INQUISITION – Verso l’Empireo del black metal

Pubblicato il 26/08/2016 da

Che gli Inquisition siano ormai una realtà consolidata del panorama black metal mondiale non è certo un mistero: quasi vent’anni di onorata carriera, live show esplosivi e un ritmo di pubblicazione serrato, che ci consegna con questo “Bloodshed Across The Empyrean Altar Beyond The Celestial Zenith” il terzo album in cinque anni. Ancora una volta riescono a superare le nostre aspettative, grazie a un’ora di musica senza compromessi, che riesce a confermare il sound peculiare del duo americano-colombiano, donando però all’ascoltatore anche diverse, interessanti novità. Abbiamo avuto l’occasione di chiacchierare dell’album, di composizione e di molti altri interessanti argomenti con Dagon, che si conferma un personaggio molto interessante e disponibile, come potrete leggere nel seguito. 

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BENTROVATO DAGON E GRAZIE DEL TUO TEMPO. PARTIREI CON ALCUNE DOMANDE SUL VOSTRO NUOVO ALBUM, “BLOODSHED ACROSS THE EMPYREAN ALTAR BEYOND THE CELESTIAL ZENITH”. DA SEMPRE LE TUE LINEE VOCALI SONO RICONOSCIBILI ALL’ISTANTE, SUONANO COME UN MANTRA PRIVO DI EMOZIONI. COME SI È SVILUPPATO QUESTO SUONO? E COME MAI NEL NUOVO ALBUM POSSIAMO TROVARE ALCUNI PASSAGGI PIÙ GUTTURALI?
“Ti dirò, non c’è stato nessun cambio particolare, e penso che alcuni passaggi più vari si possano trovare in tutti i nostri lavori precedenti, non ho pensato di provare qualcosa di nuovo. E’ vero però che quando arriviamo in studio con dei demo, difficilmente il suono finale è quello: lo affiniamo molto, alcune cose cambiano completamente; ma in effetti per alcuni brani, arrivati in studio, ci siamo accorti anche con il produttore che alcune cose funzionavano bene, quindi forse quello che noti rispetto al nostro tradizionale trademark sta in alcune soluzioni più vicine a come erano su demo”.

SIETE SEMPRE STATI UNA BAND CON SOLI DUE COMPONENTI. QUESTO VI SPINGE A PENSARE SE SARETE IN GRADO DI SUONARE TUTTO DAL VIVO, QUANDO COMPONETE I VOSTRI PEZZI?
“Il nostro sound è sempre stato pensato e suonato esattamente come lo desideriamo; certo c’è sempre la consapevolezza di essere solo in due, ma io ho in mente un ben chiaro suono della chitarra, e lo stesso vale per la batteria. Ci sono probabilmente dei limiti, ma prevale sicuramente l’aspetto positivo di avere un nostro preciso suono che non dobbiamo adattare per i concerti. Certo, se suonassimo musica classica sarebbe impossibile, e so che se – per dire – un giorno volessimo fare un evento particolare, magari suonando cover di band che amiamo o simile, sicuramente dovremmo sopperire ingaggiando altri musicisti, ma questo è il modo in cui componiamo, senza troppe riflessioni o mediazioni”.

E IL VOSTRO SUONO È DECISAMENTE ORGANICO E COINVOLGENTE. FORSE CI RIPETIAMO, MA A VOLTE È DIFFICILE CREDERE CHE SIATE SOLO IN DUE, A SUONARE.
“Eheheh, grazie. Beh, siamo decisamente felici di avere un suono nostro, peculiare e organico, ma non è qualcosa che perseguiamo con artifici particolari, è qualcosa di quasi naturale. Parlo per me, ma penso che tutti coloro che suonano abbiano questi ‘momenti magici’; e abbiamo una componente spirituale e per così dire religiosa, quasi una formula, particolare e ispirata, una specie di flusso da seguire e canalizzare”.

IL TUO LAVORO ALLA CHITARRA, IN PARTICOLARE, È DECISAMENTE CREATIVO. È STATO DIFFICILE PER TE DEFINIRE NUOVI RIFF, IDEE E UNA ‘VOCE’ PARTICOLARE IN AMBITO BLACK METAL, DATO CHE IL GENERE ERA GIÀ MOLTO CANONIZZATO, QUANDO AVETE INIZIATO?
“Sai, trovare un proprio suono è sicuramente una sfida, ma personalmente è sempre stata un’ispirazione interiore molto naturale; non voglio apparire troppo mistico, ma è veramente un flusso che seguo, quando compongo. Poi magari alcune cose vanno riviste o scartate, o non finiscono sull’album, ma ti assicuro che quando inizio a comporre mi viene sempre difficile dire ‘ecco, questa è l’ultima canzone dell’album’. Certo, poi c’è anche il lavoro di mixaggio, post produzione, ma non è qualcosa che termina appena finite le registrazione: c’è ancora questa energia e, come dire, resti su questa onda. Complessivamente, per completare un album, mi ci vogliono circa due anni, ma avolte passo solo un anno sulla chitarra a suonare e suonare”.

VISTO CHE HAI PARLATO DI ISPIRAZIONE – ALMENO INTERIORE – POSSO CHIEDERTI QUALI BAND TI HANNO INFLUENZATO A METÀ DEGLI ANNI ’90?
“Quando è uscito il nostro primo album, ascoltavo praticamente le stesse cose di oggi, di fondo. Un sacco di black metal, soprattutto band polacche, al tempo; ricordo un ascolto continuo, quasi religioso dei Graveland. Ma anche cose più atmosferiche, magari underground, che non hanno determinato magari il nostro suono, ma che sicuramente emergono in quell’atmosfera sognante che molti rilevano nel sound degli Inquisition. E poi un sacco di musica elettronica, ricordo anche parecchia musica italiana e cose che mi hanno aperto gli orizzonti al di là della scena rock e metal”.

ORMAI GLI INQUISITION SONO CONSIDERATI TRA LE BAND PIÙ INTERESSANTI E IMPORTANTI IN AMBITO BLACK METAL, E STATE RICEVENDO PARECCHIA ATTENZIONE SIA DAI MEDIA CHE DAI FAN. C’È QUALCHE EPISODIO O SCELTA DA VOI FATTA CHE INDIVIDUI COME IL MOMENTO FOCALE PER QUESTA VOSTRA ESPLOSIONE?
“Non so se ho capito bene la domanda, ma posso dirti che sicuramente questo passaggio è avvenuto ma molto lentamente, in maniera quasi naturale. Non voglio suonare arrogante, al contrario; è stata una grande cosa che sia successo poco alla volta: abbiamo accumulato esperienza, supporto, numerosi feedback e in questo sì, posso dire che è qualcosa che ci siamo guadagnati con pazienza e impegno. Certo questo significa necessariamente una serie di cose in più, per esempio più interviste, appunto, ma restiamo sempre noi stessi. Sapere di essere speciali per qualcuno lo è anche per noi, non si tratta solo dei media, ma di persone con cui sei in qualche modo in connessione, con cui puoi relazionarti: non è più solo musica, è qualcosa di più”.

IN GENERALE IL PUBBLICO BLACK METAL TENDE AD ESSERE ALQUANTO CONSERVATORE, E NON APPREZZA PARTICOLARMENTE LE SPERIMENTAZIONI, COME HAN POTUTO CONSTATARE, PER ESEMPIO, I SATYRICON O I MAYHEM. VOI COME TROVATE UN EQUILIBRIO TRA LA SODDISFAZIONE DI VOI STESSI COME MUSICISTI E QUELLA DEL PUBBLICO?
“Io penso che la cosa più importante sia sempre una sola, ossia essere trasparenti. In questo modo la maggior parte dei tuoi fan capirà comunque quello che stai facendo. Al tempo stesso, e non vorrei con questo dare l’idea di giudicare, molti artisti ripetono sempre che quello che stanno facendo lo fanno solo per loro, ma questo, anche se comprensibile, è un atteggiamento difensivo; tutti noi sappiamo che a un certo punto quello che crei è qualcosa per il pubblico: non è più solo la tua arte, ma è anche per loro. Quando vivi di musica, come potresti vivere fregandotene se vendi solo cinquanta copie? E’ un processo naturale: non è che mi siedo a tavolino e penso a cosa vuole il mio pubblico, ma considero quello che può desiderare. Anche qui c’è qualcosa di magico, un tuo sound che la gente può riconoscere e che devi preservare. Chiaro che per molti musicisti il più grande piacere è suonare in sé, ma in fin dei conti raggiungi persone a cui può fare persino più piacere che a te. Le tue canzoni, i tuoi testi, diventano importanti per molte persone”.

COME HAI IMPARATO A SUONARE? TI SEI AFFIDATO ALLA TEORIA MUSICALE O HAI USATO UN ALTRO METODO?
“Penso sia stata la cosa più naturale del mondo: volevo una chitarra a tutti i costi, ero innamorato del suono di questo strumento. Avevo circa undici o dodici anni e adoravo i fratelli Young per quello che facevano negli AC/DC, così come altre band del tempo, e mi interessavano solo le chitarre, ne ero praticamente ossessionato. Alla fine ho avuto una chitarra acustica, e ovvio che all’inizio non cercavo certo di replicare, che so, quello che faceva Randy Rhoads con Ozzy; a parte che non ne ero capace, ma non era nemmeno quello che mi interessava. Avevo questo vecchio microfono, poco più di un giocattolo e che ho ancora, e armeggiando con quello e con lo stereo sono riuscito a ottenere il mio suono, che alla fine era simile a quello che si ottiene con un distorsore. Parliamo del 1986, più o meno. Poi dal 1987 agli inizi del 1988 ho preso lezioni di chitarra classica una volta alla settimana, cosa che ho replicato dal 1991 al 1994, con anche un po’ di teoria, ma non era il mio forte. Ma sicuramente queste lezioni mi hanno insegnato molte cose che prima non avrei mai potuto suonare”.

IN CHE MODO IL POSTO IN CUI VIVI (O IN CUI HAI VISSUTO) INFLUENZA LA MUSICA CHE CREI O I TUOI GUSTI MUSICALI? AVETE INIZIATO COME BAND THRASH METAL IN COLOMBIA, POI AVETE VIRATO VERSO IL BLACK METAL POCO PRIMA DELLO SPOSTAMENTO NEGLI STATI UNITI. C’È QUALCHE LEGAME TRA I CAMBIAMENTI NEL VOSTRO SOUND E I VOSTRI SPOSTAMENTI?
“In realtà io vedo tre fasi, nella nostra carriera: la prima, che citavi tu, in cui facevamo thrash, poi una compiuta fase black metal e infine quella che coincise col muovermi qui a Seattle. E, certo, ha avuto un’influenza, questo. Se me lo avessi chiesto anni fa non avrei saputo risponderti, e ancora adesso non so dirti in cosa consista la differenza, ma in retrospettiva è evidente che l’ambiente e ciò che ti circonda ti influenzano. E’ insieme di molte cose, che nel caso del trasferimento rappresenta un’intera nuova vita, in cui puoi anche trovarti isolato o isolarti volontariamente; il nostro primo album nasce proprio da ciò: avevo un lavoro a tempo pieno, c’era una scena locale che frequentavo, ma non era come in Colombia, dove avevo letteralmente migliaia di persone che conoscevo attorno. Mi sono trovato ad affidarmi solo a me stesso e, per quanto possa sembrare un modo di dire poetico, poi ti dici, ‘ecco, ora capisco come la musica fiorisca davvero nella solitudine’. Ed è anche il motivo per cui apprezzo la città dove vivo”.

SAPPIAMO CHE I MUSICISTI TENDONO A EVITARE DI SCEGLIERE CANZONI O ALBUM PREFERITI PER VARIE RAGIONI, MA C’È QUALCHE CANZONE O UN ALBUM DI CUI MAGARI RICORDI CON PIACERE IL FATTO DI AVERLA COMPOSTA?
“Ah, questa è una gran bella domanda! Ci devo davvero riflettere (borbotta e intanto ripete che ci sta davvero pensando, ndR), per quanto ami per intero diversi nostri album e quasi tutte le nostre canzoni, sceglierei ‘Enshrouded by Cryptic Temples of the Cult’, perché quando guardo fuori dalla finestra quando sono qui a Seattle la sento perfettamente calata nel paesaggio e nel clima che vedo; il che a dirla tutta vale anche per alcuni pezzi che ho composto nel 1997 per ‘Into The Infernal Regions Of The Ancient Cult’. Poi, sicuramente, ‘Obscure Verses For The Multiverses’, per come suonano la voce e i riff”.

PASSATE MOLTO TEMPO IN TOUR; LO TROVI UTILE RISPETTO AL MATERIALE O AI TEMI DI CUI SCRIVERE? O ALL’OPPOSTO È QUALCOSA DI ESTENUANTE, SPECIE ESSENDO SOLO IN DUE A OCCUPARVI DI TUTTO?
“Entrambe le cose. Provo a spiegarmi: è difficile essere felice nel fare qualcosa che non ti piace, ma per quanto stanco ed esausto questa vita di musica ti porta sempre soddisfazioni. Certo, è ovvio che è diverso visitare Disneyland o lavorarci tutti i giorni: a volte vorresti un’altra vita, al di fuori, ma la puoi programmare solo intorno ai tour e agli altri impegni. Non è sempre tutto perfetto, ma ti stanchi per qualcosa che ami e per cui non solo tu, ma molta gente ha grandi aspettative. E anche in questo sono i fan a farti sentire sempre più motivato; è grazie a chi ci ascolta che non ho più un lavoro a tempo pieno a parte la musica e io sono davvero grato di questo; ovviamente non è facile vivere sempre in relazione ai fan, ai media e ad altre persone che, a volte, non si ricordano che tu in fondo sei un estraneo e loro lo sono per te; ma se c’è rispetto da parte loro non puoi trincerarti dietro la stanchezza o altro: hai delle responsabilità, sul palco e fuori, sei una persona pubblica! (ride di gusto, ndR). E’ il fottuto potere della musica”.

IL “NOSTRO” PAOLO GIRARDI HA CURATO LE GRAFICHE PER UNA SERIE DI VOSTRE RISTAMPE USCITE RECENTEMENTE SU SEASON OF MIST, MA PER IL NUOVO ALBUM VI SIETE AFFIDATI A UN ARTISTA DIFFERENTE, VINCENT FOUQUET. QUANT’È IMPORTANTE L’ASPETTO VISIVO NELLA VOSTRA ARTE?
“La risposta immediata è che sicuramente volevamo ancora Paolo, ma al tempo stesso la tua domanda contiene le vere ragioni per cui ci siamo affidati a Vincent: Paolo era molto occupato sulle ristampe e, al tempo stesso, il suo artwork in qualche modo si identificava con quel momento della nostra discografia. Intendiamoci: io, per esempio, ero un grande fan degli Iron Maiden e aspettavo sempre di vedere le loro nuove copertine, o quelle degli Slayer, che avevano artisti di cui identificavi la mano e la grafica, anche se adesso non ricordo i loro nomi (rispettivamente Derek Riggs e Larry Carroll, ndR). Ma anche l’etichetta voleva che in qualche modo le ristampe avessero un loro tratto distintivo, e in fin dei conti Paolo, appunto, era già molto preso. Abbiamo quindi contattato vari artisti, finché è uscito il nome di Vincent; è subito venuto fuori del materiale che lui voleva usare e che ci è sembrato funzionare, coerente con i nostri artwork, senza mai spingere troppo la mano”.

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