Cinquanta, più uno. Il traguardo ‘monstre’ raggiunto dai Judas Priest in quanto a longevità artistica. Una statistica che da sola non direbbe nulla, farebbe solo volume, mentre se messa accanto a tutto quello che questi vecchi ragazzi originari di Birmingham hanno portato nel mondo della musica, sintetizza l’importanza avuta dal gruppo sulla scena metal mondiale. Che senza di loro, semplicemente, non sarebbe quella che conosciamo. Tra le varie sgasate della pandemia, non si può dire che la band abbia trascorso alla leggera gli ultimi due anni, con addirittura il rischio di perdere uno dei suoi membri più giovani, quel Richie Faulkner salvato con grande tempestività dai medici lo scorso settembre, quando ebbe un aneurisma durante un concerto negli Stati Uniti. Invece, con un K. K. Downing polemicamente fuori dalla formazione da tempo, un Glenn Tipton che nonostante i grossi problemi di salute è ancora una colonna portante – almeno per quanto riguarda il songwriting – un Rob Halford inossidabile a catalizzare le attenzioni, i Judas Priest sono ancora tra noi. Ed è ancora tra noi, pietra angolare silenziosa, quasi nell’ombra, l’unico membro fondatore rimasto. Colui che rappresenta i Judas Priest fin dal giorno 0. Ian Hill, il bassista mai sopra le righe e sempre un passo indietro i suoi più celebri compagni, è l’uomo che assieme a K. K. Downing ha dato vita per primo a tutto questo. Schivo, riservato, mai un gossip o una polemica che lo riguardasse. Meno appariscente del duo chitarristico e del carismatico frontman, non ne è minore l’importanza nell’aver portato i Judas Priest al successo planetario. A pochi giorni dal concerto al Rock The Castle, per una data attesa spasmodicamente dai fan, consapevoli che il tempo a disposizione della band non è infinito, è proprio Ian Hill a fare il punto della situazione in casa Priest, in un momento di pausa del tour incominciato a fine maggio.
Artista: Judas Priest | Data: 17 giugno 2018 | Evento: Firenze Rocks | Venue: Visarno Arena | Città: Firenze
BUONGIORNO IAN, IN QUESTO MOMENTO MI PARE SIATE A COPENHAGEN PER IL COPENHELL, GIUSTO (L’INTERVISTA SI È TENUTA IL 16 GIUGNO, NDR)?
– Sì, siamo a Copenhagen, una città adorabile, stasera saremo headliner al Copenhell, corretto.
COME È INIZIATO QUESTO TOUR, IL PRIMO IN EUROPA DOPO DUE ANNI IN CUI È STATO PRESSOCHÈ IMPOSSIBILE TENERE CONCERTI NEL CONTINENTE?
– È stato bello ripartire dopo due anni di divieti e restrizioni. Siamo tutti quanti contenti di essere di nuovo in tour. I maggiori pericoli sembrano essere alle spalle, sembra si possa ricominciare a lavorare senza avere più grosse preoccupazioni.
QUESTO TOUR CELEBRA I CINQUANT’ANNI DELLA VOSTRA ATTIVITÀ. DI QUESTI CINQUANT’ANNI, L’UNICA PRESENZA FISSA, DAL PRIMO GIORNO, È LA TUA. CHE SENSAZIONI TI DÀ QUESTO FATTO? COSA RAPPRESENTA PER TE?
– È stato indubbiamente un grande viaggio, di certo ai tempi nessuno avrebbe pensato che i Judas Priest ci sarebbero stati ancora oggi. Non è facile per nessuno portare avanti un’attività per un tempo così lungo, che sia la musica o altro. Sopravvivere per un periodo così lungo nell’industria dell’intrattenimento non è cosa da poco. Sul fatto che sia rimasto l’unico della formazione ad aver vissuto i primissimi giorni dei Judas Priest, beh, è una circostanza sulla quale non mi soffermo mai e che non ritengo così importante.
SEI SEMPRE RIMASTO UN PASSO INDIETRO RISPETTO AD ALTRI MEMBRI DEL GRUPPO, A DEFINIRE L’IMMAGINE DELLA BAND CI HANNO SEMPRE PENSATO ROB HALFORD, GLENN TIPTON E K. K. DOWNING. C’È STATO QUALCHE MOMENTO IN PASSATO NEL QUALE AVRESTI PREFERITO ESSERE UN PO’ PIÙ SOTTO I RIFLETTORI, AVERE PIÙ SPAZIO E PIÙ VISIBILITÀ, OPPURE L’ESSERE UN POCO IN DISPARTE NON TI È MAI DISPIACIUTO?
– Mi è sempre andata bene così la situazione. Rob, Glen, K.K., adesso Richie, sono bravissimi a stare in prima linea, ad essere tutti quanti degli ottimi frontman, disinvolti, sicuri, ottimi uomini di spettacolo. Va bene che siano loro a stare più esposti, a fare intrattenimento. Io formo la sezione ritmica assieme a Scott, mi va bene restare dove sono ad assolvere al mio compito, lasciando agli altri il compito di rappresentare visivamente la band, mentre io suono stando al mio posto.
IN CINQUANT’ANNI CAMBIANO TANTISSIME COSE, SI SUCCEDONO DIVERSE GENERAZIONI DI ASCOLTATORI, CAMBIANO LE MODE, L’INDUSTRIA MUSICALE SI STRAVOLGE, IL MODI DI FRUIRE LA MUSICA SI MODIFICA DRASTICAMENTE: COSA È RIMASTO SEMPRE UGUALE, NEL MONDO DELLA MUSICA E ALL’INTERNO DEL GRUPPO, E COSA INVECE È CAMBIATO MAGGIORMENTE IN QUESTO PERIODO?
– A rimanere intatto è l’entusiasmo. Amiamo quello che facciamo, anche adesso che non avremmo bisogno di continuare a suonare per vivere. Quello è sempre lo stesso, la ragione che ci spinge ad andare avanti. Abbiamo dei fan affezionati, che continuano a seguirci con grande affetto e questo è un fattore determinante perché un gruppo come il nostro possa proseguire la sua attività. Uno dei maggiori cambiamenti avvenuti in questi cinquant’anni è il modo in cui si ascolta la musica. Quando abbiamo cominciato a suonare un disco dovevi comprarlo e dovevi avere un mezzo che ti consentisse di ascoltarlo. Negli anni ’70, un modo economico per ascoltare gli album erano le cassette, negli anni ’80 sono arrivati i CD, che hanno migliorato la qualità sonora. Adesso c’è lo streaming. Io rimango affezionato al CD, per conto mio hai di più, quando compri un supporto fisico. Così hai l’album nella sua interezza, la sua copertina originale, il libretto, i testi, le indicazioni su chi ha suonato nel disco, chi è il produttore e via dicendo. Hai tutto il pacchetto, mentre con lo streaming hai solo la musica. Non hai neanche bisogno di comprarlo, l’album. E questo è un grosso problema economico per i gruppi, perché non riescono a rendere profittevoli i loro sforzi. Oggi è difficile per una realtà emergente trovare il modo di emergere, farsi strada nel mercato. La situazione dell’industria musicale odierna è sicuramente più favorevole a un gruppo come il nostro, con un catalogo molto ampio da poter sfruttare, mentre per chi è agli inizi è tutto molto più complesso e difficile. La maggior parte delle persone, se incrociano un gruppo che ha fuori soltanto un disco, finiranno per ascoltare uno-due canzoni al massimo di quell’uscita. La musica di quella band dovrà confrontarsi con milioni, cosa dico, miliardi di altre canzoni e farà molta fatica a farsi strada: gli utenti si trovano di fronte a cataloghi musicali sterminati, chi non è già famoso finisce per essere sommerso da questa vastità di scelta.
IL SUONO DEI JUDAS PRIEST È SEMPRE STATO IDENTIFICATO DALLA VOCE DI ROB HALFORD E DALLE DUE CHITARRE. CHE RUOLO GIOCA IL TUO BASSO NEL SUONO DEL GRUPPO E SU COSA TI SEI FOCALIZZATO NEL TUO MODO DI SUONARE PER RIUSCIRE A DARE SUPPORTO E CONNETTERE LE CHITARRE DI TIPTON E DOWNING E LA CARATTERISTICA VOCE DI HALFORD?
– Il basso e la batteria devono dare sostegno alla canzone, ne devono essere la base ed è sempre stato questo il mio ruolo nei Judas Priest. Ho cercato di fare cose semplici, di non intralciare le chitarre e la voce che rimangono il fulcro del nostro sound. A mio modo di vedere, se ti metti ad aggiungere troppe cose, se come bassista andassi a cercare partiture difficili, il nostro stile si appesantirebbe, sarebbe meno efficace. Quindi mi concentro sulla semplicità, sull’essenziale.
NEL TUO RUOLO DI BASSISTA TI SEI INTERFACCIATO NEGLI ANNI CON DIVERSI BATTERISTI. COME HA FUNZIONATO NEL TEMPO IL RAPPORTO CON QUESTI BATTERISTI E COME SI È MODIFICATO IL TUO STILE PER ADATTARTI ALLE LORO DIVERSE ESIGENZE?
– Non ho cambiato moltissimo il mio modo di suonare dagli inizi ad oggi. Il cambiamento più grosso c’è stato quando Glenn è entrato in line-up, fino ad allora suonavo con le dita, quando è arrivato lui ho avuto bisogno di un suono più potente e ho cominciato a utilizzare il plettro. Altrimenti il mio basso sarebbe rimasto costantemente sullo sfondo, solo un piccolo rumore. Dopo “Rocka Rolla”, quando è entrato Alan Moore al posto di John Hinch, ad oggi, non ho dovuto modificare tantissimo il mio stile. Quando è arrivato Scott, nel 1989, abbiamo iniziato ad andare più veloci, e io mi sono dovuto per forza adeguare. Con Scott ci integriamo bene, è un ottimo professionista ed è molto preciso, credo che formiamo una sezione ritmica affidabile. Non per fare un torto agli altri drummer che abbiamo avuto in precedenza, ma ritengo che Scott Travis sia il migliore che abbiamo avuto con noi, il più tecnico, il più potente, tra quelli passati nei Judas Priest.
DELL’INTERA DISCOGRAFIA DEI JUDAS PRIEST, DOVESSI SCEGLIERE DI ISTINTO IL PRIMO ALBUM CHE TI VIENE VOGLIA DI RIASCOLTARE, QUALE SAREBBE?
– Mi viene difficile fare una scelta così netta, sono affezionato a tutto quello che abbiamo prodotto in carriera. Se proprio dovessi sceglierne uno soltanto, sarebbe “Defenders Of The Faith”, anche se con un distacco minimo rispetto ad altri nostri dischi.
IN QUESTO PERIODO SU METALITALIA.COM STIAMO CURANDO UNO SPECIALE SU DI VOI, RIPERCORRENDO TUTTA LA DISCOGRAFIA E LA VOSTRA STORIA. È STATO PER NOI UN MOMENTO UTILE PER RISCOPRIRE CANZONI CHE CONOSCEVAMO MENO, QUALCHE ‘GEMMA’ DIMENTICATA. IN QUESTO PERCORSO, UNA DELLE CANZONI CHE CONOSCEVO POCO E MI HA MERAVIGLIATO È “FIRE BURNS BELOW”, UTILIZZATA COME BONUS TRACK IN UNA EDIZIONE DI “STAINED CLASS” E REGISTRATA DURANTE LE SESSIONI DI REGISTRAZIONE DI “RAM IT DOWN”, DAL QUALE RIMASE ESCLUSA. VOLEVO SAPERE SE RICORDI QUALCOSA DI PARTICOLARE RIGUARDO A QUESTO PEZZO E LA SUA GENESI.
– All’epoca probabilmente arrivammo al termine delle registrazioni che questa traccia non era ancora stata terminata, per “Ram It Down” scrivemmo molta più musica di quella che sarebbe poi finita nel disco. Diciamo anche che “Fire Burns Below” non si adattava all’atmosfera generale di quell’album, la lasciammo da parte anche per quel motivo, pensando di poterla utilizzare in qualche pubblicazione futura. Sulla tracklist ‘regolare’ di un disco, alla fine, non ci è mai finita. In effetti è uno di quei brani che anche per noi era finito nel dimenticatoio, l’abbiamo risentita un po’ più avanti rispetto a quando era stata composta e ci siamo accorti che sarebbe stato un peccato non farla sentire. Almeno siamo riusciti a inserirla come bonus track per “Stained Class”.
UNA CANZONE USCITA SU “SIN AFTER SIN” E CHE NON VIENE DI SOLITO MESSA TRA I VOSTRI CLASSICI, MI PARE ANCHE POCO SUONATA DAL VIVO, È “HERE COMES THE TEARS”. COME NASCE QUESTA CANZONE E COME LA GIUDICHI OGGI?
– La particolarità di questa canzone è il modo in cui cresce. Parte piano, e poi sale di intensità, poco per volta, un gradino dopo l’altro, sommessamente, fino all’esplosione finale. In effetti nelle setlist è entrata giusto per uno-due tour di supporto a “Sin After Sin”, poi credo ne sia uscita per sempre. Il motivo per cui non la suoniamo mai è che in fondo è una ballad, nei live dei Judas Priest non ci possono essere troppe ballad e questo impone delle scelte. Potrebbe essere un’idea per un prossimo tour (risate, ndR).
SONO DIVENTATE FAMOSE DA PARTE VOSTRA ALCUNE COVER REALIZZATE PER BRANI POP E ROCK MOLTO DISTANTI DALLO STILE DEI JUDAS PRIEST E DALL’HEAVY METAL IN GENERALE. VOLEVO CHIEDERTI QUALE FOSSE LA TUA PREFERITA, QUELLA CHE AMI MAGGIORMENTE SUONARE. E VOLEVO ANCHE CONOSCERE SE CI FOSSE UN BRANO CHE AVRESTI VOLUTO FOSSE COVERIZZATO DALLA BAND MA NON È MAI ACCADUTO DI FARLO.
– Ci sarebbe piaciuto coverizzare “Oh Well” dei Fleetwood Mac, una canzone del 1969 che abbiamo avuto in testa per un po’ di tempo e per un motivo o per l’altro non siamo riusciti mai a registrare. Rimango molto affezionato al materiale di quegli anni dei Fleetwood Mac, infatti delle nostre cover forse la mia preferita è proprio “The Green Manalishi (With The Two-Prong Crown), è diventata un classico anche per i fan, una delle canzoni preferite da chi ascolta i Judas Priest.
UNA DELLE CARATTERISTICHE RIMASTE INTATTE NEI JUDAS PRIEST ANCHE IN FASE AVANZATA DELLA CARRIERA È QUELLA DI VOLER SEMPRE OSARE, ANCHE ARRIVATI IN UN MOMENTO DELLA CARRIERA DOVE DI SOLITO SI TENDE AD ANDARE SUL SICURO E PRENDERSI POCHI AZZARDI. L’ULTIMO ALBUM NEL QUALE VI SIETE SPINTI PARECCHIO OLTRE LE ATTESE, NON MOLTO COMPRESO DALLA VOSTRA FANBASE, SE NON SBAGLIO, È “NOSTRADAMUS”. OGGI, COME LO VALUTI? PENSI CHE AVRESTE POTUTO COSTRUIRLO IN MANIERA DIVERSA, RENDENDOLO UN POCO PIÙ SCORREVOLE E DIRETTO?
– È un concept album, per essere compreso e assimilato al meglio necessita di essere sentito dall’inizio alla fine, senza interruzioni. C’è tantissima musica al suo interno, e nei tour successivi alla sua pubblicazione siamo riusciti a estrarne delle canzoni per le nostre setlist, anche se non tutte rendono al meglio, se estrapolate dal contesto del concept. È un album che ci ha richiesto uno sforzo immane, due anni per comporlo e registrarlo e anche oggi penso che abbiamo fatto un ottimo lavoro, non gli apporterei delle modifiche. È sicuramente un album che si fatica ad amare nella sua interezza, per ‘colpa’ della sua varietà: ci sono tipologie di canzoni diametralmente opposte, chi lo ascolta probabilmente fatica ad affezionarsi a “Nostradamus” perché alcune cose lo colpiscono e altre lo catturano meno. Per seguire il flusso narrativo abbiamo inserito molte ballad, può essere uno dei motivi per il quale perde immediatezza. D’altronde, per raccontare la storia avevamo bisogno di quel tipo di composizione.
UN ALTRO DISCO DI GRANDE VALORE E, PER LA SUA COLLOCAZIONE TEMPORALE, È RIMASTO IN SECONDO PIANO RISPETTO AD ALTRI, RITENGO SIA “RAM IT DOWN”. ARRIVARE DOPO “TURBO” E PRIMA DI “PAINKILLER” LO METTE NEL MEZZO A DUE ALBUM-SIMBOLO DELLA VOSTRA CARRIERA E “RAM IT DOWN” PER QUESTO MOTIVO VIENE SPESSO RELEGATO A OPERA MINORE. RAPPRESENTA UNA FUSIONE DEL VOSTRO ANIMO PIÙ COMMERCIALE RAPPRESENTATO DA “TURBO” E LA VIOLENZA DI “PAINKILLER”: PENSI CHE AVREBBE POTUTO AVERE PIÙ SUCCESSO DI QUELLO EFFETTIVAMENTE OTTENUTO?
– Arrivavamo da un periodo non facile: avevamo esaurito una certa linea sonora con “Defenders Of The Faith” e con “Turbo” avevamo sperimentato in tutt’altra direzione. Così avevamo guadagnato nuovi fan ma avevamo perso quelli più legati alla nostra dimensione heavy metal. Volevamo tornare ad essere molto più duri e metallici. È un album che segna un’altra trasformazione, da lì ci siamo rimessi sulla carreggiata che ci avrebbe portati in seguito a “Painkiller”.
UNA DOMANDA CHE MI VIENE NATURALE PORRE AD ARTISTI COME VOI, CON MOLTI ANNI DI CARRIERA ORMAI ALLE SPALLE, È QUALI SIANO I VANTAGGI DI AVERE SULLE SPALLE TUTTA QUESTA ESPERIENZA SULLE SCENE, E QUALI SIANO INVECE I PROBLEMI NELL’ESSERE ANCORA IN PIENA ATTIVITÀ, IN UN’ETÀ DOVE MAGARI UN PO’ DI STANCHEZZA PUÒ INIZIARE A FARSI SENTIRE.
– Si usa spesso affermare che andare in tour mantiene giovani (risate, ndR). Non so se sia propriamente vero, però aiuta a sentirsi ancora giovani e pieni di energia. Certo, non ti nego che a volte si senta molto la fatica e alcune cose possano pesare ma per me e Rob, che attualmente siamo i più anziani nel gruppo, tutto sommato è ancora divertente e non così stressante esibirci. Penso che siamo ancora in buona forma quando suoniamo dal vivo, dei buoni performer. Forse le persone cominciano a vederci come musicisti un po’ ‘anziani’, ma non diamo ancora l’impressione di non avere energie. Insomma, per il momento ci piace quello che facciamo e non abbiamo intenzione di fermarci.
QUANTO HEAVY METAL ASCOLTI OGGI E QUALI SONO LE BAND CHE PREFERISCI, TRA QUELLE PROVENIENTI DA UNA GENERAZIONE SUCCESSIVA ALLA TUA?
– Sarò onesto, quando finiamo di registrare un disco sono spesso così saturo di musica che poi faccio una gran fatica a mettermene ad ascoltare dell’altra, per cui passa anche molto tempo senza che mi metta a sentire qualcosa. Per questo motivo non ho un’opinione così dettagliata sulla scena metal attuale. Recupero un po’ durante i festival quando, magari distrattamente, mi capita di sentire qualcosa delle altre band che si esibiscono in giornata. E se devo formulare una previsione per il futuro, credo che l’heavy metal abbia un grande futuro davanti a sé, ci sono giovani gruppi molto bravi e preparati che potranno produrre ottima musica anche per gli anni a venire.
PER QUANTO RIGUARDA IL NUOVO ALBUM, COSA CI PUOI DIRE? I LAVORI, STANDO AGLI ULTIMI AGGIORNAMENTI FORNITI, SAREBBERO A BUON PUNTO…
– Il grosso del lavoro è stato fatto, batteria e chitarre ritmiche sono state registrate, le voci, almeno in forma grezza, sono a posto. Dopo il tour registreremo le linee di basso, quindi perfezioneremo le voci. A quel punto toccherà a Glenn e Ritchie inserire le chitarre soliste e infine potremo dedicarci alla produzione vera e propria. Insomma, l’album sta prendendo la sua forma definitiva, c’è ancora un po’ di lavoro da completare ma siamo a buon punto.
A PROPOSITO DI GLENN, QUAL È IL SUO ATTUALE STATO DI SALUTE E QUAL È IL SUO RUOLO ALL’INTERNO DELLA BAND?
– Il problema principale di Glenn è quello di svolgere un’attività a lungo, si affatica relativamente in fretta. Dal vivo quindi è impossibilitato a suonare, se non per momenti molto brevi. In studio è diverso, perché può prendersi più pause, può gestire meglio il tempo e le energie. A livello di idee è ancora molto presente, sul nuovo album ha inciso molto la sua presenza e c’è ancora una forte impronta di Glenn Tipton sulla musica dei Judas Priest.
ALL’INIZIO DEGLI ANNI ’90, NONOSTANTE PER VOI CI FU IL SUCCESSO DI “PAINKILLER”, L’HEAVY METAL PIÙ CLASSICO NON GODEVA DI UNA SALUTE FORMIDABILE. PROPRIO IN QUESTE ULTIME SETTIMANE MI È CAPITATO DI LEGGERE DI PERSONE CHE AVEVANO PARTECIPATO AD ALCUNI CONCERTI PROPRIO DEL TOUR DI “PAINKILLER” E SI PARLAVA DI UN NUMERO DI SPETTATORI BEN INFERIORE A QUELLO DI OGGI, QUALCHE CENTINAIO DI PERSONE E NON DI PIÙ. TI SARESTI ASPETTATO CHE, TRENT’ANNI DOPO, LA SITUAZIONE SAREBBE STATA COSÌ POSITIVA, RISPETTO A QUEI TEMPI?
– Per fortuna già nel corso degli anni ’90 la situazione si è modificata, specialmente in America l’heavy metal è diventato ‘fashion’, e quindi siamo riusciti a cavalcare quest’onda. Noi dal canto nostro abbiamo proseguito a fare quello che sapevamo fare, oggi alcuni dei festival più grandi al mondo sono heavy metal ed è bello vedere tutto questo interesse attorno alla nostra musica. Adesso l’heavy metal è più popolare che mai, penso che sia andato a coprire uno spicchio di musica che non era coperto da cose come il pop, il jazz, la classica, e lì è riuscito a prosperare e ad attrarre sempre più persone. Ora il metal è dappertutto, puoi trovare festival dedicati in ogni angolo del pianeta. Forse soltanto all’Eurovision Song Contest non c’è nulla di heavy metal (risate, ndR).
HO UN’ULTIMA DOMANDA PER TE: SETTIMANA PROSSIMA SUONERETE AL ROCK THE CASTLE L’UNICA DATA ITALIANA DI QUESTA TOURNEE ESTIVA. VOLEVO SAPERE COSA TI ASPETTI DA QUESTO CONCERTO E QUALI SONO I TUOI RICORDI DELLE PASSATE ESPERIENZE IN ITALIA CON I JUDAS PRIEST.
– L’ultima volta che siamo venuti in Italia era nel 2018, a Firenze, fu una bella esperienza in una città stupenda. Ricordo tanti begli show in Italia, in particolare ho in mente uno tenutosi a Milano, mi pare all’interno di un festival, non ricordo esattamente di quale anno si tratti.