Ogni tanto capitano dei piccoli imprevisti nella realizzazione delle nostre interviste, come in questo caso, con gli High On Fire, reduci dalla pubblicazione di un album, “Cometh The Storm”, che si candida serenamente ad essere una delle migliori uscite dell’anno, non solo in ambito stoner: inizialmente avremmo dovuto intervistare Matt Pike, leader e fondatore della band, ma arrivata l’ora del nostro incontro siamo venuti a sapere che Matt aveva avuto un imprevisto e pertanto non sarebbe potuto essere presente.
Fortunatamente al suo posto abbiamo potuto dialogare il bassista Jeff Matz, che si è rivelato un interlocutore molto stimolante e che, anzi, ha potuto darci molte informazioni aggiuntive sul suo contributo al nuovo album del trio statunitense. D’altra parte Matz è ormai diventato una parte fondamentale del processo creativo degli High On Fire e, come leggerete, è molto più di un mero esecutore.
A lui la parola.
GRAZIE JEFF PER AVER SOSTITUITO MATT PER QUESTA INTERVISTA, INIZIAMO, OVVIAMENTE, CON “COMETH THE STORM”. QUEST’ALBUM ARRIVA SEI ANNI DOPO “ELECTRIC MESSIAH”, COME MAI CI È VOLUTO COSÌ TANTO? IMMAGINIAMO CHE IN PARTE SIA A CAUSA DELLA PANDEMIA, CHE CI HA FATTO PERDERE TRE ANNI, MA C’È ALTRO?
– Quello è stato sicuramente un grosso problema. Ci sono stati diversi fattori, la pandemia è stata sicuramente una delle cause principali, ma prima di questa il nostro batterista originale, Des Kensel, ha lasciato la band ed è stato un problema per noi cercare qualcuno che potesse sostituirlo. La sua batteria era una parte così fondamentale del suono degli High On Fire, e nel frattempo, abbiamo provato a suonare con un paio di batteristi diversi.
Nel 2019, abbiamo suonato con il nostro amico Nick Parks, che è un batterista fantastico, abita proprio vicino a me: ci ha aiutato per alcuni show e poi abbiamo avuto Chris Maggio, che ha suonato con i Coliseum e un sacco di altre band; ha fatto un tour con noi e ha scritto qualcosa con noi.
Ma è stato quando abbiamo accolto Coady Willis che le cose hanno davvero iniziato a prendere forma per il nuovo materiale che stavamo scrivendo. Lui era il pezzo mancante.
PARLANDO DI COADY WILLIS, HO UNA DOMANDA SU DI LUI: COME È ENTRATO A FAR PARTE DELLA BAND? E COME HA CONTRIBUITO AL NUOVO ALBUM?
– Conosco Coady dal 2000, quando suonavo nei Zeke, e lui suonava nei Murder City Devils a tempo pieno. Abbiamo fatto il nostro primo tour in Europa insieme. Zeke e Murder City Devils condividevano il tour bus in Europa, quindi io e Coady ci conosciamo da molto tempo, e poi Coady ha fondato i Big Business, che a loro volta hanno fatto un tour con gli High On Fire poco prima che io entrassi a far parte della band. Quindi anche Matt lo conosceva da un po’.
Poi, ovviamente, Coady e Jared (Warren, ndr) sono entrati nei Melvins ad un certo punto e gli High On Fire hanno fatto un tour con i Melvins: abbiamo suonato in Nuova Zelanda, Australia e Giappone, e abbiamo anche vissuto due terremoti con quei ragazzi, il terremoto di Christchurch e poi quello di Fukushima! Quindi abbiamo passato molto tempo insieme, anche prima che Coady entrasse a far parte della band.
Stavamo cercando il batterista giusto in grado di integrarsi con il feeling della band e Coady era sicuramente nella mia lista dei batteristi papabili. L’ho visto progredire come musicista nel corso degli anni: era già fantastico quando l’ho conosciuto nei Murder City Devils e l’ho visto crescere esponenzialmente nel corso degli anni.
Quindi l’ho proposto a Matt, gli ho detto “Ehi, cosa ne dici di Coady? Non so nemmeno se sia disponibile, o se vorrebbe farlo, ma forse dovremmo chiederglielo”. Gli ho mandato un messaggio e lui ha risposto che gli sarebbe piaciuto provarci.
Gli High On Fire hanno un vocabolario musicale molto specifico, se vuoi. Ci è voluto un po’ per iniziare a capirci e perché si integrasse, ma stilisticamente e artisticamente, penso che ora si inserisca perfettamente. Non sta cercando di imitare quello che faceva Des, sta portando il suo stile, che si inserisce perfettamente nel modo in cui io e Matt scriviamo e suoniamo insieme. Quindi è stato davvero meraviglioso avere Coady coinvolto, è supercreativo e superdeterminato, suonare con lui è davvero facile ed è stato davvero importante nella composizione di questo album.
COME AVETE SVILUPPATO LA VOSTRA NUOVA MUSICA RISPETTO AD “ELECTRIC MESSIAH”?
– Musicalmente parlando, i nostri album si sviluppano in modo piuttosto organico. Di solito non abbiamo un’idea chiara su come sarà un album, semplicemente iniziamo a scrivere e vediamo cosa esce fuori e quali idee stanno prendendo forma in modo più naturale rispetto ad altre. E cerchiamo di mantenere il tutto equilibrato.
Queste sono solo le canzoni emerse da tutte le nostre improvvisazioni e i nostri riff: io o Matt facciamo molte improvvisazioni in cui ciascuno di noi suona con il batterista, con Coady in questo caso. Lo facciamo perché a volte è più facile far passare le tue idee melodiche e svilupparle quando sei solo tu e un batterista. Poi le condividiamo per un ulteriore sviluppo e per l’arrangiamento finale.
Matt è andato a Los Angeles e ha improvvisato con Coady per circa una settimana, poi sono sceso anch’io lì e ho improvvisato con lui individualmente e, infine, abbiamo fatto venire lui qui a Portland. dove abbiamo suonato tutti e tre insieme. A volte mi capitava di registrare a casa qualcosa sul mio DAW (acronimo di Digital Audio Workstation, un sistema elettronico per la registrazione, il montaggio e la riproduzione dell’audio digitale, ndr), anche solo un riff, allora lo mandavo a Coady, lui scendeva in studio e ci metteva la batteria, poi arrivavo in studio più tardi quel giorno e lo suonavamo insieme in tempo reale.
Insomma, non c’è un metodo fisso con cui scriviamo, dipende molto dalle situazioni.
PARLANDO DEI TESTI DELL’ALBUM, COS’È LA TEMPESTA CHE STA ARRIVANDO? QUALE È IL SIGNIFICATO DIETRO A QUESTO TITOLO?
– Dovrebbe essere Matt a rispondere a questa domanda: per quanto ne so, questa canzone nello specifico è una riflessione sullo stato di disordine in cui si trova il mondo, su tutti i conflitti che ci sono e sulla guerra nucleare o sulla possibilità dell’uso delle armi nucleari. Matt è sconvolto dalla facilità con cui questo argomento viene tirato in ballo, come se fosse una possibilità reale, mentre in realtà quando viene messo in gioco il nucleare, nessuno vince, siamo tutti fottuti.
Penso che sia il suo modo di raccontare lo stato generale di turbamento del mondo e le difficoltà che stiamo affrontando.
ALCUNI ANNI FA, AVETE VINTO UN GRAMMY AWARD. OVVIAMENTE, QUESTO È UN ENORME RICONOSCIMENTO, MA HA INFLUENZATO IN QUALCHE MODO LA CARRIERA DEGLI HIGH ON FIRE? NON SO, AVETE AVUTO UN PICCO DI NOTORIETA’ CHE VI HA PORTATO MAGGIORI ASCOLTI?
– Beh, vincere il Grammy è stata un’esperienza molto strana per noi: non l’avremmo mai ritenuto possibile, per questa band.
Sai, ho sempre considerato gli High On Fire come una realtà piuttosto underground: abbiamo un suono abbastanza ruvido per l’ascoltatore medio, quindi è stato un po’ uno shock essere nominati per un Grammy. Quando siamo arrivati alla cerimonia, eravamo sconvolti quando hanno annunciato il nostro nome: ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti “oh, cazzo, sta davvero succedendo?“. Quindi, sì, è molto strano ma siamo davvero grati di essere stati riconosciuti in quel modo.
Per quanto riguarda il percorso della nostra carriera, non saprei dire se ci sono stati cambiamenti causati dall’aver vinto il premio, suppongo che ci abbia dato un po’ di riconoscibilità in più e per alcune persone è una grande cosa. Di certo non ha davvero cambiato molto il nostro modo di scrivere musica, non ha mai avuto un’influenza su come componiamo. Vedremo una volta che questo album uscirà, se ci sarà un riflesso nelle vendite dell’album o se le presenze ai tour aumenteranno di molto.
Chi lo sa? Voglio dire, onestamente, da quando c’è stata la pandemia, non abbiamo fatto molti tour. Solo qualche data sporadica, perché abbiamo pubblicato “Electric Messiah”, poi abbiamo fatto un breve tour e poi il mondo si è fermato.
GLI HIGH ON FIRE SONO UN TRIO, COME I MOTÖRHEAD, A CUI AVETE DEDICATO “ELECTRIC MESSIAH”. AVETE MAI SENTITO IL BISOGNO O IL DESIDERIO DI AMPLIARE QUESTA FORMAZIONE?
– Ne abbiamo parlato, sai, ma abbiamo abbandonato l’idea. Spesso nei nostri album suono la seconda chitarra, su “Electric Messiah” e sul nuovo album, ad esempio, faccio molto del lavoro della chitarra ritmica. Sarebbe bello poter rappresentare tutto ciò anche dal vivo ma, allo stesso tempo, sento che c’è qualcosa che ottieni con una formazione a tre che è abbastanza speciale, anche solo considerando l’interazione tra i tre individui. Ha funzionato per noi in tutti questi anni.
Sarebbe divertente portare sul palco alcuni musicisti aggiuntivi, un giorno, per ampliare la formazione esistente, ma non prevedo che aggiungeremo mai altri componenti a tempo pieno.
UNA DOMANDA SUL PRODUTTORE DELL’ALBUM. IN CHE MODO KURT BALLOU HA CONTRIBUITO AI LAVORI? È STATO PRINCIPALMENTE UN INGEGNERE DEL SUONO O VI HA AIUTATO ANCHE NELLO SVILUPPO DELLE VOSTRE IDEE E DELLA MUSICA STESSA?
– Quanti album abbiamo fatto con Kurt finora? Penso che questo sia il terzo full-length che abbiamo registrato con lui.
Quando abbiamo iniziato a lavorarci assieme nel 2011, ho avuto l’impressione che il suo approccio fosse molto più simile a quello di un semplice ingegnere, più simile all’approccio di Steve Albini, del tipo: sono qui per documentare ciò che fa questa band e farlo suonare bene.
Ma penso che, oggi, Kurt sia davvero cresciuto nel suo ruolo di produttore: si è davvero imposto e non ha paura di contribuire dandoci il suo parere riguardo gli arrangiamenti delle canzoni, prendendo decisioni, ad esempio su quante volte una certa parte dovrebbe essere ripetuta o se si adatti a quella specifica canzone. Quindi è stato molto utile nel finalizzare alcuni degli arrangiamenti per la musica che abbiamo portato in questo progetto. E siamo sempre felici di ascoltare i suoi suggerimenti perché ha un sacco di buone idee.
IL PRIMO SINGOLO CHE AVETE PUBBLICATO DELL’ALBUM È “BURNING DOWN”. PERCHÉ AVETE SCELTO QUESTA CANZONE SPECIFICA COME PRIMO SINGOLO?
– E’ stato il risultato di una decisione che hai coinvolto più persone. La casa discografica sembrava davvero apprezzarla e anche noi eravamo convinti che fosse una canzone molto interessante. È diversa da tutto ciò che gli High On Fire hanno pubblicato da molto tempo, richiama il sound iniziale della band, il materiale più lento, più stoner, ma ha molteplici nuovi elementi al suo interno. Ed è anche molto divertente da suonare.
Abbiamo pensato che la gente avrebbe davvero apprezzato la novità. L’ultimo singolo che abbiamo pubblicato, “Electric Messiah”, è superveloce, a là Venom, Motorhead, quel tipo di cose. Quindi questo è un po’ un salto nella direzione opposta, come un pendolo che si è spostato nell’altra direzione.
C’È UN ALTRO BRANO MOLTO PARTICOLARE NELL’ALBUM, SI INTITOLA “KARANLIK YOL”. È TURCO, GIUSTO?
– Sì, è turco.
COSA SI NASCONDE DIETRO QUESTO PEZZO? NON SONO SICURO DI SAPERE COSA TU STIA SUONANDO ESATTAMENTE, NON SEMBRA UNA CHITARRA.
– Dal 2006, quando mi sono unito alla band, ho iniziato a sviluppare un vero interesse per la musica folk del Medio Oriente. Il mio coinquilino all’epoca suonava in una band chiamata Secret Chiefs Three e mi ha fatto conoscere una tonnellata di musica incredibile che non avevo mai sentito prima. Mi sono davvero appassionato alla musica folk del Medio Oriente, in particolare alla musica turca.
Quello strumento che vedi appeso dietro di me, il baglama (uno strumento a corde tradizionale turco, chiamato anche saz, ndr), è stata una parte importante del suono in quella composizione. Ho continuato ad ascoltare questa musica nel corso degli anni e ad assorbirne l’influenza nei riff che stavo creando. Ho provato a sperimentare, incorporando alcune di queste influenze tradizionali su “Death Is This Communion”: c’è una canzone chiamata “Conrad’s Wall” che è stato un po’ un tentativo di mischiare questo tipo di musica tradizionale con le cose pesanti che fanno gli High On Fire.
Poi nel 2019 ho sentito che volevo prendere più seriamente lo studio di questo tipo di musica. Così ho trovato un insegnante a Istanbul che faceva lezioni online e ho iniziato con lui. Una volta che è arrivata la pandemia, mi sono trovato con molto tempo a casa per fare cose come studiare musica, giusto? Così ho iniziato a prendere tre o quattro lezioni di baglama alla settimana, con il mio primo insegnante, Ozan, e poi diversi altri insegnanti che ho trovato in Turchia.
E dopo, quando hanno riaperto tutto, sono andato in Turchia un paio di volte, per immergermi completamente e studiare con questi insegnanti faccia a faccia. È stata davvero un’esperienza incredibile per me, musicalmente. Ha avuto un impatto profondo su tutto il mio vocabolario musicale.
Ho sempre avuto questa inclinazione verso questo tipo di suoni, ma apprendere lo stile tradizionale e prendermi il tempo per imparare le melodie folk e le tecniche utilizzate dai maestri è stata un’esperienza davvero fantastica.
Quella canzone in particolare è stato il mio tentativo di comporre un brano nello stile di una danza folk anatolica, in cui poi ho incorporato il basso elettrico, il mellotron e la baglama elettrica. Quindi è stato un esperimento, prendere un pezzo che suonava molto tradizionale e poi fonderlo con la batteria incalzante di Coady e gli elementi heavy psych. Sono contento che sia finita sull’album.
E STAI LAVORANDO ANCHE SU ALTRI PROGETTI AL MOMENTO?
– Io suono anche nei Mutoid Man, con i miei amici, Steve e Ben. E’ molto divertente, sono coinvolto in quel progetto dal 2020. Abbiamo pubblicato un album l’anno scorso ed è stato davvero bello suonare dei concerti con questi ragazzi. Attualmente sto anche sviluppando un paio di progetti paralleli, uno dei quali incorpora pesantemente le influenze turche ed orientali, ma è qualcosa che è ancora in fase di sviluppo.
GLI HIGH ON FIRE SONO UNA BAND CHE SUONA FIN DAGLI ANNI NOVANTA. COME È CAMBIATO IL BUSINESS DELLA MUSICA PER TE IN QUESTI ANNI? OVVIAMENTE TUTTO È CAMBIATO PERCHÉ ABBIAMO INTERNET, SPOTIFY, YOUTUBE E I SOCIAL MEDIA, MA COME HA INFLUITO TUTTO QUESTO SPECIFICAMENTE SUGLI HIGH ON FIRE?
– E’ davvero difficile, ci sono stati così tanti cambiamenti che è difficile metterli tutti insieme.
Suppongo che il modo in cui la musica viene consumata ora sia molto diverso rispetto a quando ho iniziato a fare questo lavoro: tutti i servizi di streaming hanno completamente cambiato le cose: noi non saremmo comunque mai diventati ricchi con le vendite di dischi, penso che quell’aspetto abbia inciso molto di più sulle band più grandi di noi.
Noi siamo sempre stati un po’ come cani randagi, quindi quell’aspetto non è cambiato così tanto: facciamo la nostra musica, improvvisiamo, e poi ci mettiamo in viaggio e la suoniamo per le persone. E questo è tutto.
Certamente ci sono stati così tanti cambiamenti, anche il modo in cui la musica viene promossa ha subìto cambiamenti drastici: ora tutti questi generi metal che una volta erano molto underground sembrano aver raggiunto un pubblico molto più ampio, probabilmente grazie a internet e ai social media.
Per non parlare di come sono cambiate le cose in tour: ricordo di quando dovevamo usare atlanti stradali e indicazioni stampate per i club, e di quando bisognava fermarsi alle cabine telefoniche se non riuscivi a trovare il locale, ora premi un pulsante e il navigatore ti porta lì immediatamente.
CHIUDIAMO CON QUESTA DOMANDA: SE DOVESSI SCEGLIERE CINQUE ALBUM CHE HANNO CAMBIATO LA TUA VITA, QUALI SCEGLIERESTI?
– Oh, ora mi metti proprio in difficoltà! È una domanda davvero difficile. Okay. Ne scelgo solo cinque. E questa non è in alcun modo una lista definitiva!
Dunque: Black Sabbath, “Master of Reality”. Motorhead, “Overkill”. Slayer, “Reign In Blood”. Ornette Coleman, “The Shape Of Jazz To Come”. E vediamo… Seyed Khalil Alinenad, “Aine Mastan”.
Ecco, questi sono stati alcuni album che mi hanno veramente cambiato la vita, ma davvero… cinque album! E’ una lista troppo ridotta.