I Jethro Tull sono una formazione tanto leggendaria quanto unica all’interno del panorama della musica rock e non solo per aver portato alla ribalta uno strumento, il flauto, proveniente dal mondo accademico della musica classica. Nella loro carriera ormai cinquantennale, infatti, hanno navigato con sicurezza tra i generi, unendo blues, progressive rock, folk, musica acustica, jazz e rivisitazioni classiche, sempre guidati con mano ferma dal leader e fondatore Ian Anderson, che abbiamo oggi il piacere di ospitare sulle nostre pagine. L’occasione ci è data da “The Zealot Gene”, nuovo album pubblicato su Inside Out, che vede Ian Anderson tornare a scrivere musica con il nome Jethro Tull. “Troppo vecchi per il rock ‘n’ roll, troppo giovani per morire”, chiosavano già nel lontano 1976 in un loro celebre concept album, ed è forse vero che oggi la musica dei Jethro Tull è meno infuocata e selvaggia, essendo scritta e composta da un musicista ultrasettantenne, ma l’energia e lo spirito sono rimasti immutati, come dimostrano le centinaia di date che la band ha continuato a macinare prima del blocco forzato causato dalla pandemia. A guidarci alla scoperta di questo nuovo capitolo, quindi, ecco le parole di Ian Anderson in persona.
IAN, INIZIAMO QUESTA INTERVISTA PROPRIO DAL NUOVO ALBUM, “THE ZEALOT GENE”. TI VA DI RACCONTARCI IL PROCESSO DI SCRITTURA CHE TI HA PORTATO A QUESTO NUOVO LAVORO TARGATO JETHRO TULL?
– Sì, tutto è partito all’inizio del 2017, quando iniziai a lavorare a questo nuovo progetto: avevo deciso che avrei pubblicato un album rock e che l’avrei fatto a nome Jethro Tull. Il processo di scrittura è andato avanti dagli inizi di gennaio fino a marzo, quindi ho mandato dei demo alla band, in modo da permettere loro di prepararsi. A quel punto sono seguiti cinque giorni di prove ed infine quattro giorni per le registrazioni delle loro parti. In quella occasione abbiamo registrato sette canzoni, ma quattro di queste sono state completate solo qualche mese dopo perché, come nella maggior parte degli anni, eravamo anche in tour e in più stavo lavorando all’album con il quartetto d’archi (“The String Quartets”, pubblicato proprio nel 2017, ndR). Per un motivo o per un altro, dunque, il resto delle registrazioni è stato rimandato più volte: entro marzo avevo scritto un totale di dodici canzoni, ma non riuscivo a trovare il tempo per registrare le ultime cinque. Poi è arrivata la pandemia e tutto è rimasto sospeso fino agli inizi del 2021. Mi sono ritrovato chiuso di nuovo in lockdown e ho deciso che era arrivato il momento di completare l’album, registrando le ultime canzoni a casa, mentre gli altri ragazzi mi hanno mandato dei file con il loro contributo, da aggiungere poi sulle mie registrazioni. Abbiamo completato il tutto intorno a giugno, compreso l’artwork, mentre il mixaggio in 5.1 è stato terminato in un secondo momento da un ingegnere esterno. Come vedi quindi c’è voluto parecchio tempo per completare l’album, ma se contiamo semplicemente il numero di ore effettive impiegate per le registrazioni, queste non sono molto diverse da quelle impiegate negli album precedenti, sono state solo diluite nel tempo. Anzi, devo dire che in generale lavoro piuttosto velocemente, non amo passare giorni e giorni a lavorare sulla stessa canzone.
QUINDI PIU’ MENO QUANTO TI SERVE PER FINIRE UNA CANZONE?
– Mi piace pensare che si possa provare una canzone per un giorno e registrarla in un altro giorno. Poi, volendo, un altro giorno per le rifiniture ed alcune sovraincisioni, ad esempio sugli strumenti acustici che devono essere registrati separatamente. Per riassumere, quindi, una canzone dovrebbe occupare non più di quattro giorni, uno per le prove, uno per la registrazione, uno per le sovraincisioni e l’ultimo per il mixaggio. Moltiplica dodici canzoni per quattro e fanno quarantotto giorni di lavoro: un tempo più che ragionevole per la realizzare un album, che è anche basso rispetto agli standard di altri artisti. Tieni presente anche che non passiamo dodici ore consecutive a provare o registrare, la giornata lavorativa è di circa otto ore, compresa la pausa per il pranzo.
L’ALBUM E’ STATO PUBBLICATO A NOME JETHRO TULL, AL CONTRARIO DEI TUOI ULTIMI LAVORI SOLISTI, CHE PURE VEDONO UNA FORMAZIONE PRATICAMENTE IDENTICA. COME MAI QUESTA SCELTA?
– I ragazzi della band suonano con me da tanti anni ormai e hanno partecipato a molti miei album, ma non avevano mai avuto occasione di far parte di un album dei Jethro Tull, pur avendo fatto centinaia e centinaia di concerti come Jethro Tull. Questo è stato il motivo principale.
QUALI TEMATICHE HAI TRATTATO INVECE NEI TESTI? CI SEMBRA DI CAPIRE CHE CI SIANO DIVERSI SPUNTI RELIGIOSI O COMUNQUE BIBLICI.
– Quando iniziai a pensare a questo progetto, avevo in mente l’idea di scrivere un album composto da dodici canzoni in un contesto rock. Avevo anche deciso che ogni canzone avrebbe trattato un diverso stato dell’animo umano, una specifica emozione. Questo era il tema di fondo: canzoni diverse, emozioni diverse. Per farlo, quindi, ho messo giù una lista di emozioni, emozioni forti, alcune positive come amore, amicizia, compassione, carità, lealtà; altre negative come rabbia, gelosia, vendetta. Ho guardato questa lista e mi sono trovato davanti ad una serie di concetti che erano tutti contenuti nella Bibbia. Ho fatto quindi una ricerca di tutti i riferimenti che si potevano trovare su questi sentimenti nei testi biblici, ne ho copiata quindi una parte in un documento che è rimasto lì sul mio desktop, come una sorta di riferimento da usare durante la composizione. Ci sono un paio di canzoni che hanno una specifica ambientazione biblica, ma nella maggior parte dei casi si tratta più che altro di parallelismi che si riflettono nel nostro mondo odierno. Uso dei contesti biblici come riferimento, ma li leggo in un contesto moderno, una metafora per qualcosa che invece ha radici storiche, o un parallelismo per creare un confronto o un’analogia. D’altra parte metafore e analogie sono gli strumenti che usano gli scrittori e io sono uno scrittore quando compongo i testi, uso gli stessi strumenti linguistici per dare forma al mio pensiero in un testo, che sia in prosa o in una canzone.
PARLANDO DI EMOZIONI FORTI E TOTALIZZANTI, VIENE SPONTANEO FARE RIFERIMENTO ANCHE AL MONDO DEI SOCIAL, UN LUOGO VIRTUALE IN CUI LE IDEE APPAIONO SEMPRE PIU’ DIVISIVE E POLARIZZATE. SEMBRA SEMPRE CHE CI SIANO DUE SCHIERAMENTI OPPOSTI CHE CERCANO DI PRENDERE IL SOPRAVVENTO L’UNO SULL’ALTRO.
– Penso che le cose siano andate così fin dalla notte dei tempi, i social media semplicemente danno modo a più persone di esprimere il loro parere e nella maggior parte dei casi il loro parere non merita la fatica di essere letto. Certo si può avere un interesse moderato nel parere altrui, ma in genere si tratta di idee piuttosto ingenue e sciocche, espresse anche male e con molta rabbia. E questo succede soprattutto a coloro che hanno delle forti convinzioni. Prendi una cosa come Twitter: uno beve due bicchieri di vino di troppo e di punto in bianco si trova a scrivere questi tweet che, con tutta probabilità, il giorno successivo lo metteranno solo in imbarazzo. Ma il mondo va così e credo sia troppo tardi per cambiare le cose. Forse dipende solo dalla semplicità con cui strumenti come Twitter permettono di poter esprimere le proprie idee. In una moderna democrazia occidentale non è necessariamente una brutta cosa, ma è anche importante diventare responsabili, in primo luogo quando si esprimono le proprie idee, ma anche quando si leggono quelle degli altri. Imparare a prenderle un po’ ‘con le pinze’, perché non dobbiamo necessariamente andare dietro a tutte le idee che si leggono, non siamo obbligati per forza ad arrivare alla fine del paragrafo. Personalmente non voglio avere a che fare con i social media, se non come strumento di marketing e promozione per segnalare l’uscita del disco o un concerto, ma non comunico mai con le persone via Facebook o Twitter. Se ho voglia di sentire qualcuno lo chiamo al telefono o gli mando un’email, qualcosa di personale, solo per loro. Non ho assolutamente nessun interesse nell’iniziare una conversazione pubblica su un social media, che sia con i fan o che sia con qualcuno che mi odia o che vuole minacciarmi. Non sento alcun bisogno di farlo e quindi evito. Ovviamente qualche volta mi trovo a leggere quello che scrivono gli altri, come negli anni d’oro di Donald Trump, quando twittava tre-quattro volte al giorno, dicendo delle cose terribili: in quei momenti mi rendevo conto di quanto la gente possa essere stupida.
TORNANDO ALLA MUSICA, ABBIAMO AVUTO MODO DI VEDERE UNA DELLE ULTIME DATE ITALIANE DEI JETHRO TULL, A TORINO, E ABBIAMO APPREZZATO MOLTO L’OMAGGIO CHE AVETE PROIETTATO NEI CONFRONTI DEI PASSATI COMPONENTI DELLA BAND. COSA DEVE AVERE UN MUSICISTA PER POTER AMBIRE A FARE PARTE DELLA TUA FORMAZIONE?
– Sicuramente la cosa più importante è che musicalmente sia in grado di offrirmi qualcosa in più, qualcosa di diverso da quello che faccio io abitualmente. Credo sia bello poter lavorare con persone con un background diverso, perché sono sempre in grado di arricchire la musica. Se tutti i membri dei Jethro Tull avessero avuto i miei stessi interessi e le mie stesse radici, probabilmente il risultato non sarebbe stato altrettanto interessante. Avremmo forse fatto una musica sempre uguale. Poi ovviamente i miei collaboratori devono essere dei bravi musicisti, tecnicamente capaci di suonare non solo la nostra musica attuale, ma anche in grado di riprodurre quella dei loro predecessori, che magari l’anno registrata trenta o quarant’anni prima. Bisogna essere preparati, perché dal vivo spesso torniamo indietro nel tempo fino agli inizi della band, quindi è importante che i musicisti comprendano la musica, siano capaci di suonarla e devono anche portare qualcosa di loro, da aggiungere. Non si tratta solo di replicare qualcosa fatto da altri: è una questione di intuito, da una parte ricreare quello che è stato fatto dai tuoi predecessori, e dall’altra cambiare dei dettagli, alcune note, una diversa enfasi. Sicuramente c’è più flessibilità nell’essere un musicista nei Jethro Tull piuttosto che il primo violino dell’Orchestra Filarmonica di Berlino. In quel caso devi suonare esattamente quelle note, non esiste flessibilità. Ogni sfumatura è a discrezione del direttore d’orchestra, non del musicista. E’ il motivo ad esempio per cui James Galway lasciò la Filarmonica: von Karajan, che all’epoca ne era il direttore, pretendeva che James suonasse il suo assolo di flauto in un determinato modo. Si è sentito ingabbiato, per quanto ammirasse molto von Karajan, e non riusciva a portare qualcosa di sé all’interno della performance. Iniziò così una sua carriera solista e riprese a suonare con delle orchestre solo successivamente, quando aveva ormai raggiungo una posizione tale da potersi permettere una maggiore interpretazione. Ma anche in quel caso un musicista classico deve suonare le note così come sono scritte, mentre io non ho mai chiesto niente del genere ad un musicista dei Jethro Tull. Nemmeno lo vorrei, non mi piacerebbe che le canzoni venissero suonate nota per nota così come sono state registrate sull’album originale.
APPROFITTO DI QUESTA TUA PARENTESI SUL MONDO DELLA MUSICA CLASSICA: QUANTO E’ ACCADEMICO IL TUO MODO DI SUONARE IL FLAUTO?
– La prima volta che riuscii ad emettere una nota da un flauto fu nel dicembre del 1967. Credo fosse un sol. Poi poco per volta arrivai a riprodurre le altre note, un la, un si, un mi, un do… Pensai, ‘wow, ora che ho tutte le note di una scala blues, non mi serve altro’. Cinque settimane dopo stavo suonando il flauto sul palco del Marquee Club con la band. Quello che facevo era semplicemente prendere quello che conoscevo per la chitarra e tradurlo sul flauto: ero un autodidatta, di certo non avevo alcuna idea di quello che stessi facendo, mi stavo solo divertendo. Sono andato avanti così per una ventina d’anni, poi all’inizio degli anni Novanta iniziai a prendere lezioni di flauto in maniera più seria. Mi ero accorto infatti di usare una diteggiatura errata: mi ricordo bene di questa cosa perché mi trovavo a Mumbai, ero in hotel per una conferenza stampa ed erano i giorni immediatamente successivi agli attentati (nel 1993, ndR). In qualche modo ero riuscito a farmi mandare (via fax, perché ancora non c’era Internet) uno schema della diteggiatura corretta per il flauto. Iniziai quindi a studiarla lì, nella mia camera d’albergo, provando a riconsiderare il mio modo di suonare. Mi ci sono voluti sei mesi per passare alla corretta diteggiatura e per imparare a suonare il flauto a fori aperti. Questo tipo di flauto ha dei fori e mi permette di legare delle note, un po’ come fa un chitarrista quando fa un bending, anche se è una cosa che un musicista classico non farebbe mai, ma che invece è abbastanza comune nella musica indiana o nel folk. Anche in un certo jazz, ma di certo non nella musica classica. Tutt’ora lavoro molto sul flauto, perché voglio continuare a suonare nel mio stile rock, ma al tempo stesso esercitarmi a suonare in maniera più dolce. Il mio stile ora è diventato più vario e al tempo stesso più forte: passo circa due ore al giorno sul flauto, cercando costantemente di sviluppare il mio tono, la mia espressività, il vibrato, oltre a mantenermi in allenamento per dei concerti della durata di due ore. Le labbra si stancano nel suonare per così tanto tempo, quindi è importante fare esercizio per mantenere la performance su determinati standard.
CI RIMANE TEMPO SOLO PER UN’ULTIMA DOMANDA. IL NOSTRO PORTALE TRATTA QUASI ESCLUSIVAMENTE DI MUSICA METAL, QUINDI SIAMO RIMASTI MOLTO INCURIOSITI NEL SAPERE DI UNA POSSIBILE COLLABORAZIONE TRA TE E BRUCE DICKINSON. C’E’ QUALCOSA CHE PUOI GIA’ ANTICIPARCI SU QUESTA COSA?
– Mi piacerebbe, ma per ora ho solo ricevuto un paio di email da Bruce a cui ho risposto prima di Natale, ma poi lui non mi ha più scritto. Non so, magari ha cambiato idea oppure è impegnato (ride, ndR). Quello di cui avevamo parlato era di fare un paio di concerti assieme, entro la fine di quest’anno, ma vedremo, sono sicuro che mi contatterà di nuovo.