Colto, eclettico, funambolico nel passare dall’iperestremo all’iperetereo, Toby Driver è artista mai domo, piacevolmente irrequieto nel voler dare sempre nuove forme alla sua ispirazione. Una carriera, quella del polistrumentista americano, legata a vari monicker e incarnazioni, così disparate da aver in ultimo un solo unico denominatore, ovvero la ricerca e la passione con cui si butta a capofitto in album altrimenti poco legati gli uni agli altri. Non fosse altro, in fondo, per l’obliqua singolarità con cui arrivano a noi, anche quando – è il caso dell’ultimo full-length a firma Kayo Dot, “Blasphemy” – di ostacoli veri e propri sulla strada dell’ascoltatore non ne vengono posti. Personalità poliedrica e multiforme qual è, Toby si rivela interlocutore mai banale e per nulla reticente quando deve raccontarsi, in accordo a quell’idea di geniaccio irrequieto che la sua musica induce a pensare di lui.
“BLASPHEMY” PROSEGUE IL DISCORSO INTRAPRESO CON “COFFIN ON IO” E “PLASTIC HOUSE ON BASE OF SKY”,E’ RELATIVAMENTE FACILE DA ASSIMILARE E SENSIBILMENTE MENO PAZZOIDE DI MOLTI EPISODI DISCOGRAFICI A FIRMA KAYO DOT. MI PIACEREBBE SAPERE QUALI SONO LE RAGIONI DI QUESTA EVOLUZIONE STILISTICA E COME SI COLLEGA “BLASPHEMY” AGLI ULTIMI DISCHI DELLA VOSTRA DISCOGRAFIA.
– Penso si possa semplificare di molto il discorso e affermare che “Blasphemy” sia un incrocio fra “Hubardo” e “Coffins On Io”. Spesso esamino quale sia la mia relazione con la musica cosiddetta ‘sperimentale’, cosa significhi per me e quale tipo di valore io gli dia. Attualmente, la mia idea di sperimentazione è scrivere musica diretta, per me questa è una nuova frontiera. È una sfida immaginare di poter scrivere musica semplice ma allo stesso tempo nient’affatto banale e che rimanga interessante nel tempo. Questa è semplicemente una sfida che ho posto a me stesso, inoltre volevo comporre materiale per due chitarre e non una soltanto come avevo fatto ultimamente. Pensa che per i Kayo Dot non pensavo a canzoni per due chitarre fin dal nostro secondo album del 2005, “Dowsing Anemone With Copper Tongue”.
I SINTETIZZATORI SONO PER QUANTO MI RIGUARDA L’ELEMENTO PIÙ DISTINTIVO E IMPORTANTE DI “BLASPHEMY”, ASSIEME ALLE LINEE VOCALI. COME AVETE SVILUPPATO IL SOUND DEI SINTETIZZATORI E QUALE FEELING INTENDEVATE EVOCARE CON ESSI?
– È curioso che tu dia questa interpretazione, perché dalla mia prospettiva le chitarre sono attualmente più centrali dei sintetizzatori, che invece rimangono solo sullo sfondo. Ma, rimando sui synth, non volevo assolutamente nulla che si potesse definire ‘vintage’, perché a molti il nostro disco precedente, “Plastic House On Base Of Sky”, dava l’impressione di arrivare dagli anni ’80, per via dei sintetizzatori Korg utilizzati. Volevo evitare questo accostamento, mi sono rivolto verso suoni dal feeling più analogico, che evocassero un’idea di modernità, macchinari al lavoro, oppure portassero a credere di essere avvolti in una nebbia soffocante.
PASSANDO INVECE ALLA TUA PROVA VOCALE, MI PARE CHE CANTI IN MODO MOLTO MENO STRANO E BIZZARRO DI ALTRE TUE PRESTAZIONI PASSATE NEI KAYO DOT, ANCHE SE POSSIAMO COMUNQUE UDIRE ALCUNE SPERIMENTAZIONI, DIFFERENTI TONALITÀ ED EFFETTI LUNGO IL CORSO DELL’ALBUM. VOLEVO CHIEDERTI COME HAI LAVORATO PER OTTENERE LE LINEE VOCALI PIÙ ADATTE PER ASSECONDARE LE LIRICHE, IL MOOD DELLA MUSICA, IN PARTICOLARE PER QUANTO RIGUARDA “OCEAN CUMOLONIMBUS” E “VANISHING ACT IN BLIDING GRAY”, DOVE PENSO CI SIANO LE PROVE VOCALI PIÙ INTENSE E VARIEGATE.
– Ultimamente ho ascoltato molte band del filone emo, roba alla My Chemical Romance, cose che normalmente odio ma, in questo caso, mi hanno ispirato per la loro energia. Così per “Blasphemy” ho desiderato avere delle voci che fossero in primo piano e non oscurate dal riverbero. Dovevano emergere rispetto agli strumenti. È stato interessante per me osservare che i cantanti di estrazione emo non usano il vibrato nella voce e questo aiuta a penetrare quella che io definisco la ‘nebbia’ degli strumenti come se la voce fosse la prua di un dirigibile.
COME ACCADUTO PER ALTRE VOSTRE USCITE, CONCEPT E TESTI SONO A FIRMA DI JASON BYRON CHE, SE HO INTERPRETATO BENE LE NOTE DI PRESENTAZIONE DEL DISCO, HA SCRITTO UN INTERO RACCONTO/ROMANZO BASANDOSI SULLE TEMATICHE DI “BLASPHEMY”. QUALI SONO I PRINCIPALI ARGOMENTI TOCCATI? CI SONO DEI COLLEGAMENTI CON CIÒ DI CUI SI PARLA, AD ESEMPIO, IN “HUBARDO”, DOVE ANCHE IN QUEL CASO LE LIRICHE ERANO STATE SCRITTE DA JASON BYRON?
– Sarebbe meglio rispondesse Jason, ma provo a darti lo stesso il mio punto di vista. Penso che “Hubardo” fosse legato a certe idee sull’esoterismo che Jason aveva maturato in quel periodo. Lì parlava di alchimia e thelema, l’idea di seguire solo i propri voleri, trovare il proprio obiettivo nella vita e trasformare se stesso. Quando ho discusso con lui di cosa avrebbe parlato “Blasphemy”, la mia prospettiva era che, vista la situazione attuale del mondo, fosse importante per noi esplorare argomenti concreti e materiali, non di evasione, di fuga dalla realtà. In superficie, abbiamo una storia di fantasia, ma è un pretesto per toccare argomenti importanti per noi e strettamente legati alla vita reale: in “Blasphemy” si parla di avidità, lotta per il potere, l’elitarismo della religione, tradimenti, desiderio di compiere una rivoluzione.
L’ALBUM ESCE IN DIVERSI FORMATI, COMPRENDENTI ANCHE UN LIBRO DOVE È CONTENUTA LA PRIMA PARTE DEL RACCONTO DI BYRON E UN BONUS DISC CON ALTRO MATERIALE INEDITO. PERCHÉ VI SONO COSÌ NUMEROSE EDIZIONI DELL’ALBUM E COME AVETE PROGETTATO LE VERSIONI CON LIBRO E DISCO AGGIUNTIVO?
– Far uscire un album in tanti formati è tipico della nostra casa discografica, la Prophecy Productions. Visto che mi offrivano la possibilità di fare qualcosa di speciale ho cercato di cogliere l’opportunità e di dare valore al materiale aggiuntivo. Il bonus disc è un intero album di remix, che vanno così in profondità nel cambiare i connotati dei pezzi che possiamo considerarle delle nuove composizioni vere e proprie. I remix sono opera di un mio amico, il produttore conosciuto per lo pseudonimo Wet Math. Volevo fosse coinvolto sull’album in qualche modo, tra l’altro è pure un ottimo chitarrista, ha sostituito Ron (Varod, il chitarrista titolare, ndR) in uno dei nostri tour. Su “Blasphemy” non ha suonato, non avevamo bisogno di un altro chitarrista e allora ho cercato di avere la sua collaborazione sotto un’altra forma. Ogni altra cosa è stata pensata e costruita da me stesso.
IN PASSATO, MI RIFERISCO A “CHOIRS OF THE EYE”, “BLUE LAMBENCY DOWNWARD” O “COYOTE”, APPLICAVATE ALLE CANZONI LA FORMA DELLA SINFONIA. NELL’ULTIMA PARTE DI CARRIERA, PREFERITE UNA FORMA CANZONE ABBASTANZA LINEARE: RITIENI VI SIANO COMUNQUE DELLE SIMILITUDINI NEL SONGWRITING TRA QUANTO FATTO DI RECENTE E GLI ALBUM CITATI IN PRECEDENZA?
– Le mie canzoni hanno sempre avuto l’obiettivo di seguire in qualche modo una forma canzone oppure, detto in altri termini, considero me stesso più un songwriter che un vero compositore, nel senso di composizione classica. Le vecchie canzoni dei Kayo Dot possono essere suonate e cantate solo con una chitarra acustica di accompagnamento, ma ammetto che spesso questa semplicità si nasconde all’interno di vasti, profondi canyon sonori.
NELLA LINE-UP DEI KAYO DOT SI SONO SUCCEDUTI NEGLI ANNI MOLTI MUSICISTI: QUALI SONO ADESSO I MEMBRI DEL GRUPPO E CHI HA DATO, OLTRE A TE, IL CONTRIBUTO PIU’ IMPORTANTE ALLA RIUSCITA DI “BLASPHEMY”?
– Al momento la line-up è composta da: me, Ron Varod, nostro chitarrista dal 2011, Philip Price alla batteria, Leonardo Didkovsky all’altra batteria. Tim Byrnes ha suonato la tromba in una traccia. E ovviamente c’è Jason Byron che ha scritto i testi. Il contributo più importante fra gli altri? Non saprei, il grosso del lavoro è stato comunque il mio.
MUSICALMENTE NASCI COME BASSISTA, SUCCESSIVAMENTE HAI ABBRACCIATO DIVERSI STRUMENTI E SEI DA TEMPO UN POLISTRUMENTISTA. OGGI QUAL È LO STRUMENTO CON CUI TI SENTI PIÙ A TUO AGIO E CHE TI DÀ MAGGIORE SODDISFAZIONE SUONARE?
– Non è esatto, il mio primo strumento è stato il clarinetto, solo qualche anno più tardi ho iniziato a suonare il pianoforte, basso, chitarra e batteria. Lo strumento con cui riesco a esprimermi meglio rimane la chitarra.
NEL 2018 HAI REALIZZATO UN ECCELLENTE ALBUM SOLISTA, “THEY ARE THE SHIELD”, DOVE HAI ESPLORATO LA MUSICA SINFONICA ATTRAVERSO UNA SERIE DI ETEREE, POETICHE BALLATE. COME GIUDICHI QUEST’ALBUM? PENSI CHE LA MUSICA SINFONICA, COMBINATA CON UN APPROCCIO CANTAUTORALE, POSSA COMUNICARE QUALCOSA DI NUOVO NELLA MUSICA MODERNA? QUALI SONO LE DIFFERENZE CHE PERCEPISCI TRA LO SCRIVERE MUSICA PER KAYO DOT E PER I TUOI ALBUM SOLISTI?
– Non stavo cercando di comunicare nulla di ‘nuovo’ con quell’album, non pretendo di determinare alcun tipo di corrente culturale o di poter influire chissà quanto sulla scena musicale odierna. “They Are The Shield” è qualcosa che volevo fare per me stesso. In termini stilistici, no, non è nulla di nuovo, in fondo vado a rimescolare cose che bene o male qualcun altro ha già suonato negli ultimi cent’anni. Comunque ne sono orgoglioso, peccato non sia andato da nessuna parte, non ha ricevuto molte attenzioni e questo mi ha un po’ abbattuto e scoraggiato. Le differenze fra i due progetti, Kayo Dot e la mia versione solista, è che i primi sono potenti e pazzi, mentre il mio materiale solista tende a mantenere un’estetica ben precisa, pacifica ma inquietante, carina ma triste.
QUEST’ANNO È USCITO IL TERZO ALBUM DEI VAURA, “SABLES”, DOVE SUONI IL BASSO: UN DISCO CATCHY E PULSANTE LA CUPA ENERGIA DEL POST-PUNK MA, PARADOSSALMENTE, UN CONCENTRATO DI MUSICA ASTRATTA E CRIPTICA. COME PENSI SI SIA EVOLUTA LA MUSICA DEI VAURA DAL PRIMO DISCO AD OGGI?
– Josh Strawn, il leader dei Vaura, voleva creare un album non-rock e non-metal, utilizzando alcune particolari tecniche chitarristiche, una produzione di taglio industrial, il tutto modellato in modo tale da avere un sound non troppo distante da quello di “Climate Of Hunter” di Scott Walker. Tra l’altro, “Vaura” è stato mixato da Peter Walsh, che ha lavorato per decenni con Scott. Durante il processo creativo, alla fine molte canzoni sono tornate ad essere delle rock song, ma possiamo ancora percepire l’intenzione astratta che vi è alla base. Non saprei dirti perché Josh avesse in mente un progetto simile, mi pare riguardi cambiamenti che ha vissuto nella sua vita personale e che sono filtrati in qualche maniera in quel che suona. Da parte mia evito di prendere qualsiasi posizione di leadership nei Vaura, perché sono dell’idea che in una band deve esserci un solo leader.
IL 2019 È ANNCHE L’ANNNO DEL DISCO SOLISTA DEL CHITARRISTA DEI KAYO DOT RON VAROD, “DEER PINK”, SOTTO IL PROGETTO DENOMINATO ZVI. CHE TIPO DI MUSICA HA REALIZZATO IN QUEST’ALBUM?
– A Ron piace descrivere il suo disco come qualcosa di simile alla colonna sonora di “Lost Highway” di David Lynch, un film degli anni ’90. Racchiude il tipico stile chitarrristico di Ron, mescolato a beat trip-hop.
ESPLORANDO L’APPROFONDITA PAGINA BANDCAMP DEI KAYO DOT, MI SONO IMBATTUTTO, OLTRE AI FULL-LENGTH, IN ALCUNI PROGETTI MINORI E SIDE-PROJECT. MI INTERESSA SOPRATTUTTO SAPERE QUALCOSA DI DUE USCITE DI CUI AMMETTO DI NON AVERE LA PIÙ PALLIDA IDEA DI COSA SI TRATTI: “ALWAYS JUST OUT OF R.E.A.C.H. (ROBOTIC ECLOSION AFTER COMING HYLOZOIC)” AND “ICHNEUMONIDAE (OFFICIAL SOUNDTRACK)”. COME ME LI DESCRIVERESTI E CON QUALE RUOLO VI SEI STATO COINVOLTO?
– “Always Just Out of R.E.A.C.H.” è un EP del mio progetto industrial/IDM Piggy Black Cross. È quasi tutta elettronica, ma ci sono anche batteria, chitarra e voce. È stato il mio modo di verificare cosa significasse essere un produttore in senso stretto, lavorando su musica che poteva essere composta direttamente sul mio portatile mentre ero in tour. La cantante è Bridget Bellavia, penso che i miei fan possano trovare rinfrescante sentire una voce femminile sul mio materiale. “Ichneumonidae” è una composizione di musica classica scritta per una performance di danza butoh, nel 2012. Il violinista su quell’album è Timba Harris, col quale avevo già collaborato in passato nei Secret Chiefs 3.