La scena hardcore-metal italiana si conferma un piccolo crogiuolo di talenti e di realtà che poco o nulla hanno da invidiare a quelle provenienti dagli Stati Uniti e dal Nord Europa. Una visione delle cose che, senza scadere nel campanilismo acritico, trova conferma delle proprie certezze (anche) nella carriera degli Infall, partita dalle nebbie della provincia piemontese alla volta di traguardi internazionali di un certo peso, tanto da essere riuscita a coinvolgere nomi di professionisti come Kurt Ballou e Alan Douches. “Far”, il secondo full-length del quartetto, è stato da poco licenziato da una vera e propria cordata di etichette underground, e nel suo dipanarsi nervoso e scomposto ha saputo rinverdire i fasti di una scena tanto seminale quanto ostica da interpretare con il giusto equilibrio, ricordandoci le migliori imprese di Breach, Converge, The Dillinger Escape Plan e compagnia ‘post-’ hardcore di fine anni Novanta/inizio anni Duemila. Un’opera curatissima e pressoché irrinunciabile per fan e nostalgici di quel periodo, che ci ha spinto a contattare i Nostri (qui rappresentati da Alessio e Michele, rispettivamente voce e chitarra) per un opportuno approfondimento…
BENVENUTI SULLE PAGINE DI METALITALIA.COM. PRIMA DI PARLARE DEL NUOVO DISCO, MI PIACEREBBE RIPERCORRERE INSIEME A VOI LA STORIA E LA GENESI DEL PROGETTO INFALL…
Alessio: – Buongiorno, e grazie a voi per l’ospitalità! Gli Infall nascono nel 2014 da un’idea di Alessio Santagata (voce) e Lorenzo Guglielmi (batteria), alla disperata ricerca di un chitarrista con cui far partire un progetto in stile The Dillinger Escape Plan, Converge e simili. Disperata, principalmente, per la situazione che versa nelle province di Novara e Verbania: il nulla cosmico. Da lì, dopo qualche mese, li raggiunge Michele Roverselli (chitarra) e, successivamente, Francesco Spanò (basso). Non avendo esperienze precedenti con il genere, il progetto rimane chiuso in sala prove fino a gennaio 2015. Da qui, la storia prosegue con un’attività live non particolarmente intensa e con la pubblicazione del primo EP “Nitecomes” (siamo a fine 2015); a quel punto, il gruppo si ritira dall’attività live per quasi un anno e si concentra sul completamento del primo album, “Silent”. Il disco esce a fine 2017, e da lì la vita della band cambia: si intensifica l’attività live, arrivano le prime date all’estero e, finalmente, anche i primi festival fuori dall’Italia. I due anni di pandemia sono stati colmati dal remix di “Silent” (con guest molto interessanti) e da un live in studio per un festival online sudamericano, seguiti da altri festival ‘fisici’ in Italia e fuori. In definitiva, quella degli Infall è la storia di quattro ragazzi che, prima della formazione del gruppo, nemmeno si conoscevano, e che dopo quasi otto anni mantengono la formazione originale in un legame musicale ed umano indissolubile.
IN QUESTI CINQUE ANNI DI RELATIVO SILENZIO, QUALI OBIETTIVI VI ERAVATE PREPOSTI DI RAGGIUNGERE CON “FAR” RISPETTO AL VOSTRO ESORDIO “SILENT”?
Alessio: – Non abbiamo mai avuto paura di fermarci per tornare in laboratorio (la sala prove), mossi da un forte spirito di autocritica. Dopo “Nitecomes”, la pausa è servita a fare un salto di qualità per potercela giocare a livello nazionale, in termini di esecuzione, preparazione e composizione. “Silent”, in questo senso, è servito a darci una consapevolezza che prima non avevamo, ma le decine di date di questi anni hanno ridefinito le nostre ambizioni e ciò che volevamo fosse il progetto Infall, anche sul lato artistico. “Far” è l’album dell’identità, un nuovo punto di partenza su quello che vorremmo fosse il nostro secondo salto di qualità. Gli obiettivi sono una diretta conseguenza.
LA PANDEMIA HA IN QUALCHE MODO INFLUENZATO LA GESTAZIONE DELL’ALBUM?
Alessio: – La pandemia ha innanzitutto arrestato il crescendo avuto da gennaio 2018 a marzo 2020. Purtroppo, ci ha costretto ad annullare un mini-tour in Russia e a posticipare un paio di festival all’estero. Per quanto riguarda la scrittura, siamo una band che prima di entrare in studio ha bisogno di diversi mesi per provare i pezzi e trovare il giusto equilibrio, perché abbiamo sempre l’ambizione di ‘performarli’, e non solo di suonarli. Quindi sì, considerando che la composizione di “Far” è terminata a luglio 2020, siamo stati pronti ad entrare in studio solo a luglio 2021, tra un lockdown e l’altro.
SO CHE “FAR” SEGUE UN CONCEPT BEN PRECISO; VI ANDREBBE DI APPROFONDIRE IL CONTENUTO DEI TESTI?
Alessio: – I testi di “Far” possono essere visti come una specie di ‘diario’, e sono tutti opera di Miky. Questo anche per mantenere una prospettiva individuale ed univoca della tematica principale, ovvero la distanza. L’album comincia proprio dal testo che ha generato il concept, quello di “Check Pulse”. La canzone parla di un parente molto caro che è costretto a spegnersi in seguito ad una lunga terapia del dolore, la quale lo rende sempre più incosciente, lontano, slegato. Il gesto di tenergli la mano rievoca la necessità di stargli vicino, quasi a voler rincorrere l’inesorabile destino che ci mette di fronte alla consapevolezza che ‘siamo universi infinitamente separati, che si toccano, che si tangono, ma mai in alcun modo vicini’. Da questa prospettiva intimista, l’album narra fatti di cronaca locale e internazionale, sempre visti dalla prospettiva dell’individuo, in un contesto dove la vita degli altri perde ogni giorno il suo valore. Soprattutto la vita di chi non si conosce. Ancor di più, la vita di chi ci è lontano a livello culturale, religioso o sociale. Quindi, in successione, troviamo le vite infrante del piccolo Matteo, 18 mesi, ucciso a pugni dal padre tossicodipendente a Novara (“Not Even a Scratch”), o delle vittime della missione militare Peace Spring, condotta dalla Turchia in Siria, dimenticata e passata sottotraccia (“Spring Peace”). L’album termina in maniera circolare, con la storia locale di un uomo che, dopo aver perso la moglie per una brutta malattia, comincia a viaggiare cercando di colmare il vuoto. Questo viaggio, tuttavia, lo porterà alla consapevolezza di non poter più vivere. In definitiva, sebbene le persone siano infinitamente distanti, perdere qualcuno di estremamente caro a cui è legata la propria vita può svuotare completamente di significato l’individuo, rendendolo infinitamente distante da se stesso.
VISTA LA COMPLESSITÀ DELLA PROPOSTA, COME NASCE SOLITAMENTE UN VOSTRO BRANO? DA COSA PARTITE? UNA MELODIA, UN RIFF, UNA RITMICA…
Alessio: – Le canzoni nascono quasi tutte da jam session, a parte rari casi (“Triumphant March” e “Man Down”). A partire da idee collettive, i pezzi vengono poi finiti da Miky, che scrive le bozze per tutti gli strumenti. A quel punto i pezzi rientrano in sala prove, dove le parti vengono riviste dai componenti (specie la batteria). Le voci, invece, vengono composte direttamente in pre-produzione, basandosi sulle metriche del testo. In questa fase, tutti i componenti influiscono sul processo di composizione, anche per mettere in risalto la parte strumentale sottostante. Segue una lunga fase di rodaggio, in cui vengono studiati gli arrangiamenti, che porta poi alla sessione in studio.
LA RESA SONORA DEL DISCO È ECCELLENTE, E NON A CASO VEDE IL COINVOLGIMENTO DI DUE FIGURE DEL CALIBRO DI KURT BALLOU E ALAN DOUCHES. SUONERÀ BANALE, MA PERCHÉ PROPRIO LORO? COME SI È SVOLTO IL PROCESSO DI REGISTRAZIONE E PRODUZIONE?
Michele: – La scelta di chiedere a Kurt Ballou è stata dettata dalla volontà di confrontarsi con il ‘padre’ del sound a cui apparteniamo, insieme a centinaia di altre band più o meno conosciute. Kurt ha accettato di buon grado, e si è dimostrato una persona molto disponibile, spendendo anche buone parole sui pezzi, sull’esecuzione e sulla fase di produzione. Alan Douches è quasi una conseguenza della filiera, poiché ci avevamo già lavorato per “Silent” e ci è stato nuovamente consigliato da Ballou per il mastering. A sua volta, la collaborazione con Enrico Baraldi al Vacuum Studio di Bologna è stata un’esperienza molto interessante, anche perché non ha seguito una metodologia classica per questo genere di produzioni. Enrico è molto votato ad una soluzione ‘zero editing’ e ‘zero trigger’, più comune per progetti sludge, doom e ‘post-’. Ma, in fondo, è esattamente l’approccio che noi preferiamo durante la registrazione. La leggera imperfezione è lo specchio dell’essere umano, e anche se all’orecchio dell’ascoltatore medio potrà sembrare un’esecuzione leggermente più imprecisa, sicuramente quello che traspare è una maggiore dinamica ed interpretazione, che editando, triggerando, processando etc. si perderebbe e farebbe suonare l’album esattamente come mille altri. Poi il Vacuum ha una stanza che suona da dio, e ci piace molto che nell’album si percepisca anche ‘dove’ sia stato registrato. Rende sicuramente l’esperienza più immersiva!
IL VOSTRO SUONO SEMBRA RIPORTARE LE LANCETTE DELL’OROLOGIO INDIETRO DI VENT’ANNI E AGLI EXPLOIT DI GRUPPI COME BOTCH, CONVERGE, NORMA JEAN E THE DILLINGER ESCAPE PLAN. COSA VI AFFASCINA DI QUEL PARTICOLARE MODO DI INTENDERE IL METALCORE? QUALI SONO LE OPERE CHE PIÙ HANNO SEGNATO IL VOSTRO PERCORSO MUSICALE?
Michele: – Se per suono intendiamo la produzione, come detto sopra, il fatto che ricordi i classici di fine ’90 ed inizio 2000 è dettato da un metodo di registrazione che ai tempi si usava, e che oggi è stato sostituito dall’editing compulsivo. Tuttavia, crediamo che a livello di suoni sia una produzione molto moderna. A livello stilistico, sicuramente Converge, Snapcase, The Dillinger Escape Plan, Coliseum ed Helmet sono gruppi che ci accompagnano come influenze sin dall’inizio del progetto. “Far”, in realtà, è anche frutto di un forte orientamento grindcore, che però (volutamente) non si è tradotto in un’adesione al genere. Parliamo di Dead In The Dirt, Magrudergrind, Bandit e (per forza di cose) Nasum. Ci sono anche tante influenze che derivano dal hardcore-metal nordeuropeo, soprattutto per quanto concerne la chitarra. I titoli della svolta sono bene o male i soliti: “Jane Doe” e “You Fail Me” dei Converge, “Calculating Infinity” dei The Dillinger Escape Plan e “Progression Through Unlearning” degli Snapcase, ma ci sentiamo di aggiungere anche “The Blind Hole” dei Dead In The Dirt, che nella nostra testa è stato un punto di svolta (peccato solo averli conosciuti tardi!).
A PROPOSITO DI BOTCH, COME AVETE REAGITO ALLA NOTIZIA DELLA LORO REUNION?
Michele: – Sicuramente la notizia ci ha emozionato molto, anche perché sono un gruppo seminale da cui è nato un po’ tutto. I componenti non si sono mai fermati, a dire il vero, per cui fa quasi strano che abbiano ritrovato solo oggi la voglia di suonare insieme. Meglio tardi che mai! Speriamo anche che non si limitino alla release del singolo, che è comunque un bel pezzo. E, nel caso facessero uscire un album nuovo, ci auguriamo non abbiano perso il mordente, come per alcune reunion recenti (ad esempio, l’ultimo dei Refused non ha fatto gridare al miracolo, così come – uscendo leggermente dal selciato – l’ultimo dei Sikth).
AVETE SEGUITO LA VICENDA DELLE PROTESTE INTORNO AL FOA BOCCACCIO DI MONZA? COSA NE PENSATE?
Alessio: – Lo riteniamo un completo disastro. Al di là di tutto, il problema sta nel fatto che luoghi come il FOA siano ‘attaccabili’, poiché lo Stato non ne garantisce la legittimità. Al contempo, a differenza di Paesi più avanzati (parliamo di Europa), non concede o garantisce degli spazi dove le associazioni culturali possano esistere. Da qui, qualsiasi italiuncolo con Laura Pausini nel cuore può contestare la legittimità di un evento che non gli va. Se poi aggiungiamo decreti scritti da individui con nessuna integrità morale e linearità valoriale, volti a compiacere il voto dell’italiuncolo di cui prima, abbiamo lo specchio dell’Italia: un Paese che disincentiva le occasioni di confronto e dialogo, da sempre luogo dove nasce la Cultura, acerrima nemica del fascismo e di ogni altra forma di assolutismo. Peccato che gli antifascisti, in Italia, giochino sempre in trasferta. Mandiamo un abbraccio ai gruppi coinvolti, che in gran parte conosciamo.
PRO E CONTRO DEI MONDI METAL E HARDCORE…
Michele: – In linea di massima, sono due mondi accomunati da una forte componente elitaria. Forse, il metal in sé (a parte i fan incalliti del sound anni ’80) è evoluto maggiormente, anche se è spesso sfociato in progetti esasperati dal punto di vista tecnico, che a nostro modo di vedere sono abbastanza inascoltabili (e credibili, a dire il vero). D’altro canto, il metal ha anche avuto una derivazione ‘pop’ (nel senso che alcune produzioni, al di là delle chitarre distorte, sono a tutti gli effetti finte ed artificiali). Il genere con gli ascoltatori più affezionati, forse, è rimasto proprio il black metal, dove però andiamo a trovare la fanbase più chiusa in assoluto. L’hardcore, invece, si ostina a non cambiare, e se cambi vieni automaticamente etichettato come ‘false hardcore’, ‘false grind’, etc. Sicuramente, noi siamo un gruppo legato al mondo hardcore, che nell’underground ha il vantaggio di essere una scena molto più partecipativa. Ma, a livello proposta, riusciamo a scontentare tutti quanti. E a noi va benissimo così!
PARLANDO DI ATTIVITÀ LIVE, CI SONO DATE CHE AVETE TENUTO E A CUI SIETE PARTICOLARMENTE LEGATI?
Alessio: – In breve, la data più bella in assoluto è stata allo Jettasangu Fest di Catania, nel 2018: tantissima gente entusiasta, divertita, partecipativa. Uguale per il Woodfest di Bari. Anche quest’anno ci siamo divertiti parecchio: al Toxoplasmose a St. Imier c’erano un sacco di persone e una line-up pazzesca (i Nostromo sono dei professori!), mentre all’Itawak Fest a Strasburgo abbiamo visto gente rischiare la vita in un pogo ‘bagnatissimo’. Anche l’ultima data a Bologna con gli Escuela Grind è stata molto divertente.
COSA POSSIAMO ASPETTARCI DAGLI INFALL IN FUTURO? QUALI SONO I VOSTRI SOGNI NEL CASSETTO?
Michele: – Aspettatevi continuo cambiamento. “Far” è un album che richiama sonorità passate in una chiave moderna. Credo che il futuro vedrà sempre meno compromessi e una maggiore ricerca dell’identità. Il nostro sogno è molto semplice: vedere dei risultati che siano commisurati ai nostri sacrifici. Se succederà, faremo grandi cose.