INNO – Piogge colossali

Pubblicato il 19/03/2020 da

I romani Inno sono la new entry dell’anno, perlomeno in ambito italiano, che di certo non è povero di compagini dedite positivamente alla causa del genere, in campo doom-gothic metal. Il loro debutto “The Rain Under”, difatti, ha tutte le carte in regola per diventare un ascolto regolare nelle playlist dei più ‘depressoni’ di voi, soprattutto in un periodo come questo, che aiuta moltissimo la fruizione di musica standosene chiusi in casa a riflettere sulla caducità della vita promulgata dall’epidemia italiana di Covid-19. Forse nulla di nuovo sotto il Sole, ma l’esordio degli Inno vi riserverà soddisfazioni notevoli, se darete lui il tempo di ammaliarvi per bene, approfondendo gli ascolti anche in quei tratti del lavoro più restii a farsi amare subito. C’è tanta modernità e ci sono parecchi spunti progressive-oriented da scoprire lungo la sua tracklist, ed è la band al completo che cerca di spiegarci origini, formazione e sviluppo di un progetto che è già diventato discreta realtà. Parola a Marco, Giuseppe, Cristiano ed Elisabetta, dunque.

CIAO A TUTTI, RAGAZZI, E BENVENUTI SU METALITALIA.COM! PARTIAMO IN MANIERA PIUTTOSTO SCONTATA, ALMENO PER VOI, DALLA GENESI DEL PROGETTO INNO. QUANDO AVETE DECISO DI METTERE ASSIEME UNA NUOVA BAND E QUALI SONO STATI I PRIMI OBIETTIVI?
Marco Mastrobuono (basso) – L’idea di mettere su una band totalmente diversa da quello che avevo suonato negli ultimi dieci/quindici anni era qualcosa che volevo fare da un po’, ma stavo cercando il momento e soprattutto le persone giuste per poter fare qualcosa che reputassi valido. Giuseppe Orlando è il fonico live della mia band, gli Hour Of Penance, e ho sempre avuto una grandissima stima per lui e il suo modo di suonare; parlando del più e del meno, in furgone durante un viaggio, mi è uscito un ‘Giuseppe, facciamo un gruppo insieme?’ e quando mi ha risposto ‘Sì!’ ho capito che quello era il momento giusto per fare sul serio. Proprio in quel periodo, Cristiano Trionfera, che aveva da poco lasciato l’attività live dei Fleshgod Apocalypse, stava diventando il mio vicino di casa, quindi tutto sembrava concatenarsi nel periodo perfetto. I primi obiettivi sono stati quelli di scrivere bella musica, perché è vero che abbiamo tutti una lunga esperienza alle spalle, ma sia io che Cristiano venivamo da generi musicali lontanissimi da quello che volevamo diventasse il progetto Inno, e volevamo essere soddisfatti al 100% di quello che stavamo scrivendo. La possibilità di avere Elisabetta Marchetti alla voce è stato un’ulteriore passo in avanti: anche lei veniva da generi molto diversi e meno ‘raffinati’, ma come noi ha accettato la sfida di reinventare il suo modo di cantare per dare un enorme contributo ai brani.

A MIO PARERE, INNO E’ UN NOME AZZECCATISSIMO: UNA PAROLA ITALIANA CHE PERO’ E’ ANCHE DI USO INTERNAZIONALE, E CHE PUO’ ESSERE CONTESTUALIZZATA IN DIVERSE SITUAZIONI, TUTTE BEN CALZANTI CON LA VOSTRA PROPOSTA. COME AVETE DECISO DI CHIAMARVI IN QUESTO MODO?
Giuseppe Orlando (batteria, percussioni) – E’ stata una scelta molto ardua, perché oggi come oggi è veramente difficile trovare un nome che sia semplice e allo stesso tempo accattivante. Dopo un bel po’ di brainstorming, non so perché ma mi è venuto in mente l’inno di Mameli e da lì ho proposto Inno, che fortunatamente ha entusiasmato tutti nella band. Come dici tu, penso sia un nome comprensibile sia in Italia che all’estero e che in un certo qual modo descriva perfettamente la nostra proposta.
Marco – Purtroppo nel 2020 trovare un bel nome che non sia già stato usato da altre centocinquanta band nel mondo è quasi impossibile. Quando Giuseppe ha detto quasi per caso ‘Inno’, dopo giorni di idee su idee, abbiamo capito che era veramente perfetto per quello che volevamo proporre.

COME SI SONO SVOLTI I LAVORI DI COMPOSIZIONE PER IL DEBUTTO “THE RAIN UNDER”? CHI HA COMPOSTO IL MATERIALE E COME SONO NATE LE CANZONI?
Cristiano Trionfera (chitarre) – Il processo di scrittura dei pezzi si è svolto in modo estremamente naturale. Io e Marco ci siamo seduti al computer un giorno con una chitarra in mano, senza particolari aspettative, e fin da subito ci siamo resi conto di avere una gran quantità di belle idee utilizzabili. Ci ha sorpreso la fluidità con cui siamo riusciti, dall’inizio, a mettere insieme il tutto. La maggior parte dei pezzi l’abbiamo scritta noi due, poi Giuseppe si è aggiunto, a volte a completamento, altre portando idee nuove. Insieme abbiamo pian piano scolpito i nove brani. Nel frattempo, appena avevamo una bozza decente di un brano, la passavamo a Elisabetta, che ce la riportava con linee vocali e testi, su cui poi abbiamo lavorato tutti insieme a rifinitura, per dare al disco il sound che avevamo in mente.

IN FORMAZIONE AVETE DUE ESPERTI TECNICI DEL SUONO E PRODUTTORI COME GIUSEPPE E MARCO: E’ STATO PIU’ FACILE O DIFFICILE LAVORARE INSIEME NEL CERCARE IL GIUSTO SOUND DA DARE ALLA BAND? IL RISULTATO FINALE PARE UNA PRODUZIONE MOLTO EQUILIBRATA, TENDENTE PIU’ AL SOFT CHE AL PESANTE, MA DI CERTO ADATTA PER SONORITA’ COME LE VOSTRE.
Giuseppe – Sì, sia io che Marco abbiamo uno studio di registrazione. Ci conosciamo da tanti anni e già in precedenza abbiamo avuto modo di confrontarci su questo aspetto con le nostre rispettive produzioni. Devo dire che è stata una collaborazione molto piacevole, improntata sull’avere il massimo risultato, e penso che siamo riusciti ad ottenerlo. Abbiamo registrato la batteria ai Bloom Recording Studios a Guidonia, un grandissimo studio con attrezzature di altissimo livello, mentre tutto il resto è stato registrato ai Kick di Marco. Io mi sono occupato dell’editing di batteria presso i miei Outersound, mentre il mix è stato curato da me e Marco sempre ai Kick. È stata veramente un’esperienza rilassante e allo stesso tempo stimolante, con tanta pignoleria e ricerca. Sinceramente non la vedo come una produzione leggera, anzi, forse è più la nostra musica che la fa sembrare così, ma credimi che abbiamo preso come referenze dei dischi molto potenti.
Marco – Lavorare insieme a Giuseppe è stato molto naturale e stimolante. Abbiamo una visione molto, molto simile del risultato che vogliamo ottenere, passando per vie quasi diametralmente opposte. Abbiamo preso il meglio da entrambi e abbiamo canalizzato le metodologie di lavoro in un’unica direzione; penso possiamo ritenerci totalmente soddisfatti del risultato. Sicuramente ripeteremo in futuro, ma questa è un’altra storia di cui per ora non possiamo rivelare nulla.

E’ CURIOSO IL FATTO CHE IL VOSTRO DISCO ED IL PROSSIMO, IMMINENTE, ALBUM DEI KATATONIA, UNA DELLE VOSTRE PRINCIPALI INFLUENZE, SIANO STATI MASTERIZZATI ENTRAMBI DA JACOB HANSEN, SOLITAMENTE POCO ALLE PRESE CON SONORITA’ DECADENTI E SIMIL-GOTICHE. AVETE AVUTO FIUTO O E’ STATO UN CASO? E COME VI SEMBRA IL LAVORO SVOLTO DA HANSEN?
Marco – Ho collaborato con Jacob durante la produzione di “Veleno” dei Fleshgod Apocalypse, dove io mi sono occupato di tutto il tracking/editing e lui di mix e mastering. Sin dalle prime fasi del lavoro, dove comunicavamo spesso, lui si è subito rivelato come una persona estremamente professionale ma anche molto amichevole. Ci siamo trovati umanamente e siamo rimasti in contatto anche una volta finite le registrazioni. Infatti qualche mese fa sono anche stato nel suo studio in Danimarca. Quando stavamo finendo il mix di “The Rain Under” gli ho inviato tre brani per avere un parere, un ascolto esterno da un orecchio come il suo sarebbe stato sicuramente utile. Quando ha sentito i brani è rimasto estremamente colpito e ci ha fatto capire che sarebbe stato felice di occuparsi del mastering, dando il tocco finale al disco, facendo quadrare perfettamente tutto. Solo dopo ho scoperto che avrebbe lavorato anche al nuovo disco dei Katatonia, è stato veramente un colpo di fortuna, e non vedo l’ora di sentire il lavoro finito.

RESTANDO IN TEMA KATATONIA, MA PIU’ IN GENERALE DI VOSTRE INFLUENZE, IL DOOM-GOTHIC DEI NINETIES E’ DI CERTO IL PUNTO FOCALE PER CAPIRE LA VOSTRA MUSICA. I KATATONIA PIU’ NOSTALGICI, IN PARTE GLI AMORPHIS (PER ME POCO, A DIR LA VERITA’), PARADISE LOST, PRIMI LACUNA COIL, NOVEMBRE, THE GATHERING DI ANNEKE SONO TUTTI NOMI RICONDUCIBILI AGLI INNO. CIO’ SI EVIDENZIA SOPRATTUTTO, A MIO PARERE, NEI BRANI CENTRALI “THE LAST SUN” E “NIGHT FALLS”, PIU’ MELODICI E DIRETTI, CON UN FORTE ACCENTO SULL’ACCESSIBILITA’ DELLE MELODIE. SIETE D’ACCORDO?
Cristiano – Senza dubbio hai ragione. I brani che hai citato, soprattutto “The Last Sun”, sono nati dalla vena più triste e dark del nostro percorso compositivo. Siamo tutti e quattro grandi estimatori della pesantezza emotiva nell’espressione musicale dei gruppi a cui ti riferisci, e abbiamo voluto esplorare queste atmosfere, traendone sinceramente grande soddisfazione. In qualche modo, la formazione stessa degli Inno ci ha portato in modo naturale a dar voce a quelle influenze. “The Rain Under” è certamente un esercizio emotivo non da poco per noi.

L’ALTRO LATO DELLA MEDAGLIA, INVECE, CI PRESENTA UNA BAND DAL TOCCO SPERIMENTALE E ‘IN DIVENIRE’. L’OPENER “SUFFOCATE”, LA PIU’ AGGRESSIVA “THE HANGMAN”, “SCORCHED”, “MISERICORDIA”, “TO GO ASTRAY” HANNO SOLUZIONI CHE VANNO BEN OLTRE L’APPROCCIO MELODICO, TRA RIFF À LA PORCUPINE TREE/TOOL O ULTIMI KATATONIA/THE OCEAN, ARRANGIAMENTI DI PIANOFORTE E PERCUSSIONI, STRUTTURE PIU’ NEL COMPLESSO ‘PROGRESSIVE’. PERSONALMENTE HO TROVATO PIU’ AVVINCENTI QUESTI EPISODI MAGGIORMENTE COMPLESSI, MA PARLATECI UN PO’ DEL VOSTRO BACKGROUND PIU’ TRASVERSALE E DI COME VI HA STIMOLATO IN COMPOSIZIONE…
Cristiano – La realtà è che quando abbiamo deciso di scrivere delle canzoni insieme, il primo e più basilare obiettivo che ci siamo posti è stato quello di scrivere bella musica. Volevamo comporre pezzi che ci potessero trasportare e che dessero voce alle nostre influenze fino ad allora poco sfruttate. Tutti i gruppi che hai citato sono stati e sono tuttora fondamentali per noi e per quello che scriviamo. Siamo un gruppo molto giovane (anche se formato da membri diversamente giovani!), quindi l’evoluzione del nostro suono è fondamentale per poterci dare un’identità. Con “The Rain Under” abbiamo raggruppato una serie di influenze molto forti, le abbiamo mescolate e abbiamo tirato fuori concetti molto liberi, secondo me. Almeno questo è il modo in cui ci sentiamo noi. Personalmente, dopo qualche annetto a bazzicare ambienti musicali, ho imparato che se la musica che si scrive viene da sentimenti reali e non forzati, sarà sempre ricevuta in modo più profondo. Questo è quello che noi puntiamo a fare con gli Inno.
Marco – “The Rain Under” ha sia i pregi che i difetti di un primo disco di una band totalmente nuova, e siamo ancora sicuramente in divenire per quanto riguarda il sound. In questo disco abbiamo provato ad addentrarci in tutte le sfaccettature del genere musicale sviluppandole a modo nostro, e cercheremo di farle evolvere facendo tesoro di questa prima esperienza. Io ho sempre cercato il lato triste in tutto quello che ascoltavo, non solo in generi da cui potresti aspettartelo, ma anche in ambienti inaspettati: ti assicuro che ci sta molta più disperazione in un disco come “Shift” dei Nasum che in altri cento dischi dark/gothic/doom. Non ho mai cercato un ‘suono’ o uno ‘stile’, ma ho sempre passato il mio tempo a cercare un concetto. E un concetto come la disperazione, o quello che per me è disperazione, lo puoi trovare in un disco doom come in un disco grindcore, lo puoi trovare in una successione di accordi o in un intervallo tra due note, lo puoi trovare in un arrangiamento di voce o di chitarra; se lo trovi, lo assimili e lo trasformi in un modo tuo di suonare, allora puoi ritenerti soddisfatto come artista.

AVETE REALIZZATO UNO SPLENDIDO VIDEO PER “PALE DEAD SKY” IN COLLABORAZIONE CON L’OTTIMA SANDA MOVIES, PER QUELLO CHE E’ SICURAMENTE UNO DEGLI HIGHLIGHT DEL DISCO. QUALI REAZIONI AVETE AVUTO? E’ STATO UN BUON TRAINO PER FAR CONOSCERE IL PROGETTO?
Elisabetta Marchetti (voce, tastiere) – Di sicuro il forte impatto visivo delle immagini e degli scenari rappresentati nel video ci ha dato parecchio rilievo e visibilità. Il risultato finale è stato anche oltre le nostre aspettative e ci sta aiutando molto a far conoscere la nostra musica. Oggigiorno avere un video di questo livello è quasi fondamentale per la giusta promozione di un disco e speriamo di poter lavorare nuovamente con Sanda Movies il prima possibile.

HO TROVATO MOLTO BEN RIUSCITA, SE PUR FEDELE ALL’ORIGINALE, LA COVER DI “HIGH HOPES” DEI PINK FLOYD. CERTO, IL PEZZO E’ IMMORTALE ED IN QUALSIASI VERSIONE AVREBBE IL SUO FASCINO, MA COME VI SIETE APPROCCIATI ALLA SUA RIPROPOSIZIONE?
Cristiano – Con rispetto, soggezione, paura – io in particolare con i soli…volevo morire, Gilmour è una divinità per me! – ma anche orgoglio e voglia di renderla nostra. Penso che decidere di reinterpretare un pezzo del genere ti arricchisca immensamente come musicista, ricordandoti sempre quanto l’umiltà sia davvero fondamentale.
Elisabetta – Per quanto mi riguarda, i Pink Floyd sono stati la primissima band che ho ascoltato da bambina. Questo fa sì che, oltre all’immenso valore che rappresentano nella storia della musica, abbiano un posto speciale anche nel mio cuore. Quando ci è venuta l’idea di includere una cover, ho proposto subito questo brano perché per quanto concerne stile e concetti, mi sembrava perfettamente in linea con le tematiche trattate nel disco (in particolare i ricordi). Come tu dici, è un pezzo ‘immortale’ e talmente perfetto che abbiamo scelto di attenerci molto alla versione originale.

METTETE IN FILA I CINQUE DISCHI CHE PENSATE ABBIANO PLASMATO (E STIANO PLASMANDO) IL SUONO INNO.
Tutta la band – Katatonia – “The Great Cold Distance”;
Katatonia – “Dead End Kings”;
The Gathering – “Mandylion”;
Tool – “Lateralus”;
Porcupine Tree – “In Absentia”.

PER QUANTO RIGUARDA LE ESIBIZIONI LIVE, COME VI STATE ORGANIZZANDO? QUALI SONO I CONTESTI IDEALI PER POTER RAPPRESENTARE LA VOSTRA PROPOSTA? E PENSATE DI INSERIRE UN SECONDO CHITARRISTA, DAL VIVO?
Marco – Stiamo cercando i giusti contesti dove poter proporre la nostra musica live. Non vogliamo suonare ‘tanto per’, o in contesti dove saremmo totalmente fuori luogo. Preferiamo un’attività più mirata e in situazioni dove anche chi viene a vederci ne esca felice. Un secondo chitarrista sarà sicuramente necessario, visto il tipo di arrangiamenti sul disco, ma ancora non possiamo dire nulla di più.

 

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