Immuni a qualsiasi tipo di calo e forti di una discografia ormai piuttosto consistente, gli Hour of Penance si riaffacciano sul mercato con “Cast the First Stone”, ennesimo colpo da novanta in una carriera costellata di successi. Un’opera che è sì la diretta prosecuzione dei vari “Regicide”, “Sedition” e “Paradogma”, ma che non per questo ne ricalca pedissequamente le orme e i propositi, esibendo una sua spiccata personalità e traghettando il gruppo capitolino verso lidi più immediati e melodiosi, pensati appositamente per la dimensione live. La riprova di come, con una buona dose di ingegno e di spirito di iniziativa, sia possibile rinnovare un sound al 100% death metal senza dimenticarsi del proprio background.
DOPO UN DISCO VARIO ED ARTICOLATO COME “REGICIDE”, CON “CAST THE FIRST STONE” SIETE TORNATI SU REGISTRI PIU’ SNELLI E DIRETTI. AVETE IMBOCCATO DELIBERATAMENTE QUESTA STRADA O E’ STATO FRUTTO DEL CASO?
Giulio Moschini: “Frutto del caso direi. Ho cominciato a scrivere ‘Cast the first Stone’ poco prima dell’uscita di ‘Regicide’, e alcune canzoni erano pronte già dal 2015; non avevamo in mente idee particolari, come per tutti gli altri dischi è stato un percorso molto spontaneo. Ci piace dare ai nostri album un carattere particolare che sia diverso da quello dei precedenti, sia a livello musicale che tematico. Alcuni brani sono molto più diretti, mentre in altri si ravvisa una forte impronta old school, soprattutto a livello di strutture. Stiamo cercando di abbandonare la tendenza ad infarcire le canzoni di riff: più qualità che quantità. Andiamo un po’ controcorrente rispetto alle maggior parte delle uscite di oggi”.
PENSO SIA ANCHE IL VOSTRO ALBUM PIU’ EPICO E MELODICO…
Giulio: “Sì, abbiamo giocato molto di più con la melodia. In alcune canzoni, come ad esempio ‘Shroud of Ashes’, le chitarre seguono due linee melodiche completamente diverse, mentre Paolo ha inserito delle parti di tastiera qua e là senza esagerare. Penso che le melodie diano ancora più carattere alle canzoni (a questo proposito citerei anche la titletrack), oltre a conferire un’atmosfera epica al disco”.
E’ CORRETTO PARLARE DI “CAST THE FIRST STONE” COME DI UN CONCEPT ALBUM? QUAL E’ IL LEITMOTIV DEI TESTI?
Paolo Pieri: “Le tematiche del disco affrontano il conflitto tra religioni e tra ragione e religione. Negli ultimi tre secoli l’Occidente ha subito un radicale processo di laicizzazione iniziato con l’illuminismo, mentre il Medio Oriente, che nel dopoguerra aveva anch’esso iniziato un importante processo di secolarizzazione, è tornato a radicalizzarsi grazie agli interventi disastrosi in politica estera degli Stati Uniti con la connivenza dei governi europei. Il fondamentalismo è alla base del conflitto tra Islam radicale e Occidente, con il serio rischio di un nuovo conflitto di culture e di valori, e il ritorno di termini come ‘crociate’ e ‘infedeli’ che credevamo appartenessero al Medioevo più buio. Nei testi ho cercato di descrivere cosa potrebbe accadere se anche noi dimenticassimo la lezione del laicismo e in preda alla paura iniziassimo a ragionare come loro, scatenando nuove guerre sante, invece di farci forza dei nostri valori di libertà, pace e tolleranza”.
“CAST THE FIRST STONE” SEGNA UFFICIALMENTE L’INGRESSO DAVIDE BILLIA ALLA BATTERIA. COME SIETE ARRIVATI A LUI? QUALI ELEMENTI DI NOVITA’ PENSATE ABBIA APPORTATO AL VOSTRO SOUND?
Giulio: “Siamo in contatto con Davide da molti anni, già nel 2009 ci eravamo sentiti per un tour, ma per motivi organizzativi e per il fatto che all’epoca aveva altri impegni musicali non eravamo riusciti a concretizzare la cosa. Ha il nostro stesso background, e questo facilita di molto le cose, soprattutto in sede di composizione. E’ un batterista di grande esperienza e tecnica: oltre a riscrivere completamente le parti secondo il suo stile, per alcuni pezzi è riuscito a modificare la struttura che avevo registrato a casa senza far perdere il senso generale della canzone. Una vera marcia in più per gli Hour of Penance”.
PER LA PRIMA VOLTA DOPO MOLTI ANNI, NON VI SIETE AVVALSI DEI SERVIGI DI STEFANO MORABITO IN CABINA DI REGIA. COM’E’ STATO FARE TUTTO DA SOLI? RIPETERETE L’ESPERIENZA IN FUTURO? E SOPRATTUTTO, NON AVETE MAI PENSATO DI COLLABORARE CON QUALCHE BIG DEL SETTORE? AD ESEMPIO UN ERIK RUTAN…
Giulio: “Dobbiamo molto a Stefano Morabito, come lo devono almeno i tre quarti della scena italiana di oggi, ma non capita tutti i giorni di avere un bassista che è anche un grande produttore. Marco ha un ottimo studio di registrazione, e il fatto di poter contare su una persona all’interno del gruppo con delle notevoli capacità a livello tecnico ci ha permesso di osare un po’ di più. Ci siamo presi una pausa dai live proprio per concentrarci sulle registrazioni. Già nell’estate 2015 il disco era praticamente scritto, quindi ci siamo chiusi in studio con Marco per fare delle prove con diversi amplificatori e microfoni, registrando una demo di ’21st Century Imperial Crusade’; quello è stata il punto di partenza per una discussione più ampia su come il disco avrebbe dovuto suonare. Verso marzo 2016 abbiamo completato l’opera, provando letteralmente centinaia di combinazioni di microfoni, amplificatori, chitarre, pedali, pre-amp e spendendo tutta l’estate a fare diverse prove di mix e master. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza Marco o se ci fossimo affidati ad un altro studio. Per noi è stata un esperienza più che gratificante: ci siamo posti degli obiettivi e li abbiamo raggiunti, rimanendo assolutamente soddisfatti del risultato. Tornando all’altra domanda, sinceramente lavorare con un big non mi dispiacerebbe affatto, sopratutto con Erik Rutan, ma purtroppo sia la lontananza che il budget rendono le cose abbastanza difficili”.
Marco Mastrobuono: “Stefano è un grande professionista e nel corso degli anni ha svolto dei lavori incredibili, soprattutto con gli Hour of Penance. Quando Giulio mi chiese di occuparmi della produzione di ‘Cast the First Stone’ fu sicuramente una grande responsabilità. Ad ogni modo, una volta sentiti i primi brani, capii in che modo avrebbe dovuto suonare il disco, spingendo tutto il resto in quella direzione. La cosa più impegnativa è stata sicuramente la batteria, per la quale abbiamo cercato di mantenere un suono quasi completamente acustico senza avere un effetto ‘demo’. Non potrei essere più soddisfatto del risultato finale.
“CAST THE FIRST STONE” ESCE NUOVAMENTE SU PROSTHETIC RECORDS: COME VANNO LE COSE CON L’ETICHETTA? PARLIAMO DEL CONTRATTO PIU’ DURATURO DELLA VOSTRA CARRIERA…
Giulio: “Per ora abbastanza bene, anche se da contratto questo dovrebbe essere l’ultimo disco per loro. Siamo contenti del lavoro svolto finora, soprattutto se ripenso alla mano che ci diedero anni fa, durante i tour americani con Nile e Cannibal Corpse. E’ un etichetta molto forte negli Stati Uniti, meno in Europa sfortunatamente, dove avremmo bisogno di più promozione. In futuro ci piacerebbe intraprendere la via dell’autoproduzione-promozione; per molti gruppi ha funzionato, e il fatto di gestire la band a 360 gradi è un idea che ci piace molto”.
COME SEMPRE, VI SIETE PRESENTATI CON UN ARTWORK AFFATTO BANALE…
Paolo: “L’artwork è stato disegnato come sempre da Gyula Havancsak, che ha dato vita alla sua visione in base alle tematiche trattate nei testi. Rappresenta appunto lo scontro tra Occidente e Oriente, con la falce che miete le anime dei caduti a sottolineare l’inutilità della guerra che non lascia niente dietro di sé”.
DOPO TUTTI QUESTI ANNI DI CARRIERA, SOTTO QUALI ASPETTI CREDETE DI POTER MIGLIORARE ANCORA? CI SONO SODDISFAZIONI CHE NON VI SIETE ANCORA TOLTI COME BAND?
Paolo: “Nella musica come in ogni altra cosa, non si smette mai di crescere ed imparare, e pur proponendo metal estremo credo che in ogni nostro disco ci sia qualcosa di differente, qualche piccolo accorgimento in più nei riff e negli arrangiamenti che faccia la differenza. Sinceramente sono molto soddisfatto del nostro percorso, abbiamo viaggiato in tutto il mondo, anche in compagnia di band storiche con le quali sin da adolescenti siamo cresciuti. Abbiamo sempre fatto molti sacrifici dal punto di vista delle comodità per tornare a casa con un buon guadagno, ma ne è valsa decisamente la pena”.
Marco: “Credo che ‘Cast the First Stone’ indichi una sorta di nuova direzione alla band. Ci siamo soffermati su degli aspetti che prima non avevano goduto di molto spazio, inoltre abbiamo partecipato tutti alla scrittura dei brani (sebbene le prime bozze siano sempre state opera di Giulio). Questo a mio avviso ha dato origine ad un lavoro estremamente maturo e diretto, che non credo che deluderà gli ascoltatori”.
TORNANDO A “REGICIDE”, CREDO CHE TRA TUTTI I VOSTRI LAVORI POST-“THE VILE CONCEPTION” SIA STATO QUELLO MENO COMPRESO E CELEBRATO… COME VE LO SPIEGATE?
Paolo: “Non saprei dirtelo. Dal punto di vista delle canzoni, probabilmente è il nostro album che più preferisco, ma nonostante abbia ricevuto un’ottima accoglienza dalla critica ho notato anch’io che molti fan preferiscono gli altri lavori. E’ un disco più complesso da assimilare, che necessita di diversi ascolti per entrarci dentro. E’ meno immediato e forse questo lo ha un po’ penalizzato”.
Giulio: “Per quel disco abbiamo sperimentato soluzioni lontane dal nostro stile e cambiato approccio in sede di registrazione. Sicuramente è un’opera che si assimila in più tempo. Mettiamoci anche che l’utente medio di oggi ascolta la musica su YouTube o Spotify, non facendo neanche caso all’ordine delle canzoni… ascoltare i brani qua e là, senza mettere play dalla prima all’ultima traccia, fa perdere il feeling generale dell’album. In più è difficile presentare qualcosa di diverso ai propri fan: tutti si aspettano sempre un ‘The Vile Conception pt.2’, ma non accadrà mai, non ci piace ripeterci”.
OLTRE ALLE DATE ITALIANE GIA’ ANNUNCIATE, AVETE IN MENTE QUALCHE TOUR EUROPEO E/O STATUNITENSE A SUPPORTO DEL DISCO?
Giulio: “Per ora nessun tour, abbiamo in mente di promuovere il disco con date singole da headliner. Questo ci permette di coprire più paesi durante l’anno e di suonare anche in posti dove normalmente i tour non passano. Abbiamo da poco tenuto un concerto ad Atene, e nei prossimi mesi suoneremo in Macedonia, Romania, Norvegia, Svezia, Portogallo, Inghilterra e ovviamente in Italia… praticamente è come se fosse un tour europeo”.
COSA CAMBIERESTE DEL PANORAMA (DEATH) METAL CONTEMPORANEO?
Giulio: “Manderei in pensione molti gruppi di vecchia data… senza fare nomi, basta ascoltare alcuni dischi per capire di chi parlo. Ci sono tanti gruppi ‘giovani’ che meriterebbero di più al momento. Un’altra cosa che cambierei sono i fan, ma questo è più un problema che va a braccetto con il discorso Internet: tutti sentono il dovere di commentare al giorno d’oggi, chi si sveglia la mattina e improvvisamente si sente recensore, chi addirittura si mette a criticare le produzioni senza aver mai messo piede in uno studio, e via dicendo”.
TRATTANDOSI DI UNA DELLE VOSTRE PRINCIPALI INFLUENZE, COSA NE PENSATE DELLA REUNION TRA STEVE TUCKER E TREY AZAGTHOTH DEI MORBID ANGEL? ASPETTATIVE SUL NUOVO DISCO?
Giulio: “Sono contentissimo, sinceramente dopo ‘Illud Divinum Insanus’ mi andrebbe bene qualsiasi cosa per rimediare al danno! Spero in un bel disco comunque, l’ultimo dei Warfather mi è piaciuto molto e Steve Tucker è uno dei miei cantanti-frontman preferiti”.