questo lato della sua musica: sviluppa idee semplici, ma aggiungendoci un sacco di elettronica intricata e complessa. Ha portato una parte di questo suo mondo anche negli Haken e ha lasciato il segno in molte delle nuove canzoni, ci ha dato un’iniezione di vitalità, di energia. Come ti dicevo il nostro metodo di lavoro vuole che tutti contribuiscano con delle idee e lui ne ha messe sul tavolo tante di nuove, e questo ci ha permesso di allargarci verso nuovi orizzonti. Non vogliamo mai restare fermi, vogliamo sentirci liberi il più possibile e non vedo l’ora di continuare questo viaggio assieme e di lavorare con lui di nuovo nei prossimi album.
ORA VORREMMO CHIEDERTI QUALCHE DETTAGLIO SU ALCUNE CANZONI CHE CI HANNO PARTICOLARMENTE COLPITO. LA PRIMA E’ STATA PUBBLICATA ANCHE COME SINGOLO, SI TRATTA DI “THE ALPHABET OF ME”, UNA CANZONE INASPETTATA, PER STILE E SONORITA’.
– E’ stato molto divertente scrivere questa canzone. Lavoro spesso con Ray (Raymond Hearne, ndR), che mi manda delle tracce di batteria su cui poi posso comporre. In questo caso mi aveva mandato questa traccia di due minuti, solo di batteria. Io ne ho estrapolata una parte e l’ho trasformata in una sorta di loop elettronico, su questo loop ho montato le chitarre ed è diventata la base della canzone. Poi ci abbiamo lavorato assieme e la canzone ha preso una direzione quasi reggae, un po’ alla Police, di cui sono un grande fan. Credo sia un brano che rappresenta al meglio cosa sono gli Haken: una band con tantissime influenze, in cui ciascuna di esse più portare la band a fare qualcosa di nuovo. Ecco perché abbiamo scelto di usarla anche come singolo.
NON TI NASCONDO CHE ASCOLTANDOLA HO PENSATO SUBITO AD UN CERTO POP-ROCK DEGLI ANNI OTTANTA, TIPO IL PETER GABRIEL DI “SO” O COSE DEL GENERE.
– Assolutamente, Peter Gabriel è stata una figura importante per la mia crescita musicale, così come anche i Toto: se prendi la canzone “Lovebite”, per me è come se fosse un ipotetico punto di incontro tra il suono heavy e denso di Devin Townsend e il sound pop, giocoso e sincopato, dei Toto. Ci piace inserire nella musica ciò che ci ha influenzato, come facciamo ad esempio con lo stile dei Gentle Giant, se ci spostiamo sugli anni Settanta, oppure personalmente amo molto cose come Tigran Hamasyan, o Avishai Cohen, che sono più sul versante jazz della musica e che non sarebbero normalmente associati al prog metal, oppure Bon Iver, l’indie rock o l’ambient. Incorpora tutte queste cose con le fondamenta metal che generalmente abbiamo e il risultato è il sound degli Haken. Non rifuggiamo l’idea di celebrare apertamente le nostre influenze, non vogliamo essere una band prog metal standardizzata, diamo valore a quello che amiamo e sono proprio queste influenze a renderci ciò che siamo.
UN’ALTRA CANZONE CHE CI E’ PIACIUTA TANTISSIMO E’ “SEMPITERNAL BEINGS”: TI VA DI RACCONTARCI QUALCOSA ANCHE SULLA NASCITA DI QUESTO PEZZO?
– E’ stata una delle prime canzoni su cui abbiamo lavorato e anche in questo caso è nata da una collaborazione tra me e Ray. Avevamo una sezione che proveniva ancora dalle registrazioni dell’album precedente e che non era adatta a quel contesto. Siamo partiti da lì, creando la struttura ritmica della parte centrale del brano, con quell’andamento quasi tribale. Questo stesso nucleo ritmico l’abbiamo usato anche per il ritornello, che alla fine della canzone viene ripreso, ma con uno stile diverso, un po’ a là Muse, o tipo i Gojira. Ci piace prendere una strofa o un ritornello e proporlo con uno stile diverso nel corso della stessa canzone: ti dà un ulteriore senso di libertà.
CAMBIANDO ARGOMENTO, SONO PASSATI POCHI GIORNI DALLA VOSTRA ESIBIZIONE A MILANO. COM’E’ ANDATA?
– Suonare in Italia è sempre uno dei momenti migliori del tour! E’ una delle audience migliori e non solo in termini di numeri, ma anche di passione, che trasuda da tutti voi italiani. Non vi limitate ad apprezzare la musica, ma trasmettete questo entusiasmo, acclamandoci, urlando dalla platea, cantando… E tutto questo rende ancora più piacevole per noi stare sul palco. Alcuni dei migliori show della nostra carriera sono stati in Italia.
GUARDANDO LA SCALETTA SIAMO RIMASTI UN PO’ SORPRESI NEL VEDERE COME UNA BELLA FETTA DELLO SHOW FOSSE DEDICATA A “VIRUS”, ANCHE MAGGIORE RISPETTO ALLO SPAZIO DEDICATO A “FAUNA”. COME MAI?
– Il primo motivo è che avevamo pubblicato “Virus” proprio all’inizio della pandemia e questo ci ha impedito di portarlo in tour come avremmo voluto fare. Abbiamo pensato quindi che questa fosse l’occasione migliore per recuperare, anche considerando il fatto che questo tour è iniziato quando ancora “Fauna” non era stato pubblicato. Abbiamo quindi pensato di concentrarci soprattutto sui singoli, canzoni che la gente conosceva già, perché dalla nostra esperienza suonare canzoni che il pubblico non ha ancora ascoltato non funziona sempre bene, non riesci a stabilire una connessione con chi ti ascolta. Sicuramente nel prossimo tour daremo più spazio anche a “Fauna”.
PARLANDO DELLA SITUAZIONE ATTUALE DELLA MUSICA DAL VIVO, STIAMO LEGGENDO SEMPRE PIU’ SPESSO DI BAND CHE SI TROVANO AD ANNULLARE IL PROPRIO TOUR A CAUSA DELL’AUMENTO SPROPOSITATO DEI COSTI, CHE RENDE DIFFICILE NON SOLO GUADAGNARCI, MA ANCHE BANALMENTE ANDARE IN PARI CON I CONTI. E’ UNA COSA CHE HA TOCCATO ANCHE VOI?
– Sì, devo dire la verità, è molto più difficile in questo momento andare in tour: il costo dei tour bus è alle stelle e sono state introdotte nuove tasse, soprattutto per noi che veniamo dal Regno Unito, per via della Brexit. Questa è stata una cosa che ci ha danneggiato molto, perché una band come la nostra ha bisogno di viaggiare e di suonare in diversi Paesi dell’Unione Europea e tutto questo si è aggiunto alla situazione già difficile della pandemia. Questo è il nostro primo vero tour dopo il Covid ed è bellissimo essere di nuovo in giro, anche se siamo consapevoli delle difficoltà: anche i prezzi dei biglietti sono saliti e non tutti possono permetterselo. E’ un momento terribile per tutta l’industria musicale e noi ci stiamo muovendo con prudenza, vedendo come vanno le cose a facendo aggiustamenti di volta in volta per il futuro. Finora sta andando tutto bene, comunque.
SEMBRA VINCENTE, DA QUESTO PUNTO DI VISTA, L’IDEA DI COSTRUIRE DELLE ACCOPPIATE CHE POSSANO ESSERE APPETIBILI PER I FAN, UN PO’ COME AVETE FATTO VOI IN QUESTO TOUR CON I BETWEEN THE BURIED AND ME. E’ UN BUON MODO PER RIDURRE I COSTI E PORTARE PIU’ PERSONE AI CONCERTI.
– Sì, è fantastico essere i tour con i Between The Buried And Me, e non solo perché sono una grande band, ma soprattutto perché sono persone splendide, che stiamo conoscendo bene anche perché dividiamo lo stesso tour bus. Hai assolutamente ragione, creare dei tour come questo può essere una buona soluzione per ridurre i costi e per invogliare le persone ad andare al concerto per vedere non una, ma due delle loro band preferite.
SUBITO DOPO LA PUBBLICAZIONE DI “VIRUS” AVEVAMO AVUTO OCCASIONE DI PARLARE E CI AVEVI RACCONTATO DI ESSERE AL LAVORO SU UN NUOVO ALBUM SOLISTA E POI SU UN PROGETTO VICINO AL MONDO DELL’ELETTRONICA. CI SONO NOVITA’ IN ARRIVO?
– Quando scrissi “The Cocoon” (il primo album solista di Henshall, nrR) avevo preparato abbastanza materiale per riempire quasi due album, poi il mio batterista, Matt Lynch è stato coinvolto in tutta una serie di altri progetti, tra cui i Cynic e questo mi ha rallentato un po’ e ho iniziato a lavorare su altri progetti, uno sarà strumentale dalle influenze jazz e l’altro a metà tra la musica acustica e l’elettronica. Forse lavoro a troppe cose assieme, ho qualcosa come tre-quattro album praticamente finiti! Ora che gli Haken sono di nuovo in tour, è difficile trovare il tempo per completarli, ma entro quest’anno mi sono ripromesso di pubblicarne almeno uno. Teniamo le dita incrociate.
LA PROSSIMA DOMANDA ERA PENSATA SOPRATTUTTO PER ROSS, MA SICURAMENTE POTRAI RISPONDERCI ANCHE TU! ABBIAMO APPREZZATO MOLTISSIMO IL LAVORO DI ROSS SUL NUOVO DISCO E IL SUO RUOLO CI E’ PARSO VALORIZZATO. E’ COME SE LA SUA VOCE FOSSE UNA GUIDA ALL’INTERNO DELLE COMPOSIZIONI, CHE TIENE DRITTA LA BARRA, MENTRE INTORNO VOI CREATE UN’INFINITA’ DI SUONI E MELODIE. COME VI SIETE MOSSI NELLA GESTIONE DELLE LINEE VOCALI?
– Concordo con te, la voce è il punto focale di una canzone. L’abbiamo sempre pensato e crediamo che sia ciò che cattura di più l’ascoltatore e, come hai detto, lo guida. Consideriamo la voce come un filo che attraversa tutta la trama della canzone e collega tutte le parti. Anche se la nostra musica più essere complessa e stratificata, teniamo sempre a mente l’importanza della voce, anche quando registriamo le nostre demo, con le idee dei singoli musicisti.
Per il nuovo album abbiamo speso un’intera settimana lavorando solo sulla voce, creando una sorta di mappa di tutte le linee vocali che Ross avrebbe cantato: abbiamo affittato un posto a Londra e ci siamo chiusi lì quindici ore al giorno lavorando tutti assieme sulle linee vocali, perché anche questo aspetto venisse gestito come band, con un metodo di lavoro molto collaborativo. E’ stato uno dei momenti più importanti dell’intero processo di scrittura dell’album e credo che lo rifaremo ancora in futuro.
GRAZIE, RICHARD, UN’ULTIMA DOMANDA PRIMA DI SALUTARCI: SE DOVESSI SCEGLIERE CINQUE ALBUM DA PORTARE CON TE SULLA CLASSICA ISOLA DESERTA, COSA SCEGLIERESTI?
– Uh, questa è difficile! Ok… Uno dei miei album preferiti da ragazzo era “Terria” di Devin Townsend, che non credo rientri tra quelli universalmente più apprezzati della sua discografia, ma per me ha un’energia unica. Amo tutte le stratificazioni che è riuscito ad inserire in quel disco e se ascolti con attenzione puoi sentire tanti dettagli, come dei cani che abbaiano sullo sfondo e cose del genere. Ha un’atmosfera che sento molto vicina alla mia sensibilità ed è un album che mi mette nostalgia, mi ricorda quando avevo sedici anni.
Poi, restando nell’ambito progressive direi “Scenes From A Memory” dei Dream Theater: è un grandissimo album, la scrittura è impeccabile e mi ha insegnato cosa è possibile fare con solo un piccolo gruppo di musicisti. Sembra che ci sia un’orchestra intera su quel disco e invece sono solo cinque musicisti. Mi ha ispirato molto nella mia crescita come compositore.
Ancora nel progressive direi “Still Life” degli Opeth, con la sua contrapposizione tra passaggi jazzy e acustici, con altri oscuri in stile death metal. Mikael Åkerfeldt ruggisce come un demone… è incredibile!
Ora passiamo invece al jazz: scelgo “Shadow Theater” di Tigran Hamasyan, che è un pianista jazz di origini armene. La sua è quasi musica folk, ma suonata con delle folli poliritmie, suona il piano come un chitarrista suonerebbe un riff, non c’è nessuno come lui.
E infine cambiamo ancora genere e ci spostiamo sull’indie: mi piace molto una band che si chiama Volcano Choir ed in particolare un loro album che si chiama “Repave”. Loro sono un side project di Justin Vernon dei Bon Iver e questo disco ha un’atmosfera unica, con delle tecniche di produzione molto interessanti. Oggi scelgo questi cinque, ma come puoi immaginare domani potrebbero essere cinque completamente diversi!