Gli Infection Code hanno compiuto quindici anni nel 2015. E l’hanno fatto pubblicando l’EP “00-15: L’Avanguardia Industriale”, un breve ma intenso capitolo della loro storia che, tra inediti, reinterpretazioni e sconvolgimenti di brani del passato ed un videoclip, ha riepilogato in maniera esauriente la carriera di una formazione italiana tra le più ‘no compromise’ mai affacciatesi sulla scena. Il noise, il rumore, l’industrial, l’approccio DIY, le prestigiose collaborazioni, le idee chiare, il vissuto malato e denso di avvenimenti, le cadute e i faticosi rialzamenti, il sentore dell’underground meno avvezzo alle grandi luci, il cigolio dei macchinari di fabbrica, l’eco di megafoni operai. Tutto questo e tanto, tanto cuore è trasparso dalle parole del nostro Gabriele Oltracqua, vocalist e viva memoria narratrice in questa intervista verace e dalle tinte amarognole, seppur attaccate con ferrea logica e indefessa speranza ad una realtà che, volenti o nolenti, è da accettare. La storia degli Infection Code, insomma, almeno fino ad oggi.
CIAO GABRIELE, RIECCOCI DI NUOVO QUI PER UNA CHIACCHIERATA CON GLI INFECTION CODE! L’OCCASIONE E’ L’USCITA DEL VOSTRO EP CELEBRATIVO: “00-15: L’AVANGUARDIA INDUSTRIALE” FESTEGGIA I PRIMI QUINDICI ANNI DELLA BAND IN MODO ORIGINALE E ATIPICO. CI PUOI INTRODURRE IL LAVORO E SPIEGARE COME MAI LA SCELTA SIA CADUTA SU DI UN EP?
“Siamo arrivati al traguardo dei quindici anni come se la band si fosse formata da pochissimo tempo, con l’entusiasmo e la voglia ancora immutati di creare nuova musica e nuove forme di rumore. Volevamo celebrare questi quindici anni (che per una formazione di confine come la nostra, che annaspa nell’underground più remoto e dimenticato, non sono poca cosa) a modo nostro. Volevamo regalare ai nostri fan qualcosa che arrivasse dal passato, dal nostro passato, dalla nostra storia, inventandolo nuovamente con le forze fresche di oggi. Con l’entusiasmo e l’attitudine coesi, che fino a qualche tempo fa erano venuti un po’ a mancare. Da qualche tempo, infatti, ci sentiamo come fossimo alle prime armi, con numerose idee che ci metteranno in difficoltà, che ci stimoleranno per creare nuove cose che rispecchino i nostri stati d’animo. Nuove cose che evolveranno il suono e l’identità artistica degli Infection Code. L’idea di prendere tre vecchi pezzi e rivederli in chiave attuale parte proprio da questa urgenza. Fare i conti con la nostra storia ed attualizzarla. E’ un esperimento che ci ha preso subito per la gola. Ci ha strozzato, soffocato. Ce ne siamo liberati, quando questi pezzi hanno preso una nuova luce. Una nuova prospettiva del rumore più in linea con le ultime canzoni create per ’La Dittatura Del Rumore’. L’inedito, musicalmente, è l’evoluzione delle scorie psichedeliche che ci sono all’interno di quel disco. Non soddisfatti delle quattro tracce, volevamo regalare ai nostri fan anche qualcosa che non fosse solo musica. Grazie al grande aiuto ed alla forza creativa di Ivan Ferrera e Manuela Leone, siamo riusciti a far vedere le nostre brutte facce mentre cerchiamo di uccidere il rumore su di un palco con un lungo filmato di oltre quarantacinque minuti, dove immagini, filtri, luci, sovrapposizioni di figure aliene, bagliori e ombre sono protagonisti. Sono filmati di nostri live rielaborati e riveduti secondo l’estro artistico di questi due videomaker un po’ visionari. Ci hanno seguiti per decine di concerti, registrando ore ed ore di filmati e poi tagliando, montando e cucendo con un lavoro che ha richiesto mesi di infinita pazienza; sono riusciti a creare un filmato davvero interessante. Non si tratta di un semplice live, ma di un’esperienza visiva che colpisce ed annichilisce. Non ci sarebbe stata visionarietà filmica migliore da associare alla nostra musica”.
CON QUALE CRITERIO AVETE SCELTO I BRANI DA REINTERPRETARE E, SCENDENDO NEI PARTICOLARI, COME VI SIETE APPROCCIATI AL LAVORO DI RI-ARRANGIAMENTO E RI-REGISTRAZIONE?
“La scelta non è stata facile. Abbiamo pensato ed immaginato come potessero suonare alcuni pezzi a noi cari, a cui ci sentiamo particolarmente legati per vari motivi. Ne abbiamo scartati molti perché tanti non rispecchiano più gli Infection Code attuali, anche se fossero stati ri-arrangiati. Siamo stati attenti a scegliere tre pezzi che fissassero il passato della band ma che avessero la personalità degli Infection Code di oggi. ‘Martire’ è figlio di ‘Martyr’, forse il primo pezzo scritto dalla band; ‘Grigio’ arriva da ‘Grey’ ed ‘Origine’ da ‘Origin’. Come potrai notare, i titoli non sono cambiati e neppure i significati delle liriche. Le musiche ed i paramenti rumoristici invece si sono evoluti, e con loro le metriche e l’interpretazione delle voci. Pensiamo che questi tre pezzi avessero ancora molto da dire anche oggi. Li abbiamo sognati prima ancora che uscissero fuori così come sono ora. E non abbiamo sbagliato. Per qualche mese sono diventati i nostri incubi. Abbiamo tenuto solo lo scheletro ritmico in alcuni punti, poi abbiamo tolto, aggiunto, tagliato, allungato e buttato tutto in un cestino per ricominciare. Non eravamo pienamente soddisfatti. Ci siamo rimessi al lavoro. Con ansia, paranoie e pressioni che i nostri fantasmi generavano. Alla fine abbiamo sconfitto anche questi demoni e siamo riusciti ad avere quei pezzi che abbiamo sognato ed immaginato. Quei pezzi che arrivano dal passato, da un passato molto remoto, e che ci rappresentano al meglio. Ma anche che caratterizzano il nostro peggio. Ne siamo usciti provati. Stanchi. Ma felici di aver portato a termine anche questa sfida. Sarà il tempo a decidere se sarà ricordato. O dimenticato. Ma del resto può succedere qualsiasi cosa. Quello che sentivamo è stato fatto. Ora guardiamo avanti a noi”.
LA VOSTRA EVOLUZIONE VI STA PORTANDO AD INTERPRETARE IL NOISE E L’INDUSTRIAL IN MODO PARTICOLARMENTE AZZARDATO E DISTURBANTE; EPPURE RIUSCITE SEMPRE AD ESSERE ORGANICI E ‘PRESENTI’ NEL SOUND IN QUANTO UMANI E MUSICISTI. COSA DOBBIAMO ASPETTARCI DALL’IMMEDIATO FUTURO? DOVE SONO DIRETTI GLI INFECTION CODE DEI PRIMI VENT’ANNI?
“Il noise e l’industrial ci hanno scelto e non potevamo esimerci dall’accettare questa investitura. Anche se a volte diventa pura paranoia riuscire a non essere non se stessi. Cerchiamo sempre di umanizzarci. Fondamentalmente siamo organici e presenti nel suono perché è il suono che proviene da una parte di noi che pulsa sangue e linfa a tutto il nostro essere. Il cuore. Siamo organici nel suono perché è l’anima che ci guida. Anche nel fare errori e sbagli. Siamo umani. Non macchine. La musica è fatta da uomini che usano macchine. La componente robotica la lasciamo ad altre band. Il noise è rumore. Il rumore è una componente organica e viva nella vita di un uomo. Noi cerchiamo di cantare e (de)cantare questa vita. Siamo partiti da un metal molto strutturato, futuristico, avveniristico, che aveva nelle macchine e nella freddezza dei suoni la peculiarità di base. Un metal meccanico e chiuso su se stesso. Abbiamo voluto cambiare perché già al nostro secondo disco ci aveva stufato questa spigolosità ritmica e l’algidità dei suoni, troppo puliti e freddi. Abbiamo sperimentato introducendo nella nostra organicità umana le macchine che prima non avevamo. Sintetizzatori, campionatori, computer, aggeggi mostruosi che riproducono rumori bestiali, manopole strane per sintetizzare il rumore e renderlo umano. Perché siamo noi a suonare, o meglio è Enrico (Cerrato, basso, tastiere, rumori, ndR) che mette la sua umanità all’interno di questi suoni. L’interazione carne-macchina alla Ballard di ‘Crash’ ci ha sempre interessato. Infatti su ‘Sterile’ c’è un pezzo, ‘Almost Meat’, che parla di questo. D’altronde la nostra evoluzione e ricerca di stimoli nuovi è un gioco fatale e molto pericoloso, come lo descriveva Cronenberg in ‘Existenz’. Il nostro suono sarà sempre mutante, sarà sempre umano. Perché suonato con il cuore. Con la passione e l’errore umano, con il contributo delle macchine a creare atmosfere sempre più destabilizzanti ma umane, o (dis)umane. Il prossimo album sarà acido. Psichedelico e forse un po’ meno ‘ucronico’ de ‘La Dittatura Del Rumore’. Ma è ancora presto per sapere cosa saranno gli Infection Code dei primi vent’anni. Sicuramente non ci ripeteremo. Anche se a volte, a tratti, aiuta”.
RIPERCORRENDO LA VOSTRA CARRIERA, TI VA DI METTERE PER ISCRITTO I PASSI CHE REPUTI PRINCIPALI E GLI AVVENIMENTI CHE HANNO SEGNATO DI PIU’ LA VOSTRA STORIA? DALLE TUE PAROLE, INSOMMA, UNA SORTA DI ‘GREATEST MOMENTS’…
“Ogni momento vissuto, ogni istante trascorso insieme è stato importante e fondamentale per la crescita della band. Anche con chi se ne è andato sbattendo la porta. In un certo qual modo ha contribuito ad evolvere la personalità degli Infection Code. La vita di una band che fa musica un po’ strana e che vive nell’underground senza troppi mezzi per fare promozione, interamente votata al DIY quasi più per necessità che per scelta, non ha molti momenti grandiosi da ricordare. Abbiamo suonato in qualsiasi posto, dallo squat più marcio con la merda alle pareti al locale con un backstage che potevi parcheggiarci un tir; abbiamo vissuto momenti piacevoli con tantissime band ed altri che abbiamo dimenticato perchè inutili. Siamo stati osannati e ci hanno buttato merda in faccia per le cose che abbiamo fatto. Abbiamo collaborato con musicisti e produttori che hanno intuito le nostre potenzialità rumoristiche. Ricordiamo con piacere i nostri esordi con Tommy Talamanca dei Sadist come produttore. Poi una mail che ci arrivò una notte da parte di Billy Anderson (produttore, tra i tanti altri, di Neurosis, Eyehategod, Mr. Bungle e di ‘Intimacy’ degli stessi Infection Code, ndR) ed i complimenti da parte di Eraldo Bernocchi (musicista/produttore italiano, anch’egli al lavoro con la band per l’album ‘Fine’, ndR). Sono stati momenti significativi per la nostra crescita artistica. Abbiamo appreso, imparato, non solo dai nostri errori ma anche dall’esperienza che questi personaggi hanno accumulato in più di trent’anni di carriera. Ricordiamo con piacere i concerti con i Cult Of Luna, tutte le aperture fatte ai Sadist, scambiare la ‘nerditudine’ con i Genghis Tron. Ci piace ricordare i nostri primi concerti e non solo: anche quelli fatti in situazioni precarie e quelli organizzati da persone che si sono fatte un mazzo enorme per trattarti come dovrebbe essere trattato un musicista. Ci piace ricordare tutto della nostra ‘carriera’, anche eventi poco piacevoli accaduti con qualche nostro ex componente che se ne è andato. Ci piace ricordare il nostro presente ed immaginare il futuro. Siamo più compatti che mai. Abbiamo trovato la quadratura del cerchio. Con una line-up affiatata che ha il profumo di famiglia. Che sa quello che vuole. Attorniati da persone che ci danno una mano e viaggiano con noi nella stessa direzione d’intenti artistici, un manipolo di gente che ci aiuta e ci supporta, come ad esempio Gero di Argonauta Records, che ha sempre creduto in noi, e Carmine, il nostro fonico, che consideriamo come un quinto elemento della band. Siamo proiettati al futuro più forti che mai. Quindici anni possono essere molti per una band come la nostra, ma abbiamo ancora un po’ di cose da comunicare. Staremo in riva al fiume, assistendo al passaggio dell’ennesimo cadavere”.
SEMPRE RESTANDO NEL TUNNEL DEL TEMPO DELLA VOSTRA STORIA, PUOI SPENDERE QUALCHE FRASE SUI VOSTRI PRIMI LAVORI, DICIAMO DA ‘LIFE CONTINUITY POINT’ AD ‘INTIMACY’, CHE SEMBRANO POTER RAPPRESENTARE UNA SORTA DI ‘PRIMA PARTE’ DELLA DISCOGRAFIA INFECTION CODE?
“Se volessimo dividere in due parti la discografia della band, penso che ‘Fine’ faccia da spartiacque. Da quel disco abbiamo gettato le basi per una svolta musicale più marcata. Una ricerca sonora impegnativa e stimolante che ci ha portato ad esplorare luoghi un po’ impervi e pericolosi. Che ci ha fatto conoscere nuove forme di rumore che desideravamo piegare al nostro volere e alla nostra voglia di sperimentare. ‘Life Continuity Point’, ‘Sterile’, ‘Intimacy’ e ‘Fine’ sono ancora legati ad un certo canovaccio metal tout-court. Erano presenti schegge e frammenti di rumore elettronico e atmosfere stranianti e claustrofobiche, ma erano solo presenze quasi ectoplasmatiche. Dallo split fatto con i Deflore, ma soprattutto da ‘La Dittatura Del Rumore’ queste presenze si sono materializzate e ci accompagneranno per molto tempo lungo questo viaggio. Non vogliamo dimenticare o relegare in un angolo polveroso quanto fatto in precedenza. Assolutamente. Fanno parte di noi e sono state tappe importanti. Non saremmo qui, se non ci fossero stati questi dischi nella nostra vita. Hanno tutti delle ottime canzoni. Hanno tutti dei grandi errori che logicamente, con il senno di poi, non vorremmo più commettere. Hanno tutti una precisa identità che fotografa ed archivia il nostro momento in quell’istante in cui sono stati creati. Da ‘Life Continuity Point’, che forse pecca un po’ d’ingenuità compositiva ed è troppo legato al metallo futuristico degli anni Novanta, passando per ‘Intimacy’ che, nella sua oscurità ed acida desolazione sonora, ci ha dato grandi soddisfazioni e ci ha permesso di confrontarci con Billy Anderson, arrivando a ‘Fine’, il nostro lavoro più pulito a livello sonoro e concettualmente più sofferto. Forse il disco più vicino ad alcune soluzioni adottate nel nostro odierno”.
POI, INFATTI, CON IL SOPRAGGIUNGERE DI “FINE”, SONO CAMBIATE DIVERSE COSE. GIA’ IN PASSATO PARLAMMO DEL DISCO IN SEDE DI INTERVISTA, MA OGGI COME RIVEDI QUEL PERIODO? PERSONALMENTE LO CONSIDERO IL VOSTRO LAVORO MIGLIORE, MA OVVIAMENTE E’ UN GIUDIZIO SOGGETTIVO.
“‘Fine’ ha chiuso un libro. Anche se non è stato programmato. Non pensavamo di voler chiudere una parte di carriera della band ed andare avanti sconvolgendo le nostre coordinate stilistiche. Album dopo album, abbiamo cercato sempre di mantenere una certa coerenza compositiva ed una identità emotiva che si trasformava in musica. Con ‘Fine’, durante la sua creazione e dopo la sua uscita, sono successe cose e situazioni, anche al di fuori del discorso band-musica-concerti, che hanno influito sul futuro. E’ stato un periodo durato due anni, piuttosto burrascoso, carico di tensioni prima e dopo l’uscita del disco e probabilmente questo ne ha influito. Fortunatamente questo periodo, che farà sempre parte della nostra storia e lo ricorderemo come tutti gli altri, è terminato. Finito, perché ne è iniziato uno nuovo. ‘Fine’ è stato il nostro nuovo punto di partenza. Una partenza che ci sta dando moltissime soddisfazioni”.
CONCLUDIAMO IL VIAGGIO NEL TEMPO PARLANDO DI “LA DITTATURA DEL RUMORE”, UN LAVORO CHE SEMBRA ANCORA OGGI MOLTO ATTUALE E CHE VI RAFFIGURA COME FRA I POCHISSIMI GRUPPI ITALIANI IN GRADO DI RILEGGERE CON PERSONALITA’ IL SUONO CREATO DAI GODFLESH, TANTO PER CITARE LA FORMAZIONE-SIMBOLO DI UN CERTO TIPO DI INDUSTRIAL…
“‘La Dittatura Del Rumore’ arriva da quel periodo di tensioni che si erano appena stemperate. Avevamo una nuova line-up, tante idee da concretizzare e molto entusiasmo. E soprattutto un approccio tutto nuovo nel comporre, perché Paolo (Penna, ndR), il nuovo chitarrista, pur essendo persona molto più giovane del resto del gruppo, ha portato in seno alla band moltissime idee da sviluppare. Avere una persona che arriva da tutt’altro genere aiuta ad esplorare altre forme musicali ed intraprendere percorsi fino a quel momento poco conosciuti. ‘La Dittatura Del Rumore’ è il nostro lavoro forse più estremo. Più acido e psichedelico. Essere paragonati ai Godflesh non può che farci piacere, ma ti assicuro che in quel periodo ascoltavamo pochissimo questa band e addirittura poco il genere. La nostra evoluzione fino ad oggi penso che si sia concretizzata in quelle sette tracce. Un album che identifica davvero la nostra vera essenza. Dove abbiamo affrontato cose nuove, appunto un chitarrista che arriva da una scena distante la nostra, il cantato in italiano ed un concept lirico che prima non avevamo mai affrontato. Ci ha spinto oltre i nostri limiti a livello di sforzi, sacrifici. Alla fine ne siamo usciti esausti. Il rumore ci aveva vinti. Ma ne siamo stati felici”.
DAL 1999, QUANDO VI SIETE FORMATI, AD OGGI SI SONO SUCCEDUTI DIVERSI TREND METALLICI, DAL NU-METAL AL METAL-CORE, DALL’EMO ALLE SOTTOCORRENTI POST-. VOI LE AVETE ATTRAVERSATE TUTTE SENZA FARVI PER NULLA COINVOLGERE. MA C’E’ QUALCOSA CHE SALVERESTI VOLENTIERI DI TUTTO CIO’ CHE AVETE ASCOLTATO IN QUESTI ANNI AL DI FUORI DELLE VOSTRE PRINCIPALI INFLUENZE?
“Be’, sono passati quindici anni, ed in quindici anni le cose cambiano. Si evolvono, peggiorano e migliorano. Abbiamo vissuto diversi periodi musicali. Vissuto passivamente molto, attivamente poco, nel senso che non abbiamo seguito molto un genere o uno stile. E’ indubbio che da metà anni Novanta fino ai primi anni del Duemila le bordate che arrivavano da Oltreoceano hanno sconvolto un po’ tutti. Come non dimenticare i primi album di Korn, Deftones e Rage Against The Machine? Oppure i tribalismi dei Sepultura, o le meccaniche visioni futuristiche dei Fear Factory. Penso che molti ragazzi in quell’epoca, prendendo in mano gli strumenti, siano stati influenzati anche non volutamente da queste band. Noi arriviamo da un decennio antecedente dove esplodeva il death metal scandinavo, l’hardcore dei Sick Of It All, il thrash dei primi Slayer, il grindcore dei Napalm Death, e si captavano le prime scorie industriali di Ministry, Skinny Puppy, Pitch Shifter e Godflesh, o le bordate rumoristiche dei Neurosis di ‘Through Silver In Blood’. Abbiamo apprezzato le derive del post-hardcore più sperimentale e lo sviluppo di questa sottocorrente che ha avuto un periodo di fulgida e sincera esposizione, anche mediatica, con i primi vagiti dei Cult Of Luna, le oscure ritmiche dei Breach e gli spigoli appuntiti dei Botch. Questo è quello che salviamo e che ricordiamo con immenso piacere. Tutto ciò che è arrivato dopo, prodotto da epigoni e meri truffatori della creatività ed inventiva, lo ignoriamo. Tutto ciò che ha perso genuinità e personalità, tutto ciò che è derivativo ed insulso. Tutto ciò che sta circolando in questo momento. A parte qualche raro caso, musica prodotta guardando al passato senza un briciolo di originalità. Il caso dell’esplosione del doom-sludge-post…di cosa poi? Già vent’anni fa abbiamo avuto gli Eyehategod, i Kyuss, gli Sleep. Questi erano maestri che hanno creato un suono. Non vedo il senso di questa scopiazzatura oggi, a distanza di quasi due decenni. Queste sono cose che non vorremo ricordare, ma gettare nel cesso”.
COSI’ COME TANTA MUSICA E’ PASSATA SOTTO I PONTI DEGLI ULTIMI TRE LUSTRI, ANCHE IL MUSIC-BUSINESS HA VISTO COMPLETAMENTE ALTERATO IL SUO NUCLEO E LE SUE POLITICHE. ANCHE QUI, GABRIELE, COSA SALVI DI BUONO DI QUELLO CHE SI E’ MODIFICATO E COSA INVECE BUTTERESTI IMMEDIATAMENTE NELLA SPAZZATURA?
“Siamo lontani dal music-business. Lo siamo ora e lo eravamo quindici anni fa. Il nostro approccio alla distribuzione e divulgazione è sempre stato prettamente DIY, nel puro stile punk hardcore. Collaboriamo a stretto contatto con realtà come Argonauta Records, che in questi ultimi anni ci sta dando una grossa mano per la pubblicazione dei dischi lavorando con professionalità e dedizione. Ci sentiamo di affermare che dopo un sacco di tempo abbiamo raggiunto un equilibrio contrattuale e di collaborazione piuttosto solido con questa realtà che sta crescendo molto, lavorando duramente. Non possiamo che essere davvero soddisfatti. Per il resto, appunto, abbiamo fatto sempre tutto da soli. Da ufficio stampa a booking. Vogliamo sentirci liberi da ogni legame contrattuale e quindi poi forzatamente artistico. Il music-business è lontano miglia e miglia dalla nostra concezione. Non ci frega nulla di lucrare sulla nostra arte e fare musica per produrre un profitto non rientra nella nostra visione delle cose. Certo, abbiamo notato un cambiamento profondo su come si fruisce della musica. La tecnologia ha fatto passi da gigante in questo senso. Tutto è accessibile, scaricabile, ascoltabile in un lampo. C’è stress dell’ascolto ed è venuta a perdersi l’attenzione nell’ascolto. Oggi tutti sentono una canzone ma pochi ascoltano e cercano di capire cosa veramente vuole comunicare una band. Come in ogni evoluzione che involve, ci sono i lati positivi e quelli negativi. Siamo anziani ed un po’ nostalgici, ma ascoltare un disco, un cd, avere tra le mani un oggetto, comprare una t-shirt e capire un disco ascoltandolo decine e decine di volte, sono azioni che oggi si sono un po’ perdute. L’underground cerca di proteggere queste situazioni, ma la massa è pecora ed è difficile avere un bilanciamento in questo senso. C’è anche da riflettere su cosa può offrire la tecnologia e sfruttare al meglio questa bulimia di musica che il mercato offre. Tendenzialmente, si perde la selezione naturale. Oggi tutti possono fare musica, registrare, mettere sui vari social le proprie nefandezze. Quindi tutti possono ambire a fare dischi, suonare, crearsi uno zoccolo di sostenitori. Ma la richiesta è infinitamente esigua rispetto alla mole di offerta che nello spazio occupa ogni particella. C’è troppo rumore e poca selezione. Ci vorrebbe più silenzio, meno musicisti e più ascoltatori attenti. I ruoli dovrebbero essere più marcati”.
GLI INFECTION CODE SONO, PERLOMENO CREDO, QUELLO CHE SI PUO’ DEFINIRE ‘UN GRUPPO IMPEGNATO’. IN PERIODI COME QUESTI, DI GRANDI TENSIONI GEO-POLITICHE SU SCALA MONDIALE, FINO A DOVE PUO’ SPINGERSI IL GRIDO DI DENUNCIA O DI ‘APERTURA DELLE MENTI’ CHE PUO’ PARTIRE DA UNA SEMPLICE COMPAGINE MUSICALE?
“Non si può fare nulla. Non abbiamo la forza (non gli Infection Code, ma chiunque abbia aperto gli occhi, o veda veramente le cose come stanno) per fare in modo che l’apertura mentale, le denunce, l’essere se stessi, il combattere cercando di esporre le proprie idee in modo civile, possa fare qualcosa, possa portare a qualche cambiamento in questo nuovo ordine mondiale dove solo pochi hanno il potere e giocano con la vita di miliardi di persone. L’arte ha, effettivamente, una forte componente di denuncia: l’arte salva e conserva quello spirito di critica individuale per poter fronteggiare o per lo meno rifiutare in piccole dosi il massiccio lavaggio del cervello a cui siamo sottoposti metodicamente ogni giorno. Molti non si accorgono di far parte di questo processo di brainstorming e se ne stanno muti, altri hanno aperto gli occhi. Hanno visto, sono consapevoli di fronteggiare un gigante che purtroppo non ha piedi d’argilla. Siamo tutti seduti comodamente su un divano, obbedienti, a ridere, guardando ‘Videodrome’ in una qualsiasi giornata dell’anno di grazia 1984”.