A giudicare dall’accoglienza ricevuta anche sulle nostre pagine, è innegabile che l’ultimo album dei Kamelot rappresenti un gradito ritorno su livelli qualitativi intoccati già da diverso tempo: in particolare il penultimo album “The Shadow Theory” fatica ancora oggi a trasmetterci un accenno di convinzione, al contrario del nuovissimo “The Awakening”, il cui titolo di fatto rappresenta non solo il risveglio dal torpore di una delle power metal band più popolari al mondo, ma anche dell’intera umanità, a seguito di un periodo sofferente durato anche troppo – anche se potremmo discutere di quanto oggi la situazione risulti migliore solo in parte.
Tutte sensazioni che l’ormai insostituibile vocalist Tommy Karevik pare essere ben felice di confermarci in presa diretta, dal momento che è proprio con lui che abbiamo avuto il piacere di poter parlare, non solo in merito al recente nato in casa Kamelot, ma anche di quello che ormai è un impiego in pianta stabile in formazione che dura da oltre dieci anni, con tutte le conferme e le soddisfazioni che ne possono conseguire, nonostante lo scetticismo persistente di determinati ascoltatori nostalgici. Buona lettura!
CIAO TOMMY! UN TITOLO A DIR POCO EMBLEMATICO PER IL NUOVO ALBUM, CREDI CHE POTREMMO DEFINIRLO COME ‘IL RISVEGLIO DEI KAMELOT’ IN UN CERTO SENSO?
– Ciao a tutti! Sì, direi che è una associazione più che corretta, anche perché sono passati ben cinque anni dal nostro lavoro precedente, anche se abbiamo inframezzato le uscite con una produzione in sede live. In effetti è la prima volta che lasciamo trascorrere così tanto tempo tra due full-length, ma tra le motivazioni che hanno portato a questo vi è anche quello che tutti ben conosciamo: il Covid-19 e tutto ciò che ne è conseguito, inclusa la mancanza di tour e di contatto con le persone; molte delle quali hanno sofferto di problematiche non solo fisiche, ma anche mentali, sancendo di fatto una sorta di letargo per il mondo intero. Per questo motivo potremmo dire che il titolo si riferisce al risveglio dei Kamelot in quanto band, dopo cinque anni di silenzio compositivo e successiva assenza dai palchi, ma anche del mondo stesso a seguito del lungo torpore cui è stato costretto a causa della pandemia. Il fattore positivo è che la situazione da una parte ci ha permesso di concentrarci maggiormente sul songwriting, e dall’altra ci ha fornito dei temi su cui focalizzarci in vista della nuova uscita.
RITIENI QUINDI CHE LA SITUAZIONE LEGATA AL COVID ABBIA GIOCATO UN RUOLO NELLA STESURA DEI NUOVI PEZZI?
– Assolutamente sì! Bisogna tener presente che, nel caso dei Kamelot, è molto importante il fattore introspettivo dei singoli pezzi, e dopo due anni in cui di fatto tutto è rallentato e la gente ha rinunciato alla propria esistenza, abbiamo ritenuto opportuno esplorare anche le sensazioni umane alla base di quello che è stato appunto un risveglio da una sorta di letargo: dal recupero della propria vita abituale e delle proprie lotte personali per raggiungere degli obiettivi, passando naturalmente per le evidenti difficoltà che un cambio così repentino ha comportato anche a livello, per l’appunto, introspettivo ed emozionale.
“THE AWAKENING” HA RICEVUTO UN’OTTIMA ACCOGLIENZA DA NOI, MA ANCHE DA GRAN PARTE DEL PUBBLICO, E SIAMO IN TANTI A RITENERLO SUPERIORE AL PREDECESORE. QUAL’ERA IL FOCUS PRINCIPALE SUL VERSANTE DEL SONGWRITING?
– Sono molto contento dell’accoglienza riservata a “The Awakening”, e posso dire che per la sua stesura è stato effettuato un ragionamento parzialmente diverso rispetto a quanto giunto in precedenza: come sicuramente ti sarai accorto tu stesso, c’è stato un parziale ritorno alle vecchie soluzioni che hanno reso popolari i Kamelot in passato. Naturalmente l’intenzione non era quella di fare un passo indietro effettivo, ma piuttosto di attingere a quello stile e quelle atmosfere cui ancora la band è molto affezionata, e che forse erano state messe parzialmente da parte nelle opere recenti, di modo da poter raccontare da dove è giunta l’anima stessa della band, senza però dimenticare gli elementi che han fatto la fortuna delle opere da “Silverthorn” in avanti. Il tutto, come ti dicevo, mettendo un accento importante sulla componente introspettiva e, soprattutto, su un piglio generale potenzialmente vincente in sede live: servivano parti strumentali coinvolgenti e linee vocali cantabili, di modo da favorire per l’appunto l’esecuzione dal vivo dei singoli pezzi.
VISTO CHE HAI MENZIONATO I TEMI, QUALI SONO I BRANI CHE RITIENI PARTICOLARMENTE RAPPRESENTATIVI ALL’INTERNO DELL’ALBUM?
– Potrà sembrare una banalità, considerando che stiamo parlando del primo singolo comparso online con tanto di video ufficiale, ma ritengo “One More Flag In The Ground” la summa perfetta dei soggetti rappresentati, così come di quel piglio musicale che ti ho menzionato poc’anzi. Si tratta di un pezzo che parla di fatto delle battaglie della vita, contro le avversità che a volte ci schiacciano a terra, e con cui bisogna fare i conti a tutti i costi come dei veri e propri guerrieri per perseguire una sorta di felicità, attingendo a tutte le proprie forze fisiche e mentali.
Un’altra che potrei citare è “The Looking Glass”, che a suo modo incarna perfettamente la volontà di inserire in un contesto attuale le soluzioni tipiche dei Kamelot di una volta, con un tema che in questo caso ricalca la necessità degli uomini di concedersi del tempo, prima di volersi alzare e camminare per la prima volta, o nuovamente dopo un periodo in cui per forza di cose si è rimasti in attesa. Soprattutto dopo il Covid, credo che le persone abbiano tuttora bisogna di sentirsi incoraggiate a lottare, ma anche a prendersi il proprio tempi, anziché bruciare le tappe. Inoltre, ritengo in generale quest’album un qualcosa di estremamente personale, in quanto ci ho messo molto del mio bagaglio sentimentale personale.
COME AVETE VISSUTO IL RITORNO SULLE SCENE IN UN MOMENTO IN CUI, DI FATTO, ALL’INCIRCA TUTTI STANNO FACENDO LO STESSO?
– La prima cosa in cui ci siamo imbattuti, ancora di più ora che siamo tornati col nuovo album, è un’industria incredibilmente satura, per via del ritorno sulle scene di tutti quanti, ma nel contempo gravemente danneggiata dallo stop improvviso: tanti locali hanno chiuso, molti promoter hanno rinunciato, e diversi filoni del music business ne sono usciti con molteplici crepe. Tuttavia, fermarsi a rimuginare e/o a mostrare frustrazione non avrebbe aiutato né noi artisti, né gli altri addetti ai lavori; piuttosto, è meglio pensare che a volte determinate vicende sgradevoli accadono e basta, per motivi che ci vorrebbe troppo tempo anche solo per provare a comprendere. La cosa più importante è raccogliere il buono da queste vicissitudini e tornare a fare ciò che riesce meglio con tutto il dovuto entusiasmo, anche perché è innegabilmente bello tornare a calcare i palchi e ad incontrare i propri amici ed estimatori in giro per il mondo.
PARLANDO DI TE PERSONALMENTE, LO SCORSO ANNO LA TUA CARRIERA NEI KAMELOT HA COMPIUTO DIECI ANNI. COME DEFINIRESTI IL TUO PERCORSO PERSONALE COME FRONTMAN DI UNA FORMAZIONE TANTO AMATA?
– Devo confessare che non ero un fan dei Kamelot a tutti gli effetti, prima di entrarci in pianta stabile, ma ho avuto modo di scoprirli e approfondirli nel momento in cui si è presentata l’opportunità, e sono rimasto davvero colpito dalla qualità della musica, sia sul fronte di composizione e arrangiamento, sia su su quello puramente emozionale. Quest’ultima caratteristica da sempre guida il mio percorso come musicista, e nel momento in cui ho raccolto l’eredità di chi mi ha preceduto ho confidato nella mia possibilità di onorare e rendere giustizia al passato della band; mettendoci magari al tempo stesso del mio, e per fare questo sapevo bene che avrei dovuto affrontare un lungo percorso di apprendimento: il primo album che mi ha visto protagonista mi ha imposto quindi di prestare molta attenzione agli stilemi passati, mentre coi successivi abbiamo iniziato ad aggiungere elementi alla tavola, come si suol dire, e man mano ha preso forma quella che è la mia dimensione come frontman e cantante dei Kamelot. Con quest’ultimo lavoro credo di essere giunto al punto in cui il mio ruolo nella band è quasi come una mia seconda natura, e anche come performer confido che i nuovi pezzi mi permetteranno di essere assolutamente naturale e spontaneo anche in sede live.
SI POTREBBE DIRE CHE HAI PORTATO QUALCOSA DEI SEVENTH WONDER ALL’INTERNO DEI KAMELOT?
– Sì, diciamo che, alla fine della giornata è sempre la stessa persona quella che canta in una e nell’altra band, l’importante è che ciò che proponiamo musicalmente sia un’espressione di ciò che ci arriva dal cuore, a prescindere dalle dovute differenze che possono sussistere sul fronte interpretativo. Da questo punto di vista, sono molto fiero del nuovo album preso in analisi in questa intervista, poiché credo che mai prima d’ora la mia interpretazione sia riuscita a ricalcare quello che è il mood esatto dei pezzi presenti, e questo è una conseguenza del processo di crescita di cui ti parlavo poco fa.
Volendomi sbilanciare un po’ di più ti confesso che, guardando al passato, non posso essere al 100% dello stesso avviso: partendo dal presupposto che il passato non si può cambiare, mi capita ancora oggi di ripensare a quanto lo stress dato delle tempistiche che ci imponevamo fosse dannoso per un risultato finale ottimale, con dei picchi in cui a tutti gli effetti era come andare di fretta, e di conseguenza riascoltando quei pezzi mi sembra quasi di scorgere delle sbavature nell’interpretazione, cosa che invece non sussiste in “The Awakening”. Qui non c’è davvero nulla di cui mi vorrei lamentare, in quanto tutto è esattamente dove dovrebbe essere.
QUALE DEFINIRESTI COME L’OSTACOLO PRINCIPALE CHE HAI DOVUTO GESTIRE?
– Non c’è alcun dubbio che la parte più difficile risalga agli inizi, ovvero ai miei primi mesi all’interno dei Kamelot: raccogliere l’eredità di un frontman importante come Roy Khan è stato già di per sé complicato, intanto per via del suo enorme talento e dell’inevitabile confronto che si sarebbe generato, cosa che peraltro a me non piace in quanto sembra quasi tramutare lo stile di due artisti in una specie di gara immotivata.
Ma per quanto possano sembrare piccolezze, credo che il boccone più amaro da mandare giù risieda ancora oggi in coloro che ti scrutano come se non fossi nient’altro che un rimpiazzo, soprattutto alcuni hater che già nel 2012 si sono scatenati su internet, sciorinando i loro commenti e affermando che la band avrebbe dovuto sciogliersi, anziché prendere un sostituto che non avrebbe reso giustizia a chi aveva portato in alto il nome della band. Naturalmente si tratta di un fenomeno molto più raro, ora come ora, però a suo tempo ci ho dovuto fare i conti, ma sono anche queste cose a farci crescere e comprendere le difficoltà, ma anche le enormi soddisfazioni che questo settore può dare. Personalmente amo Roy come cantante, e lo ammirerò sempre per il livello altissimo in cui ha proiettato i Kamelot nel corso degli anni, e spero di poter continuare anche a rendergli giustizia, oltre a fornire un contributo personale.
VISTO CHE HAI NOMINATO GLI HATER, COME CREDI SI DOVREBBE GESTIRE L’ABNORME E SPESSO MALSANO RAPPORTO CHE SUSSISTE TRA L’ARTISTA E IL WEB OGGIGIORNO?
– Personalmente cerco di tenere me stesso relativamente distante dai social e dalla dipendenza che essi creano, che credo non sia sana per nessuno, nemmeno per le persone che lavorano fuori dal music business. Si leggono tante cose online, non sempre degne di una menzione positiva, spesso scritte da persone molto infelici e in attesa di un cavillo cui aggrapparsi per screditare il lavoro altrui. C’è davvero tanta frustrazione, però l’artista che si concentra più del necessario a dare corda alla suddetta frustrazione finisce di fatto col darsi la proverbiale zappa sui piedi.
Per quanto il feedback sano dei fan in rete sia importante e potenzialmente costruttivo – tant’è che io stesso cerco di interagire coi miei fan, nei limiti del possibile – credo che l’ideale, come penso direbbe qualunque professionista con la testa sulle spalle, sia tenere tutto correttamente dimensionato e posizionato là dove dovrebbe stare, senza lasciare che determinati eccessi possano portare fuori strada.
CAMBIANDO ARGOMENTO: TRATTANDOSI DI UNA FORMAZIONE FONDATA ORIGINARIAMENTE NEGLI STATI UNITI, MA DA SEMPRE DEDITA AD UN SOUND TIPICAMENTE EUROPEO, CON PERALTRO SVARIATI MEMBRI EUROPEI ATTIVI IN PIANTA STABILE, HO SEMPRE PENSATO CHE SI POTESSERO DEFINIRE I KAMELOT COME ‘L’INCONTRO TRA DUE MONDI’. TU COME LA VEDI?
– Direi che quella che hai fornito è un’etichetta pressoché perfetta, derivata da un ragionamento assolutamente corretto. Credo che la natura stessa dei Kamelot sia il risultato di una combinazione di influenze musicali di matrice classica e moderna, provenienti per l’appunto da una moltitudine di paesi diversi, e questo si può capire anche da determinati inserti che abbiamo scelto di utilizzare. Vero che, ora come ora, di formazioni power metal analoghe ai Kamelot provenienti dagli States ce ne sono davvero poche, al contrario di quel che si può dire del territorio europeo da cui io stesso provengo. Però, credo che questo sia parte integrante del potenziale fascino che si cela all’interno di una proposta musicale come la nostra, e sicuramente ciò è riconducibile ad un vero e proprio incontro tra due mondi.
A TAL PROPOSITO, COME VEDI L’INCONTRO TRA METAL E MUSICA CLASSICA DI CUI I KAMELOT SONO FAUTORI ORMAI DA PARECCHI ANNI?
– Io adoro davvero tanto questa dualità stilistica. Credo che la contaminazione sia parte integrante dell’arte musicale, nonché la chiave per continuare a permettere alla musica di evolversi. Inoltre, è bene ricordare che tutto deriva da qualcosa che esisteva in precedenza, e come molti musicisti metal ben sanno, buona parte degli stilemi derivano proprio dalla classica; mettere insieme le cose a suo modo mantiene gloriosi entrambi i filoni musicali all’interno della storia, che possono trovare la propria esaltazione anche nell’incontro con una realtà apparentemente diversa, ma anche dannatamente affine. Credo che sentiremo ancora parlare in futuro di metal con elementi sinfonici, che a sua volta deriverà dal metal con inserti sinfonici o classici proposto in precedenza e così via. Ogni contaminazione è ben accetta, a patto che si rimanga in un territorio fatto di buona musica.