KAMELOT – La setta delle ombre

Pubblicato il 04/04/2018 da

L’uscita di un nuovo disco dei Kamelot rappresenta da sempre uno degli eventi più attesi dell’anno per migliaia di power metaller sparsi nel mondo. Va da sé che, quando la Napalm Records ci ha invitato a Berlino per un’intervista con il chitarrista/membro fondatore Thomas Youngblood e il frontman Tommy Karevik, a ridosso della fine delle registrazioni di “The Shadow Theory”, noi di Metalitalia.com non ce lo siamo lasciati chiedere due volte, rispondendo prontamente alla chiamata e recandoci nella capitale tedesca per una toccata e fuga di dodici ore. Non avendo potuto ascoltare l’album nella sua interezza, le domande su quest’ultimo sono state per forza di cose ridotte, ma poco male; il tempo trascorso in compagnia dei due musicisti – caldo ed espansivo il primo, più timido ed introverso il secondo – si è rivelato tutt’altro che infruttuoso…

BENTORNATI AI MICROFONI DI METALITALIA.COM. SONO PASSATI CIRCA TRE ANNI DA “HAVEN”, COME VEDETE OGGI QUEL LAVORO?
Thomas: – “Haven” è stato senza dubbio un grande successo per la band: ci ha permesso di visitare paesi e città in cui non eravamo mai stati prima, ha fatto riscontrare degli ottimi dati di vendita e da un punto di vista musicale ci ha spinto in una direzione più moderna, con elementi sci-fi poi ripresi nelle grafiche, nei videoclip dei singoli e così via. Alla luce di tutto questo, credo possa essere visto come un punto di svolta nella carriera dei Kamelot.

Tommy: – Esatto, con quel disco abbiamo provato a mescolare un po’ le carte in tavola, dando al sound della band un taglio più moderno che si potesse sposare al concept fantascientifico dei testi. L’importante era effettuare questo restyling senza snaturare i nostri trademark, e credo che ci siamo riusciti.

STANDO ALLE NOTE FORNITECI DALLA NAPALM RECORDS, “THE SHADOW THEORY” INTRODURRA’ ELEMENTI INDUSTRIAL NEL VOSTRO SOUND. VI ANDREBBE DI PARLARCENE?
Thomas: – Credo che certi elementi facessero già la loro comparsa in “Haven”, quindi non mi sentirei di parlare di una vera e propria ‘aggiunta’ al nostro sound. E’ anche vero però che il nuovo album approfondisce il vibe moderno del suo predecessore, con un mixaggio più pesante per quanto concerne le chitarre e la batteria… insomma, è a tutti gli effetti un prodotto dei ‘nuovi’ Kamelot: non un disco industrial, ma comunque un’opera che si sforza di guardare avanti e di non ripetere sistematicamente quanto fatto in passato.

Tommy: – L’implementazione della componente industrial si lega a doppio filo agli argomenti affrontati nei testi. Per parlare di un futuro oscuro, distopico e alienato avevamo bisogno della giusta controparte musicale, da qui la scelta di rendere il suono del nuovo album ancora più pesante e moderno rispetto a quello di “Haven”.

C’E’ FORSE UN CONCEPT ALLA BASE DI “THE SHADOW THEORY”?
Tommy: – Sì, anche se non nel senso proprio del termine come per “Silverthorn”, ad esempio, nel quale avevamo definito dei personaggi e una storyline. “The Shadow Theory” è un concept album secondo un’accezione più sottile; i testi affrontano di volta in volta argomenti diversi, e presi singolarmente hanno dei significati autonomi. Come quando si osserva un mosaico, è necessario allontanarsi per capire la funzione delle varie tessere e ammirare l’opera nella sua interezza. Musicalmente parlando, volevamo che ogni brano fosse estrapolabile dal contesto, e questa scelta ci ha senza dubbio aiutato.

Thomas: – Quando decidi di cimentarti in un concept album finisci spesso su dei binari imposti dalla storia, dovendone seguire lo sviluppo, i personaggi, i colpi di scena… fa parte del gioco, e anche noi in passato ci siamo adattati alla cosa. Con “The Shadow Theory” abbiamo optato per un approccio più libero, che ci consentisse di comporre liberamente e senza vincoli. Il risultato è una tracklist formata da una dozzina di potenziali singoli.

COME SIETE ENTRATI IN CONTATTO CON JENNIFER HABEN E LAUREN HART? CI SARANNO ALTRI OSPITI SUL NUOVO DISCO?
Thomas: – Lauren è la frontgirl degli Once Human, band in cui milita anche il noto chitarrista/produttore Logan Mader. La conosciamo da qualche anno, e abbiamo già diviso il palco in California durante il tour promozionale di “Haven”. Quando ci siamo resi conto che alcune canzoni di “The Shadow Theory” avrebbero necessitato di un po’ di growling vocals, il suo nome è stato il primo a venirci in mente. E’ davvero una tipa tosta. Jennifer invece canta in una band chiamata Beyond the Black, e ci è stata consigliata dal nostro produttore Sascha. Siamo rimasti subito colpiti dalla sua voce e dalla sua professionalità; credo abbia duettato benissimo con Tommy. Per rispondere all’ultima parte della tua domanda, vi dovrete accontentare di loro due (ride, ndR).

“THE SHADOW THEORY” E’ STATO PRODOTTO ANCORA UNA VOLTA DA SASCHA PAETH. NON AVETE MAI PRESO IN CONSIDERAZIONE L’IPOTESI DI LAVORARE CON QUALCUN’ALTRO?
Thomas: – Chiaramente sì, ma siamo sempre giunti alla conclusione che nessuno meglio di Sascha saprebbe guidarci durante le registrazioni e la produzione. Lavoriamo insieme dai tempi di “The Fourth Legacy”, e in tutti questi anni ho perso il conto degli ottimi consigli che ci ha saputo dare, da un particolare arrangiamento alla messa a punto di una linea vocale. Tra noi si è venuta a creare un’alchimia fortissima, e lo considero in tutto e per tutto un elemento fondamentale della band.

QUAL E’ LA PIU’ GRANDE SODDISFAZIONE CHE AVETE RAGGIUNTO CON QUESTA BAND?
Thomas: – Ce ne sono state moltissime. Il semplice fatto di essere qui, negli uffici della Napalm Records, a parlare di un nostro nuovo disco con giornalisti provenienti da ogni parte d’Europa, è motivo di grande orgoglio. Tornando indietro con gli anni, ricordo l’eccitazione per la nostra prima tournée in Giappone, un paese che fin da ragazzino sognavo di visitare. Stessa cosa dicasi per l’Australia, in cui siamo riusciti a suonare per la prima volta soltanto nel 2013, a supporto di “Silverthorn”. L’Opera House di Sidney mi è entrata nel cuore.

C’E’ QUALCHE ALBUM NELLA VOSTRA DISCOGRAFIA CHE REPUTATE SOTTOVALUTATO O POCO COMPRESO DAL PUBBLICO E DALLA CRITICA?
Thomas: – Forse “Poetry for the Poisoned”, un disco sperimentale figlio di un periodo molto strano e interessante per la band. Era nostra intenzione sondare nuove tecniche di songwriting e di produzione, e il risultato finì per spiazzare più di un ascoltatore. Detto questo, contiene comunque dei brani molto apprezzati dai fan, come ad esempio “The Great Pandemonium”, praticamente immancabile nelle setlist dei nostri concerti.

THOMAS, CHE RICORDI HAI DEI PRIMI ANNI DI CARRIERA DEI KAMELOT? QUANDO HAI REALIZZATO CHE LA BAND STAVA PER DIVENTARE QUALCOSA DI DAVVERO IMPORTANTE?
Thomas: – Credo che il punto di svolta nella carriera dei Kamelot sia stato la pubblicazione di “The Fourth Legacy”. All’epoca eravamo fondamentalmente una band underground, e il responso da parte della critica superò ogni nostra più rosea prospettiva. Da non sottovalutare poi che con quel disco ha avuto inizio la collaborazione con Sascha di cui parlavamo prima. Citerei anche “The Black Halo”: con quel disco abbiamo cominciato a girare i nostri primi videoclip, e sia quello di “March of Mephisto” che quello di “The Haunting”, con Simone Simons degli Epica, portarono il nome del gruppo sulle bocche di molte persone.

COSA NE PENSATE DELL’ATTUALE SCENA POWER METAL? VEDETE QUALCHE GIOVANE BAND IN GRADO DI RACCOGLIERE LA VOSTRA EREDITA’?
Tommy: – Sarò onesto e ti dirò che non sono aggiornatissimo sugli sviluppi della scena power metal. Nel tempo libero, quando mi capita di ascoltare la musica, tendo ad allontanarmi da ciò che canto sul palco ogni sera. Mi rendo però conto che oggi la competizione è davvero spietata; per un gruppo può diventare complicatissimo emergere o riuscire ad esprimersi attraverso uno stile personale. Occorrono tanta gavetta e tanta fortuna per sfondare le porte del successo come fatto dai Kamelot o da altri gruppi dei Nineties. Passione e perseveranza sono fondamentali.

DATO CHE PRESTATE SEMPRE MOLTA ATTENZIONE ALLA COMPONENTE GRAFICA DEI VOSTRI LAVORI, COSA NE PENSATE DEL DOWNLOAD ILLEGALE? COSA SI PROVA A SAPERE CHE CON UN PAIO DI CLIC UNA PERSONA PUO’ SCARICARE LA VOSTRA MUSICA E PERDERE COSI’ TUTTI I VOSTRI SFORZI?
Thomas: – Tocchi un tasto dolente, visto che l’argomento mi provoca sempre tanta rabbia e tanta frustrazione. Sotto questo punto di vista, Internet ha fatto dei danni enormi, sdoganando una vera e propria cultura del non rispetto verso chi produce arte. Investiamo tantissimo tempo e denaro per garantire ai fan una resa sonora all’altezza del nostro nome, dei packaging il più curati possibile… poi arriva qualcuno e, senza alcun tipo di rispetto, carica tutto online con mesi di anticipo. E’ anche per questo motivo che non hai potuto ascoltare l’album nella sua interezza prima di questa intervista; fornire alla stampa soltanto degli estratti è stata una nostra precisa volontà. Mi è stato riferito che lo scorso anno i dischi di Paradise Lost e Cradle of Filth sono trapelati in rete diverse settimane prima della loro pubblicazione, ci pensi? E’ tutto così profondamente triste e ingiusto.

Tommy: – Sì, certa gente non si rende conto di come un gesto di un secondo possa vanificare giorni, settimane, mesi di lavoro e pianificazione… perchè a quel punto è troppo tardi, capisci? Non si può più tornare indietro. Il disco è online, fine dei giochi. Rimpiango i tempi in cui i ragazzi, compresi quelli della mia generazione, aspettavano fino al giorno dell’uscita il disco della loro band preferita.

QUANDO PENSATE DI TORNARE IN EUROPA E/O IN ITALIA? SECONDO VOI, ESISTONO DELLE DIFFERENZE TRA IL PUBBLICO AMERICANO E QUELLO EUROPEO?
Thomas: – Contiamo di ritornare in Europa tra Settembre/Ottobre, e sicuramente faremo tappa in Italia. Posso anticiparti che una data a Milano è già fissata, e che forse ne faremo una seconda a Trieste… non posso ancora dirtelo con certezza. Per come la vedo io, il pubblico è sempre fantastico, a prescindere da dove ci capita di suonare. Abbiamo dei fan veramente legati alla band, che non mancano mai di esprimere tutto il loro supporto. Una delle cose che più amo dell’essere musicista è proprio questo: lo scambio a livello umano con il pubblico, la possibilità di conoscere nuove culture e il toccare con mano quanto la mia arte emozioni la gente.

Tommy: – Sono d’accordo con Thomas, anche se ho notato come dalle tue parti o in Spagna la gente vada davvero fuori di testa durante i concerti (ride, ndR). Diciamo che sotto questo punto di vista il pubblico americano è un po’ più contenuto. Anche per questo non vediamo l’ora di visitare nuovamente l’Italia.

L’ULTIMA DOMANDA ESULA UN PO’ DAL CONTESTO: THOMAS, SAPPIAMO CHE TU SEI DI TAMPA, UNA CITTA’ NOTA PER ESSERE STATA LA CULLA DEL DEATH METAL A STELLE E STRISCE. CHE ARIA SI RESPIRAVA DA QUELLE PARTI NEI PRIMI ANNI NOVANTA? HAI MAI FREQUENTATO QUALCUNO DI QUELLA SCENA?
Thomas: – Da quel che ricordo, a Tampa il grosso del pubblico metallaro si muoveva per i concerti dei big degli anni Ottanta. Heavy metal tradizionale, principalmente. Il death metal non sembrava interessare granché alla gente del posto, e i gruppi si esibivano in locali poco più grandi di questa stanza. Non ho mai conosciuto nessuno di quel giro, anche se ricordo che quando andavo al supermercato mi capitava di incrociare i ragazzi dei Deicide. Me ne stavo lì, in cerca di qualche prodotto tra gli scaffali, e all’improvviso mi vedevo passare accanto Glen Benton con la sua croce rovesciata impressa sulla fronte. Faceva sempre un certo effetto (ride, ndR).

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