In un panorama musicale sempre più ampio, dove abbondano i nuovi fenomeni ma il ricambio generazionale resta un tema dibattuto, poche band hanno avuto un’accelerazione paragonabile a quella dei Jinjer, partiti dalla provincia di Donetsk e arrivati sempre più in alto, tanto in classifica quanto nei bill dei festival. Al di là dell’immagine ‘giusta’ e delle mode del momento, vogliamo credere il successo sia frutto della sana gavetta e di un sound che può vantare pochi eguali nella pur variegata scena djent, capace di evolvere di album in album fino a raggiungere i livelli di eccellenza dell’ultimo “Wallflower” (apice compositivo e futura pietra di paragone per la band stessa). A portarci nell’universo dei Jinjer è proprio la frontwoman Tatiana, molto più mite di come ci saremmo aspettati dopo averla vista on stage ma non per questo restia a confessarsi ai nostri microfoni, dai ricordi della gioventù trascorsa nell’ex blocco sovietico fino al potere dei social media nei tempi moderni…
COME VANNO LE COSE LÌ A KIEV?
– Bene, grazie! Ci stiamo preparando per l’uscita del disco, filmando video, provando per i prossimi show… Non vediamo l’ora di tornare finalmente in azione!
IL COVID-19 VI HA FERMATO PROPRIO QUANDO ERAVATE IN RAMPA DI LANCIO…
– E’ stato sicuramente frustrante perchè eravamo nel mezzo del tour per promuovere “Macro”, ma abbiamo lavorato così tanto per arrivare dove siamo arrivati; voglio quindi pensare che non sarà uno stop forzato ad averci fatto perdere quanto costruito finora. D’altro canto ci ha anche permesso di poterci concentrare sulla fase compositiva del nuovo album, quindi va bene così, si vede che era destino!
QUESTA LUNGA PAUSA HA INFLUITO SUL VOSTRO MODO DI COMPORRE?
– Sì, sono riconoscente del tempo che abbiamo avuto per effetto della pandemia, dato che finora avevamo sempre dovuto fare tutto di corsa nel giro di quattro mesi. Stavolta invece come dei veri musicisti abbiamo avuto un anno e passa per comporre, registrare… È stato decisamente diverso dal solito, ma meglio così.
CI RACCONTI IL SIGNIFICATO DI “WALLFLOWERS”?
– In genere scrivo i testi dopo aver sentito la musica: nel caso specifico nella prima parte (più tranquilla) parla di quando ti senti giù e vorresti essere lasciato solo ma la gente ti sta comunque addosso, e allora ti arrabbi fino al punto di ‘esplodere’.
INVECE CHI SONO I “COPYCAT”?
– ‘Copycat’ può essere riferito a molte persone, a partire da quegli artisti che non hanno niente da dire ma hanno fame di successo, quindi copiano dagli altri per avere loro stessi fama.
“CALL ME A SYMBOL” HA UN SIGNIFICATO AUUTOBIOGRAFICO?
– Non è riferito a me nello specifico, ma più all’idea di una ‘regina’, ad esempio della musica o dei social media, che cammina sopra una folla adorante senza curarsi di loro, mentre tutti sono intenti ad applaudire ed ammirarla. Per questo dico che non è personale, anche se ogni tanto mi piacerebbe essere quel tipo di persona lì (risate, ndr).
SEI COMUNQUE UN SIMBOLO, DALL’ALTO DEI TUOI 350.000 FOLLOWER SU INSTAGRAM…
– Non saprei, non mi sento molto a mio agio in questo ruolo e ho anche pensato di mollare tutto, ma Eugene (Abdukhanov, bassista ella band, ndr) mi ha chiesto di non farlo perchè sono importanti per l’immagine della band. Sono molto combattuta: ne capisco l’utilità ma al tempo stesso vorrei che fosse solo la nostra musica a parlare, mi piacerebbe tornare agli anni ’80-90 quando si doveva cercare la foto della band sulle riviste o in televisione, e c’era ancora un’aura di magia intorno alla musica. Ora sappiamo tutto degli artisti grazie ai social, e ormai possiamo perfino vedere i concerti senza nemmeno uscire di casa. La cosa più disgustosa in tutto questo è che chiunque ormai può dire la sua su quello che fai o come ti vesti, spalando merda su di te: per questo stavo pensando di abbandonare i social.
TORNIAMO ALLA MUSICA: NIENTE REGGAE STAVOLTA?
– Non abbiamo mai detto di essere una reagge metal-band (risate, ndr)! È solo successo qualche volta in passato ma non è qualcosa che dobbiamo fare per forza: forse nel prossimo album, chissà…
COVID A PARTE, E’ COMPLICATO PER VOI VIAGGIARE FUORI DALL’UCRAINA?
– Per fortuna, a differenza di qualche anno fa, non abbiamo più bisogno di visti per viaggiare almeno in Europa, altrimenti non credo saremmo riusciti a farci conoscere dovendo avere autorizzazioni per recarci in ogni paese. Per Australia, Giappone e Stati Uniti è ancora così, ma essendo grandi la cosa è più gestibile.
IMMAGINO NEGLI ANNI ’90 NON FOSSE FACILE VEDERE CONCERTI METAL IN UCRAINA…
– In effetti non posso dire di aver visto molti concerti da giovane. Il primo che ricordo credo fossero i Soulfly a Kiev nel 2003, quando avevo già più di vent’anni e studiavo: all’epoca eravamo a Donetsk quindi non era facile prendersi due/tre giorni liberi per spostarsi, comunque posso dire di aver recuperato in questi anni con i Jinjer (risate, ndr).
HAI SEGUITO OLIMPIADI ED EUROVISION?
– No, quando ero piccola e vivevo con i miei ero superappassionata e guardavo sempre le Olimpiadi, specie quelle invernali, ora invece non seguo più nulla. Il tempo libero è poco, e adesso preferisco occuparlo guardando le mie serie TV preferite come “Friends” o “The Big Bang Theory”.
ORMAI SI PARLA DI ‘ME TOO’ ANCHE NEL METAL, CON IL CASO MANSON MA NON SOLO: COME VEDI L’AMBIENTE DALL’INTERNO?
– Non mi piace fare gossip su altri artisti, quindi non mi esprimo sul caso Manson. Per quanto mi riguarda non ho mai avuto particolari episodi spiacevoli, anche se non mancano gli apprezzamenti a volte un po’ troppo spinti. Ad esempio una volta dopo uno show nella Repubblica Ceca eravamo a fare le foto col pubblico e un ragazzo, visibilmente ubriaco, mi ha tirato una pacca sul culo, che lì per lì mi ha lasciato scioccata. Nel tour americano con i Cradle Of Filth invece qualcuno ha iniziato a urlare cose tipo “Faccela vedere” o “Esci le tette”, mentre una volta in Romania un ragazzo mi ha tirato una birra sul palco ma è stato sommerso di fischi dal resto del pubblico.
VISTA LA TUA PASSIONE PER IL POP, A QUANDO UN SIDE-PROJECT SOLISTA?
– E’ una cosa che ho in mente da un po’, più che altro per divertimento senza necessariamente dover fare tour o altro, ma magari collaborando con qualche altro musicista. Credo che la musica pop possa avere diverse accezioni, da quelle più banali a quelle più raffinate, quindi vedremo appena avrò un po’ di tempo libero.
E INVECE QUALCHE SHOW ACUSTICO, VISTO ANCHE IL MOMENTO?
– Prima o poi credo lo faremo, ma la nostra musica è davvero difficile da replicare in un contesto acustico, quindi non so quando riusciremo a organizzarlo. Anche questo è qualcosa che ho in mente da un po’ di anni, ma dobbiamo trovare il momento giusto.
POTENDO SCEGLIERE, CON CHI TI PIACEREBBE DUETTARE?
– (Ci pensa un attimo, ndr) Su questo ho un punto di vista ondivago, dato che a volte avrei voglia di provare ma al tempo stesso non sono del tutto convinta. Credo che per un vero duetto serva la perfetta fusione di due voci, come ad esempio avviene tra Chino Moreno e Maynard Keenan in “Passengers” dei Deftones, dove l’amalgama è perfetta. Potendo scegliere comunque direi Kurt Cobain: tanti anni fa avevo fatto un sogno in cui eravamo in studio e Kurt mi invitava a suonare insieme, ma io ero troppo imbarazzata per accettare; forse è anche perchè qui da noi abbiamo una credenza che se una persona famosa ti invita a cantare in sogno e tu accetti poi morirai presto (risate, ndr)!
SCARAMANZIE PERMETTENDO, CHE CANZONE AVRESTI SCELTO?
– Credo “Heart-Shaped Box” o “Something In The Way”, ma anche “Son Of A Gun”… È difficile scegliere, sono tutte fantastiche!
A QUESTO PUNTO SAREI CURIOSO DI SENTIRE UNA TUA COVERE DEI NIRVANA…
– Ne abbiamo fatto una l’anno scorso, io ed Eugene con i ragazzi dei Suicide Silence: era “Territorial Pissing”, la puoi trovare su Youtube!
HAI MAI PENSATO DI CANTARE IN UCRAINO?
– In ucraino no, ma d’altronde la mia lingua madre è il russo ed abbiamo già fatto un pezzo così ed un altro con una intro; in futuro vedremo, mai dire mai!