KANSAS – Costante presenza

Pubblicato il 02/08/2020 da

I grandi Kansas sono tornati con un disco davvero di alto livello, suonato in modo ineccepibile e che non sfigura all’interno della discografia del gruppo. “The Absence Of Presence” è il primo lavoro in studio che vede il contributo del nuovo tastierista Tom Brislin, artista poliedrico che su disco, oltre a suonare, ha composto musica e testi di diversi brani. L’ex membro di Yes e Meat Loaf si è integrato alla perfezione in casa di Rich Williams e Phil Ehart. La band stessa ha dato grande libertà e fiducia a Brislin, che si occupa anche di promozione e di gestire parte delle interviste, tra cui la nostra. Un personaggio con cui è davvero piacevole dialogare.

TOM, TU SEI L’ULTIMO ENTRATO IN CASA KANSAS. AL TUO ARRIVO I LAVORI SU “THE ABSENCE OF PRESENCE” ERANO GIA’ INIZIATI OPPURE SEI RIUSCITO A DARE IL TUO CONTRIBUTO?
– Come dicevi sono il componente più nuovo e, quando sono entrato in formazione, gli altri ragazzi erano già al lavoro sul nuovo disco, parte del materiale era già scritta. I lavori non erano però molto avanti, così quando sono arrivato nei Kansas la band mi ha chiesto di non essere solo un esecutore, un mero tastierista, ma volevano che fossi attivo anche in fase di stesura dei nuovi pezzi. Questa richiesta mi ha reso molto felice perché io sono un musicista, ma anche un compositore e trovo fantastico poter dare il mio contributo anche in questo senso! Rich Williams, Phil Ehart e tutti gli altri mi hanno dato un gran benvenuto e in studio non hanno mai messo paletti alle mie idee, anche se ero l’ultimo arrivato avevo diritto di parola al pari degli altri, sono poche le band che si comportano in questo modo.

E’ STATO LUNGO IL PROCESSO DI SCRITTURA DEI BRANI?
– Dal mio punto di vista i lavori si sono svolti senza fretta, ma nemmeno perdendo tempo. Io sono entrato nei Kansas ad inizio dello scorso anno ed in estate del 2019 eravamo già in studio a registrare. Tieni presente che noi siamo una band che suona molto in giro, nella prima parte del 2019 siamo stati in tour, riuscendo contemporaneamente a portare avanti i lavori su “The Absence Of Presence”. Ho dovuto lavorare molto, innanzitutto per imparare il repertorio da portare on stage, poi per capire e fare mio il sound dei Kansas ed infine per scrivere le mie canzoni in quanto, come ti dicevo prima, ho anche contribuito al songwriting del disco. Nei momenti di pausa tra un concerto e l’altro io componevo, registravo le mie idee, non rimanevo mai con le mani in mano. Poi devo dire che mi sono trovato molto bene sin dall’inizio con gli altri membri del gruppo: oltre ad avermi messo a mio agio, insieme abbiamo lavorato molto bene ed in armonia. La moderna tecnologia ci ha permesso di lavorare anche da casa nei nostri studi personali, io ad esempio ho scritto parte delle mie canzoni e registrato le demo a casa mia per poi inviarle via mail agli altri membri del gruppo.

IL PRIMO ASPETTO DI “THE ABSENCE OF PRESENCE” CHE COLPISCE E’ LA PRODUZIONE, I SUONI PULITI, MA SOPRATTUTTO MOLTO NATURALI, CHE ESALTANO AL MASSIMO I SINGOLI STRUMENTI INVECE DI COMPRIMERLI COME ACCADE IN MOLTE PRODUZIONI MODERNE.
– Sono d’accordo con te, io stesso sono un grande fan delle produzioni progressive metal degli anni Settanta che con il loro gusto analogico mi facevamo letteralmente impazzire. Infatti, ho usato strumentazioni con diversi anni sulle spalle, dei sintetizzatori analogici, il moog, organo e piano classico. Attenzione, perché “The Absence Of Presence” non è un disco nostalgico, anche se abbiamo cercato di mantenere la produzione molto naturale, credo che il prodotto finito suoni in modo attuale, diciamo che abbiamo cercato di sfruttare il meglio del passato e del presente. Non avevamo alcun pregiudizio su cosa usare in studio, ogni mezzo era lecito per farci arrivare al risultato che desideravamo.

LA COESIONE TRA LE TUE TASTIERE ED IL VIOLINO DI DAVID RAGSDALE IN ALCUNI PUNTI DEL DISCO LASCIA DAVVERO SENZA PAROLE…
– David è un musicista eccezionale, straordinario, trovo fondamentale il suo apporto all’interno della band. Il suo violino dà quel qualcosa in più che permette ad un brano di compiere un gran salto di livello. Insieme ci siamo divertiti molto a suonare, c’è stata subito sintonia tra di noi, nessuna difficoltà.

COSA SI NASCONDE DIETRO AD UN TITOLO COME “THE ABSENCE OF PRESENCE”?
– L’idea del titolo è di Phil Ehart, che un giorno si è presentato da me e me l’ha proposta. Il bello di questo titolo è l’alone di mistero che lo avvolge, il suo prestarsi a diverse interpretazioni, credo che tra le varie chiavi di lettura Phil pensasse a persone che sono qui con il corpo, ma con la mente si trovano da tutt’altra parte, magari in una dimensione alternativa o cose del genere. Con questa idea io mi sono messo a scrivere il pezzo e, pur rispettando il pensiero iniziale di Phil, ci ho messo anche dentro la mia personale interpretazione. Ho giocato molto con il testo della titletrack perché volevo mantenere varie possibilità di traduzione, di lettura, così che anche chi la ascolterà potrà farsi un’idea tutta sua di cosa voglia dire “The Absence Of Presence”.

TUTTI I TESTI DEL DISCO SONO PERO’ COLLEGATI FRA LORO O NO?
– No, non siamo di fronte ad un concept album, ogni canzone racconta una storia a sé stante. Il filo conduttore generale è la visione dei Kansas, con canzoni che diventano quadri colorati, emozionanti, con le atmosfere di un sogno. Prendi un qualsiasi disco della band, ascoltalo, chiudi gli occhi ed immediatamente nella tua testa appariranno un sacco di immagini e colori, come per magia.

HO TROVATO IN “JETS OVERHEAD” UNO DEI PEZZI PIU’ INTERESSANTI DEL DISCO, PERCHE’ E’ UN MANIFESTO DEI KANSAS PIU’ TRADIZIONALI, POTREBBE ESSERE INCLUSO IN UNO DEI PRIMI DISCHI DELLA BAND E NON STONEREBBE.
– Questa canzone è stata scritta dal chitarrista Zak Rizvi, ricordo che quando me l’ha inviata sono rimasto veramente colpito. Come hai detto, “Jets Overhead” è un pezzo in puro stile Kansas, lo trovo scritto molto bene, è emozionante e trasmette una bella energia positiva. Io mi sono occupato dei testi e ho voluto raccontare una storia un po’ particolare e divertente. Parlo di una persona che ha una qualche tipo di relazione con un’altra molto misteriosa e non si capisce bene quest’ultima chi sia. Potrebbe essere un alieno, oppure una spia… Anche in questo caso lascio il compito dell’interpretazione a chi leggerà i miei testi.

SU “THE SONG THE RIVER SANG” TI SEI SBIZZARRITO CON LE TUE TASTIERE IN PASSAGGI MOLTO EVOCATIVI.
– Oltre ad aver scritto musica e testi, in questa canzone ricopro anche il ruolo di cantante. Per me è stata un’esperienza particolare, so che i Kansas per hanno sempre avuto più di una voce sui loro brani, i ragazzi della band hanno sentito la mia versione demo e l’hanno apprezzata, così ho lasciato la mia voce. “The Song The River Sang” l’ho composta mentre eravamo in tour. Mentre stavamo viaggiando per gli Stati Uniti siamo passati attraverso una zona in cui si vedevano solo montagne, fiumi e bellissimi paesaggi, mentre guardavo fuori dal finestrino mi è venuta in mente la canzone “Dust In The Wind”, dal disco “Point Of Know Return”. Ho quindi pensato di scrivere, come dire, un sequel con lo stesso spirito del brano originale.

TU IN PASSATO HAI SUONATO CON GRANDI ARTISTI COME MEAT LOAF, O GLI YES CON CUI HAI COLLABORATO PER DIVERSI ANNI. HAI AVUTO DIFFICOLTA’ AD ADATTARE IL TUO STILE NEI KANSAS DOPO LE TUE ESPERIENZE PRECEDENTI?
– La differenza sostanziale è che in passato ero stato chiamato a fare il tastierista, i Kansas invece mi hanno chiesto di essere un vero membro della band, con la libertà di scrivere musica. Con loro ho potuto mettere nei brani la mia identità artistica, cosa che in passato non era avvenuta. Inizialmente con gli Yes avrei dovuto suonare per un solo anno, loro sapevano che sarebbe stato un rapporto a termine e mi hanno chiesto di eseguire fedelmente la loro musica. Poi il rapporto con loro si è prolungato, ma solo con i Kansas ho potuto seriamente sbizzarrirmi ed esprimere me stesso.

NON SEMBRI PARTICOLARMENTE ENTUSIASTA DEL PERIODO YES.
– Al contrario, è stata un’esperienza fantastica perché sin da piccolo sono cresciuto con gli album degli Yes, li ho letteralmente divorati e l’aver fatto parte della loro storia per alcuni anni mi riempie di gioia, sono davvero onorato. Ho fatto il mio lavoro, suonato le tastiere dal vivo su brani entrati nella storia e che io ho sempre amato, non potrei davvero lamentarmi. Ho solo detto che con i Kansas il mio ruolo è diverso.

DOPO AVER MILITATO IN DUE DELLE PIU’ FAMOSE PROG BAND DI SEMPRE, SECONDO TE COSA VUOL DIRE SUONARE PROGRESSIVE ROCK?
– Questa è una domanda difficile (ride, ndr). Ti risponderò con una frase che mi disse un mio amico musicista moltissimi anni fa: “sai cosa differenzia il rock’n’roll da tutto il resto? La sua mancanza di regole!”. Questo concetto, secondo me, dovrebbe valere ancor di più per la musica progressive, il nome stesso indica che si deve progredire, mutare, stupire, andare avanti. Sbaglia chi pensa che per suonare prog sia sufficiente essere un virtuoso dello strumento, non è così. Cosa c’è di più naturale che immaginare musica e mettersi a suonarla senza fare troppi ragionamenti? Il musicista prog dovrebbe sempre guardare avanti e mai tornare indietro. Poi possono anche nascere dei brani complicati, tecnicamente difficili con cambi di tempo e quant’altro, basta che seguano una visione! Io stesso adoro i pezzi con all’interno diversi tempi di esecuzione o il mellotron, ma se compongo musica di questo tipo lo faccio perché ho un percorso ben chiaro in testa.

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