Da quasi un quarto di secolo, ovvero dai tempi di “Clayman”, gli In Flames dividono le opinioni come pochi, tra chi ne apprezza la svolta sempre più moderna / americana e chi invece rimpiange i primi lavori degli anni Novanta. Il capitolo aperto con l’uscita di Strömblad, cui hanno fatto seguito tutti gli altri a parte il leader maximo Fridén e il sodale Gelotte, ha ulteriormente allontanato i fan più nostalgici, recentemente accontentati dalla nascita dei The Halo Effect (circolo dopolavoro degli ex In Flames, compreso quello Stanne all’epoca al microfono nell’esordio “Lunar Strain”): non stupisce dunque che quest’ultimo “Foregone”, per chi scrive perfetto equilibrio tra vecchio e nuovo corso, abbia ancora una volta diviso gli animi tra chi plaude il recupero delle sonorità d’inizio secolo e chi invece ci sente una tardiva risposta ai sopra citati ex membri. L’impressione che ci siamo fatti, parlandone con il cantante e dopo aver saggiato a dicembre la nuova line-up, è che qualcosa sia cambiato dopo lo stop pandemico, e per quanto ci riguarda la politica del ‘due passi avanti e uno indietro’ non può che farci piacere. Detto questo, a voi il resoconto di mezz’ora a tutto tondo con Fridén, dai compagni di tour a progetti paralleli vecchi e nuovi…
“FOREGONE” SUONA UN PO’ COME UN RITORNO ALLE ORIGINI: UNA SCELTA MATURATA DURANTE LA PANDEMIA?
– Non lo definirei un vero ritorno al passato, per il semplice fatto che le nostre origini sono quelle che ci hanno portato fino a qui nel corso degli anni: amo profondamente tutto ciò che abbiamo fatto e che faremo in futuro, quindi per me non ha senso ‘rinnegare’ quanto fatto né ‘ritornare’ sui nostri passi. Detto questo eravamo da poco partiti con il tour di “I, The Mask” quando il Covid ci ha costretto a interrompere tutto, riportandoci a casa e facendoci vedere il mondo da una prospettiva diversa: sicuramente avevamo molta energia dentro di noi da sfogare, ma al tempo stesso non è stata una direzione precisa quella di rievocare un periodo particolare della nostra discografia. Quello che ci siamo detti con Björn è stato di fare il migliore album possibile, portando stavolta le chitarre e la batteria un po’ più in evidenza nel mix. Credo quest’album rappresenti al meglio quello che da sempre è il trademark degli In Flames, ovvero un mix di melodia e aggressione sonora.
CHE E’ SUCCESSO A NICLAS ENGELIN (EX CHITARRISTA DELLA BAND, NDR)? E COME SIETE ARRIVATI A CHRIS BRODERICK?
– Non so dire con certezza cosa sia successo a Niclas, se non che subito prima di partire per il tour di “I, The Mask” negli Stati Uniti ci ha scritto dicendo che non poteva venire con noi perchè era in ospedale, anche se non sono bene per quale motivo, forse un esaurimento? Non volevamo comunque perdere il tour né ci piaceva l’idea di suonare con una chitarra soltanto dal vivo, quindi pensando a chi conoscevamo negli Stati Uniti ci è venuto in mente il nome di Chris, che conosciamo da vent’anni e con cui abbiamo suonato insieme quando era nei Jag Panzer. Per fortuna in quel momento era libero, quindi ha dovuto imparare qualcosa come venti pezzi in poche ora ma ce l’ha fatta, e sia a livello umano che musicale c’è stata da subito un’intesa perfetta con Björn e gli altri ragazzi della band, quindi non potremmo essere più contenti.
SIETE PASSATI A MILANO DUE MESI PRIMA DELL’USCITA DEL NUOVO ALBUM: QUANTO DOVREMO ASPETTARE PER SENTIRE I NUOVI PEZZI DAL VIVO?
– Al momento abbiamo confermato soltanto degli slot nei festival, quindi è ancora presto per dirlo, ma non vediamo l’ora di poter portare a tutti i nostri fan italiani “Foregone”.
NEL RECENTE TOUR HAI DETTO PARLANDO AI FAN “NON VI DAREMO PIU’ PER SCONTATI”…
– Sì, per una band con una storia come la nostra è abbastanza naturale entrare nel loop ‘album/tour’ ed aspettarsi che i fan ascoltino il disco, vengano a vederti, comprino il tuo merch, eccetera. La pandemia invece ci ha portato in una situazione in cui non dipendeva più da noi, come se fossimo stati costretti a dover ‘mollare’ contro la nostra volontà. Per questo da quando tutto è ripartito voglio vivere ogni show non dico come se fosse l’ultimo della mia vita, ma comunque come un’occasione speciale in cui dare tutto per i fan, senza pensare a quello che succederà il giorno dopo o vivere il concerto come una routine.
DOPO GLI AT THE GATES, VI VEDREMO UN GIORNO IN TOUR CON I THE HALO EFFECT?
– (Ci pensa, ndr) Non ne ho idea. Sono ancora all’inizio della loro carriera quindi vedremo anche come si muoveranno sul fronte live, comunque mai dire mai. Di sicuro vogliamo avere un bill di cui siamo i primi ad essere convinti: nel caso degli At The Gates ci conosciamo da quando eravamo giovani ma era da tanto che non suonavamo insieme, quindi è stato fantastico poterli portare in giro con noi, affiancando a due formazioni ‘storiche’ come noi e loro anche delle band forse non ‘nuove’ in senso assoluto ma comunque più giovani come Imminence ed Orbit Culture.
LA PRODUZIONE E’ ANCORA UNA VOLTA AFFIDATA AD HOWARD BENSON, CON CUI AVETE INIZIATO A COLLABORARE CON IL CONTROVERSO “BATTLES”: VISTO IL CAMBIO DI SONORITA’, NON AVETE VALUTATO UN ALTRO PRODUTTORE?
– Negli ultimi tre dischi abbiamo sempre lavorato con Howard Benson ma credo suonino tutti in modo differente soprattutto a livello di mixing. In questo caso ad occuparsene è stato Joe Rickard (che per qualche tempo è stato nostro batterista), ed abbiamo lavorato fianco a fianco con lui durante il mixaggio per avere un suono più ‘guitar oriented’. Il ruolo del produttore è quello di tirare fuori il meglio da noi musicisti quando registriamo, ma per il resto non è lui a dettare la linea musicale.
“A DIALOGUE IN B FLAT MINOR” DAL TITOLO SEMBRA UNA STRUMENTALE: ERA UN TITOLO PROVVISORIO?
– No, è il vero titolo che avevo in mente. La canzone fa riferimento ad una conversazione nella mente di una persona sola, in una situazione d’isolamento come può essere il Covid, che si trova a parlare con un fantasma nella sua testa, e questo dialogo avviene appunto in Si Bemolle Minore.
CI SONO ANCHE RIFERIMENTI ALL’ATTUALITA’, AD ESEMPIO IN “STATE OF SLOW DECAY”…
– Sì, direi che a differenza degli ultimi album che erano più introspettivi in questo caso il mio è più uno sguardo al mondo esterno, e purtroppo non è una vista positiva. Tra la pandemia e la situazione in Ucraina c’è veramente tanta negatività in questi anni, e il fatto che ci siano guerre di questo genere al giorno d’oggi è veramente anacronistico. Abbiamo suonato tante volte in Ucraina così come in Russia e ho sempre trovato ai nostri show gente fantastica, piena di voglia di vivere, quindi quello che sta succedendo ora non ha proprio senso.
COSA CI PUOI DIRE INVECE DI “END THE TRANSMISSION”?
– L’ordine dei pezzi in scaletta evidentemente non è casuale: si comincia con “The Beginning Of All Things” e si finisce appunto con “End The Transmission”, che vuole rappresentare in qualche modo la fine di tutto oltre che dell’album, quasi una sorta di giudizio universale. Quando canto “Hell is overcrowded and heaven’s full of sinners” intendo dire questo, che nessuno di noi è buono o cattivo al 100%, c’è sempre qualche sfumatura da una parte o dall’altra.
L’ANNO PROSSIMO SARA’ IL VOSTRO TRENTESIMO ANNIVERSARIO DISCOGRAFICO: ASPETTATE I CINQUANTA PER FESTEGGIARE?
– Non abbiamo nulla di pianificato, se non continuare con la nostra musica perché personalmente non sono particolarmente nostalgico ma mi piace piuttosto guardare avanti, anche se non sarà facile andare avanti così a lungo (risate, ndr).
NESSUNA CELEBRAZIONE NEMMENO PER I PASSENGER (SIDE PROJECT DEL 2003, NDR), A VENT’ANNI ESATTI DAL VOSTRO ESORDIO?
– No, è passato davvero tanto tempo dall’ultima volta che abbiamo suonato insieme. E’ stato divertente registrare quel disco e suonare in tour al di fuori degli In Flames, ma anche questo è un capitolo che ormai appartiene al passato e non credo faremo nulla al riguardo.
GUARDANDO ALLORA AVANTI, COSA PUOI DIRCI DEGLI IF ANYTHING, SUSPICIOUS (SIDE PROJECT ELECTRO-AMBIENT, NDR)?
– Innanzitutto si tratta di un progetto solista, quindi ho potuto gestirlo con molta più tranquillità senza dover rendere conto a nessuno. Mi piacerebbe portarlo in tour ma non sarà facile, dato che non vorrei essere da solo sul palco a far andare una base, e per riprodurre tutti i suoni presenti sul disco avrei bisogno di almeno sette persone. L’ideale sarebbe poter fare uno show particolare al chiaro di luna, ma nel caso sarebbe più un evento speciale che un concerto vero e proprio.
SEI SEMPRE STATO UN FAN DELLA MUSICA ELETTRONICA?
– Amo i Depeche Mode da quando avevo dieci anni, ma sicuramente l’isolamento pandemico mi ha ‘costretto’ ad inventarmi questo passatempo altrimenti sarei impazzito. Così ho costruito il mio studio casalingo e ho iniziato a fare più sul serio: finora avevo composto qualcosa ma non era mai uscita dal mio computer, mentre stavolta parlando con i fan e il management mi hanno convinto a pubblicarlo come progetto solista.
CHI SONO I TUOI RIFERIMENTI IN QUESTO GENERE?
– Oltre ai Depeche Mode mi piacciono molto i Nine Inch Nails o Kraftwerk tra quelle più conosciute, ma anche diverse band electro-ambient come ad esempio i Biosphere. E’ un po’ come quando tanti anni fa scoprii per la prima volta il death metal svedese, comprando un sacco di vinili: anche in questo caso mi si è aperto un mondo e non puoi limitarti ad ascoltare trenta secondi ma devi gustarti tutto l’album, meglio ancora se in formato fisico. C’è un negozio qui a Stoccolma davvero fornito in fatto di musica techno/ambient/alternative, quindi quando vado compro una decina di vinili alla volta e poi me li ascolto con calma, magari con un bel bicchiere di whisky.
COSA RAPPRESENTA PER TE IL ‘CLAYMAN’ (TITOLO DELL’OMONIMO ALBUM DI FINE ANNI NOVANTA E BRAND DI ABBIGLIAMENTO GESTITO DA FRIDEN STESSO, NdA)?
– Ovviamente sono (anzi, ero) io, nel senso di qualcuno che si adatta alle situazioni in cui si trova per una forma d’insicurezza, così da compiacere gli altri. Non penso di essere più quel tipo di persona, avendo acquisito maggiore maturità con gli anni, ma come nome per una linea di abbigliamento suonava bene, e comunque è un titolo che ha significato tanto per me.
QUAL E’ STATO IL MOMENTO IN CUI HAI REALIZZATO DI ‘AVERCELA FATTA’?
– E’ stato un processo molto graduale, ma credo che a fine anni Novanta abbiamo iniziato a realizzare di poter fare questo nella vita. Non guadagnavamo tanto all’epoca, ma la passione è sempre stata quella che ci ha guidato quindi anche se stavo in un piccolo appartamento non ho mai avuto un piano B. Col tempo siamo diventati un po’ più famosi, ma anche oggi non riesco a vederlo come un vero e proprio lavoro quanto come una passione gestita a livello professionale: non c’è nessuno che ci dice quando far uscire un disco o andare in tour, ma siamo noi due a decidere i tempi e cosa fare, anche se ovviamente abbiamo qualcuno che ci aiuta ad organizzare il tutto nel modo migliore. Tornando al punto di prima non so quanto ancora potremo andare avanti, ma finché ci sarà questa passione a guidarci non abbiamo nessuna intenzione di fermarci, perché la musica per noi è al centro delle nostre vite.
IL TUO CANE SI CHIAMA FONZIE: SEI UN FAN DI HAPPY DAYS?
– Sì, ho due cani, Fonzie e Lexi: il primo, più giovane, è ovviamente riferito al protagonista di Happy Days, mentre il secondo ormai ha quasi diciotto anni.