A chi scrive, a conti fatti, non capita spesso di voler alzare il voto a una recensione a posteriori, e nelle rare occasioni si tratta di levare qualcosa. Non nel caso di “Memoirs Of A Murderer”, ancora costantemente in rotation e, a mente fredda, uno dei migliori debutti nel metal moderno da svariati anni a questa parte. I King 810 si sono fatti notare, nel bene e nel male, e sono finalmente arrivati ad esibirsi in Italia aprendo per gli Slipknot nel primo grande evento del 2015. Prima di assistere alla loro prova abbiamo incontrato David Gunn, decisi ad approfondire il lato prettamente musicale di un artista che troppo spesso è tirato in ballo quasi esclusivamente per il personaggio ed il potente contesto che è riuscito a dipingere in maniera tanto vivida. Gunn è il solo membro a rilasciare interviste, a riprova della sua totale dedizione alla band. La sua visione è chiarissima e il Nostro dosa le parole in maniera sapiente: non lo sentirete mai fare nomi e cognomi se non quelli della sua cerchia ristretta, o citare una band particolare come influenza diretta, quasi a voler fortificare un brand già potente e riconoscibile. Parla molto lentamente, a bassa voce, e a volte si dimostra quasi a disagio per la fama improvvisa, trasportato in un contesto totalmente irreale per un ragazzotto che fino a pochi mesi fa era intrappolato nel suo mondo, con la sua sola crew al fianco. Ci vogliono svariati minuti perché abbassi la guardia e si faccia vedere sorridere, evento più unico che raro. Dopo l’intervista si prenderà cura dei partecipanti al meet & greet che Metalitalia.com ha organizzato, e si dedicherà a tutti in maniera cordiale ed accorta. I suoi occhi dimostrano una maturità maggiore dell’età anagrafica, l’aspetto roccioso e le cicatrici sul volto raccontano molte storie, ma appare evidente che David Gunn non è esclusivamente il pregiudicato problematico che fa tanto notizia: la sua umanità e la sua profondità sono inattese e colpiscono. Non per niente il messaggio dei King, assieme a cronaca e denuncia di una realtà vergognosa e terrificante, contiene anche una sfumatura positiva, confermata dalle parole del frontman: quel far gruppo grazie all’amore per la musica che fa scudo alle sfavorevoli circostanze comuni, andando ad apprezzare le cose semplici e mai scontate della vita. King è anche famiglia e amore, come dicono gli hashtag popolari sui social.
COME HAI INIZIATO IL TUO PERCORSO MUSICALE?
“Ho iniziato quando ero bambino, all’età di 6 anni ho cominciato a scrivere qualche testo rap. I miei ascolti erano esclusivamente nell’ambito rap/hip hop, R&B e pop, ovvero tutta quella musica che era facilmente accessibile a quella età. L’ho fatto per sei o sette anni fino a quando, nell’adolescenza, conobbi ragazzi che possedevano degli strumenti e che volevano suonare. Visto che non ho mai saputo usare uno strumento non potevo che fare il cantante. Non ho mai smesso di scrivere, che fossero tasti di canzoni, rime, poesie o racconti. Qualunque cosa. A undici dodici anni ho incontrato alcune delle persone che mi hanno accompagnato nel mio viaggio musicale e che sono con me ancora oggi. Crescendo siamo migliorati progressivamente e dopo molti anni assieme abbiamo cominciato a farci notare a livello locale”.
E’ STATO DIFFICILE FORMARE UNA BAND A FLINT?
“Non stavo cercando una band in realtà. Eravamo un gruppo di amici. All’inizio e per qualche tempo i King siamo stati io e Gene (Eugene Gill, bassista, ndR). Poi è arrivato Andrew alla batteria, e qualche anno dopo abbiamo trovato Beal alla chitarra. Siamo stai insieme dall’età di 14 anni, senza cercare attivamente altri componenti, e abbiamo tenuto il gruppo attivo sperimentando negli stili, nei generi musicali, nei nomi. All’inizio era cazzeggiare, successivamente la situazione si è evoluta anche senza ‘spingere’ nel cercare elementi o situazioni. La nostra crew è insieme da sempre, alcuni sono arrivati e sono ancora insieme a noi, altri ce li siamo lasciati indietro nel cammino. Alla fine siamo rimasti in quattro, sono più di 10 anni che suoniamo assieme”.
QUALCHE ANNO FA AVETE AVUTO UN RAPPORTO, MOLTO BREVE A DIRE IL VERO, CON L’ETICHETTA EQUAL VISION…
“E’ accaduto attraverso una di quelle persone che non fa più parte del gruppo. Lui suonava con noi e con un altra metal band, che appunto aveva un contratto con Equal Vision. Lui ci chiese se volevamo firmare per quell’etichetta, fummo d’accordo ma il tutto finì ancora prima di iniziare. Intendo che non abbiamo nemmeno firmato un contratto, non siamo mai stati effettivamente parte di quella label . Registrammo un disco che non venne mai pubblicato e di cui non andiamo particolarmente fieri. Come spesso accade i possessori di quell’etichetta non erano realmente fan della nostra musica e volevano che adattassimo il nostro stile al genere in voga in quegli anni, ma eravamo le persone sbagliate. Nel giro di qualche mese, visto che le cose non andarono nel verso giusto, il secondo chitarrista ci abbandonò. Non cercammo nessuno per sostituirlo. Da allora i King sono un gruppo di quattro elementi”.
HO SENTITO PARLARE PER LA PRIMA VOLTA DEI KING QUANDO ROBB FLYNN DEI MACHINE HEAD VI HA NOMINATO NELLA SUA SUA TOP 5 DEL 2013. LO SAPEVI? HA COSTITUITO QUALCHE TIPO DI SVOLTA PER IL GRUPPO?
“Sì, l’ho saputo. Tra i musicisti di rilievo Robb è stato uno dei primi sostenitori dei King, se non il primo in assoluto. E’ un personaggio riconosciuto nella scena, di conseguenza immagino che molti ci abbiano scoperto attraverso le sue parole”.
COME SIETE ARRIVATI A FIRMARE CON ROADRUNNER? AVETE FIRMATO PRIMA PER IL PRESTIGIOSO MANAGEMENT 5B?
“Il contratto con il management è arrivato prima. A qual punto tutte le etichetti ci volevano. E’ un management prestigioso e anche Roadrunner è un’etichetta importante, ma noi non abbiamo mai dato peso a quanto sia grande o importante un’agenzia o una label, abbiamo pensato piuttosto a quanto questi potessero essere la scelta adatta per noi, a quanto potessero essere le persone giuste. Roadrunner non era l’etichetta più grande che voleva metterci sotto contratto, ma si è dimostrata l’etichetta giusta per noi perché ha le persone giuste. Gli Slipknot ci hanno chiesto di aprire per loro in un tour mondiale: se ipoteticamente suonassero in club da 100 persone a serata avremmo accettato comunque, perché loro sono persone con cui possiamo relazionarci, è il gruppo adatto a cui i King possono fare da supporter. Vogliamo essere circondati da persone che apprezzano e capiscono la nostra proposta”.
CONOSCENDO GLI EP “MIDWEST MONSTERS” E “PROEM” NON MI ASPETTAVO CANZONI COME “EYES”, “DEVILS DON’T CRY”, “TAKE IT” O “STATE OF NATURE”. QUANDO AVETE SVILUPPATO QUESTO LATO PIU’ INTIMO DELLA VOSTRA PROPOSTA?
“Quel lato ha sempre fatto parte della nostra proposta, la realtà è che non abbiamo mai voluto uscire allo scoperto fino a quando non abbiamo avuto canzoni veramente valide. Era necessario anche un disco che fosse ben sviluppato per poterle contenere, un disco completo e dinamico. Le abbiamo tenute nel cassetto quindi, nell’attesa di avere un contratto ed esporci al grande pubblico con l’album che da sempre avremmo voluto fare. Ai tempi di ‘Midwest Monsters’ si trattava di registrare delle canzoni che ci rappresentassero solo per suonare nella nostra zona e farci un nome. Con ‘Memoirs’ la dimensione è totalmente differente, abbiamo l’audience che volevamo e un disco a cui abbiamo lavorato a lungo”.
SEI SODDISFATTO DEL RISULTATO FINALE?
“Spesso gli artisti dicono che ci volevano più tempo o più risorse, o che avresti potuto far meglio qualche dettaglio. Mi sento estremamente fiero di ‘Memoirs’ e penso che sia uno dei migliori dischi usciti nel 2014 assieme a ‘5’ degli Slipknot. Non avrei mai creduto di poter pensare a una cosa del genere”.
NON TUTTI HANNO APPREZZATO GLI INTERLUDI “ANATOMY”. COSA RAPPRESENTANO PER TE?
“E’ un flusso di coscienza. Non scrivo nulla: accendo il microfono, mi siedo e dopo qualche minuto arriva. Non c’è accompagnamento, non ci sono strumenti o una base. E’ quasi una sorta di meditazione, non so come descriverlo propriamente. Qualcosa scatta, le parole cominciano a fluire e scorrono finchè il flusso si interrompe. Non è premeditato, non so e non penso a quello che sto per dire, ma quando riascolto le registrazioni è bello, è emozionante”.
E’ LA PRIMA VOLTA CHE TI INCONTRO DAL VIVO, MA SIA AL TELEFONO CHE NELLE INTERVISTE TI HO SEMPRE VISTO MOLTO SOBRIO.
“Quando la gente mi chiede se sono straight edge rispondo di sì, perché è quello che significa per loro (non bere, non fumare, non drogarsi ndR). Non sono mai fatto, non mi troverete mai in quelle condizioni sopra il palco o fuori dalla veste di musicista. Stessa cosa vale per Gene. Non riesco ad avere a che fare con me stesso da sobrio, figurarci sotto l’effetto di alcool o droghe. Non fa per me, so cosa succede con quella merda”.
UNA COSA INTERESSANTE CHE HO LETTO IN UNA TUA INTERVISTA E’ CHE, A TUA OPINIONE, CREARE ARTE COME TERAPIA PER SE’ STESSI E’ SBAGLIATO. VUOI CHIARIRE QUESTO CONCETTO?
“Non lo è in senso stretto. Se l’arte nasce come forma di terapia dovrebbe restare privata, dedicata esclusivamente al bisogno personale. Non si dovrebbe seguire il proposito di creare musica, registrarla e venderla al pubblico in certi casi. Non registrerei le mie sedute dallo psicologo per venderle. Qual è lo scopo? Quell’arte è nata per un fine sbagliato. Non mi interessa se qualcuno finisce per farlo, chiunque è libero di seguire quella strada, è solo che per mia concezione le cose non possono andare a braccetto, è qualcosa che non riesco a comprendere”.
LA #KING810FAMILY STA CRESCENDO VELOCEMENTE FUORI DAL MICHIGAN E FUORI DAGLI STATI UNITI. COME CI SI SENTE?
“E’ bello, sorprendente. Una volta terminato il disco non immaginavo che la nostra musica potesse toccare tante persone. Pensavo che forse solo i protagonisti delle nostre storie, chi sta a casa nostra, chi ha vissuto la realtà che raccontiamo potesse amarle. Sono le loro vite, le nostre vite. Non pensavo potesse essere accettato nel resto del mondo, solo recentemente è nata questa speranza. Quando le abbiamo scritte pensavamo alla nostra gente, ai nostri amici, è loro che volevamo toccare. Non immaginavo che qualcuno in Italia potesse ascoltare la nostra musica”.
SECONDO TE CHI VIVE IN ITALIA O IN QUALSIASI ALTRO PAESE STRANIERO PUO’ DAVVERO RELAZIONARSI CON I TUOI TESTI IN MODO CORRETTO?
“Penso che tutti possano. C’è una sorta di anima nella musica. Le canzoni sono nate da persone e luoghi reali, non sono frutto della mia immaginazione. Sono emozioni umane e reali, e da esseri umani passiamo tutti tra sfumature diverse di dolore, tra sentimenti di felicità, tristezza: tutti hanno una gamma finita di emozioni quindi tutti sono compatibili ad esse. Oggi posso dire con coscienza che in qualsiasi punto del mondo ci si può relazionare alla nostra musica”.
TORNIAMO UN ATTIMO A “MIDWEST MONSTERS”: LO SAI CHE QUALCUNO LO STA VENDENDO ALL’INTERNO DEL MARKETPLACE AMAZON?
“(Ride, ndR) L’ho saputo. A quanto lo vendono ora?”.
189 DOLLARI.
“Ne ho 300 copie a casa che sarei felice di vendere a 90 centesimi l’una”.
AVETE PENSATO DI RISTAMPARLO?
“Al tempo l’abbiamo registrato per suonare in giro, lo davamo ai concerti assieme al biglietto d’ingresso, che di solito veniva 5 dollari. Visto l’interesse che si è generato potremmo ristamparlo, non mi piace negare alla gente quello che vuole. Non è ancora deciso, ma a questo punto ci penseremo”.
E’ LA PRIMA VOLTA CHE LO FAI A LIVELLO INTERNAZIONALE: E’ DIFFICILE VIVERE SU UN TOUR BUS, E FARE TUTTE LE INTERVISTE CHE STAI FACENDO?
“Le cose oggi sono molto differenti. Ero abituato a vivere nel mio mondo, con le mie cose e la mia gente. Oggi è tutto diverso. Gli spostamenti sul bus. Scaricare la strumentazione. Camerini, interviste. Quando ero ragazzino non realizzavo che assieme alla musica dovevi avere a che fare con tutto questo. Non mi sto lamentando, oggi è tutto molto intenso, è reale. Potrebbe andare molto peggio, è una nuova vita”.