Amati e odiati, i Lacuna Coil sono sotto i riflettori con “Broken Crown Halo”, un disco lontano dall’essere rivoluzionario che però rilancia la band in un momento delicatissimo della propria carriera. Ne parliamo con Andrea e Cristina, che si lasciano andare in una conversazione lunga ed animata, trasportati dall’entusiasmo e dall’adrenalina e contemporaneamente tesi da un senso di novità, per l’album pronto che sarà pubblicato solo mesi dopo, e di cambiamento, al tempo della nostra chiacchierata ancora non dichiarato. Entrambi sono comunque positivi e sorridenti, completando le frasi dell’altro come spesso accade sul palco, dimostrando di essere lontani anni luce da come spesso vengono dipinti. Signore e signori, la band più importante del metal italiano dal 1998, i Lacuna Coil.
COMINCIAMO PARLANDO DELLA PRODUZIONE DELL’ALBUM: VEDO UN TEAM DI PRIMO LIVELLO, IL VOSTRO BUDGET E’ CRESCIUTO ULTERIORMENTE IN QUESTO PERIODO DI CRISI?
Andrea: “Il nostro budget aumenta ad ogni disco da contratto, a seconda anche delle vendite del disco precedente. C’è una parte fissa che cresce ogni album, perché il nostro contratto iniziale era di cinque pubblicazioni. Prima di ‘Comalies’ abbiamo esteso, ri-firmando e cambiando le condizioni, perché il gruppo stava andando bene, con estensione fino a sette album. Da allora in una parte il budget aumentava e per una parte lo faceva in base alle vendite del disco precedente. Questo è stato l’album con il budget maggiore di tutti ad oggi, almeno a livello di registrazione. Le altre cose, come il budget dedicato alla promozione, coi tempi sono cambiate molto”.
VE LA SENTITE DI PARLARE DI CIFRE?
Andrea: “Sono cifre forse grosse in una realtà di oggi, dove c’è stato un drastico ridimensionamento del mercato discografico. Qualche tempo fa dei budget simili erano normali per un’etichetta indipendente, oggi sono più quelli di una major”.
Cristina: “Suonerebbero molto pomposi, in realtà i costi sono elevatissimi: un produttore di un certo livello costa, ci sono gli ingegneri del suono, i viaggi, le VISA lavorative di un produttore che non è italiano… Aggiungi di qua, aggiungi di là…”.
Andrea: “Diciamo che sono più di 100.000 euro e meno di un milione. Molto meno di un milione. Più vicino ai centomila!”.
IL CONCEPT DIETRO AL TITOLO “BROKEN CROWN HALO” SEMBRA COMPLESSO, VOLETE APPROFONDIRLO?
Andrea: “In realtà è stato un parto un po’ difficile perché eravamo partiti con un altro titolo, che ha dato anche un’impronta e una direzione all’album. Riguardava sempre la corona, la Regina, perché ci sembrava potesse spaziare molto come argomento, poi invece man mano che terminavano le canzoni, man mano che ci consultavamo sui testi abbiamo ristretto sempre di più, certe cose ci sembravano troppo banali o usate. Alla fine con l’aiuto del nostro manager, che è canadese di madrelingua inglese, è saltato fuori questo titolo che per noi sarebbe stato difficile tirar fuori da soli: è un’associazione di parole che un italiano probabilmente non farebbe, un italiano tende a tradurre un pensiero o a prendere in prestito qualche costruzione che già esiste, che ha già sentito. Col suo aiuto abbiamo scelto questo insieme di parole che non ha un significato immediato, non è chiaro e puntuale, ma è un insieme di cose che creano il concetto che volevamo esprimere, ovvero quello di una realtà che non è ciò che sembra. Oggi, anche per l’apporto del digitale e per il ‘vivere’ su internet, la realtà è molto confusa, è separata tra vita vera e finzione, l’identità è anche quella che uno si crea su internet, e l’amicizia ha anche un significato diverso con l’avvento di Facebook. I testi sono basati in gran parte su quello che abbiamo vissuto nell’ultimo anno, sulla falsità di alcune cose e sull’importanza di altre, da tenere più presenti nella nostra vita”.
C’E’ UN CONCEPT ANCHE DAL PUNTO DI VISTA LIRICO?
Cristina: “Tutte le canzoni sono legate tra loro, ma il tema di fondo è proprio quello che ha appena raccontato Andrea. La corona di ‘Broken Crown Halo’ va ad essere il simbolo dell’essere il Re o la Regina di questo regno personale che in realtà non è ciò che sembra”.
HO LETTO DI MOLTI CAMBIAMENTI E PROBLEMI PERSONALI CHE SONO FINITI NELL’ALBUM. COME HANNO INFLUITO?
(Nota: l’intervista è stata fatta lunedì 27 gennaio, prima che la band annunciasse l’uscita di Cristiano Migliore e Cristiano Mozzati. Col senno di poi le parole di Cristina e Andrea assumono un significato più definito).
Cristina: “Qualsiasi cosa che ti accade nella vita lascia un segno, in particolar modo le cose negative o intense. Ci sono stati problemi personali come malattie in famiglia, cambiamenti radicali con persone che hanno cambiato residenza o abitazione, cose che ci hanno scosso e sono finite inevitabilmente nei testi. Il punto di vista nella vita cambia, si dà un valore diverso agli avvenimenti, cambiano le priorità, prima si dava troppa importanza a cose che in realtà non hanno un rilievo tanto importante. Si matura fondamentalmente”.
Andrea: “Facendo questo tipo di lavoro pensi costantemente al prossimo ciclo di tour, agli spostamenti e alle cose da fare e pianificare, tanto che perdi di vista il corso della vita delle persone a te vicine, che hanno una vita più normale. Senti i tuoi cari via Skype, via internet, ma perdi il contatto con la vita di tutti i giorni. Quando invece torni a casa e ti fermi un po’, per scrivere o semplicemente per riposare, fai le esperienze che per tutti caratterizzano la vita ‘normale’ e ti riallacci ad un altro tipo di abitudini, rendendoti conto che gli anni passano, che i tuoi genitori non sono più così giovani, che tua moglie è a casa ad aspettarti e magari desidera un figlio. Il tempo viene percepito diversamente”.
Cristina: “Molta gente ci chiede come facciamo ad andare in tour per così tanto. Per noi il tempo è diluito, scorre in maniera totalmente diversa. Tre mesi possono sembrare una settimana o possono sembra tre anni a seconda della tolleranza che hai come persona nei confronti di un tour, del fatto di viaggiare in continuazione, del fatto di non avere i tuoi affetti vicino, vivere sul bus e non a casa tua. E’ una condizione particolare”.
ASCOLTANDO L’ALBUM HO PENSATO CHE AVETE RAGGIUNTO DA TEMPO LA VOSTRA FORMULA, MA AL CONTEMPO, NEI PRIMI ASCOLTI, HO NOTATO UN VIBE PIU’ HORROR, PIU’ DARK, SOPRATTUTTO NELLE TASTIERE. AVETE CITATO I GOBLIN NEI COMUNICATI STAMPA, AVETE DETTO CHE AVETE SPERIMENTATO CON LE STRUMENTAZIONI VINTAGE…
Cristina: “Sì, Le Officine Meccaniche è uno studio strapieno di strumenti vintage”.
Andrea: “Anche nel disco prima abbiamo registrato tutta la parte strumentale in quello studio, quindi avevamo più confidenza con Mauro Pagani, il proprietario, che ha lavorato con De André, la PFM, oltre a molti altri artisti di rilievo. Ha una collezione enorme di chitarre vintage, microfoni e molto altro. Con noi ha tirato fuori quello che di solito tiene protetto, ci ha fatto usare delle Gibson anni ’60, Fender, ampli Orange dell’epoca, microfoni Telefunken, pedalini vari, una eco che usavano i Pink Floyd… Tutte strumentazioni vecchissime che hanno influenzato molto il lato sonoro, questa volta meno ‘prodotto’ in generale rispetto al passato, meno sofisticato. C’è meno intervento del digitale nell’andare a ritoccare i suoni, c’è un po’ più di grezzume forse, nel senso buono del termine. E’ tutto più basato su suoni reali, non come oggi che registri le chitarre pulite e poi le processi in fase di missaggio ricollegando gli ampli a delle macchine digitali. Qui ci sono suoni veri, tutti quelli che senti sono strumenti veri: abbiamo usato un sacco di rullanti per la batteria, casse, ci ha aiutato Mario Riso che veniva tutti i giorni ad accordare la batteria, ci proponeva tutte le varianti che gli venivano in mente – lui è un maniaco, avremo usato dodici rullanti prima di trovare quello che funzionava – quindi è stato un lavoro un po’ all’antica se vuoi”.
Cristina: “E’ stato divertente poi perché in quegli studi si respira un’aria diversa. Anche Jay, il produttore, nel momento in cui è entrato in studio ha detto che ‘si respira’ il vintage”.
Andrea: “E’ anche stato comodo per noi registrare a Milano perché avevamo fatto un sacco di tour l’anno prima e non avevamo tutto questo tempo per finire il disco, abbiamo sistemato i testi fino all’ultimo momento, quando gli altri già iniziavano a registrare. Siamo stati in studio un mesetto, quindi le canzoni c’erano già. La batteria è stata arrangiata in studio, i testi sono stati completati lì e dunque è stato un lavoro all’antica”.
Cristina:”Per quanto riguarda l’influenza dark comunque siamo sempre stati fan delle tematiche horror…”.
Andrea: “Marco ha scritto gran parte della musica come sempre. Lui ama suonare con la televisione accesa, magari davanti a qualche documentario di History Channel o a qualche film horror, e si mette a suonare facendo una colonna sonora delle immagini trasmesse, mettendo il volume della TV a zero, giorno e notte. Per questo secondo noi alcune canzoni suonano un po’ da colonna sonora. Le tastiere o gli archi, come hai notato tu, sono cinematici perché sono nati in questo modo particolare”.
QUESTO MODO DI COMPORRE E’ UNA NOVITA’ PER LUI?
Andrea: “Aveva iniziato col disco precedente…”.
Cristina: “…in questo ultimo anno e mezzo-due è stato molto a casa per un problema alle braccia e si è messo a comporre molto più del solito. Ha attrezzato un piccolo studio in casa sua e questo l’ha portato a scrivere in casa con la TV accesa”.
Andrea: “Ha iniziato anche a produrre alcuni gruppi italiani per fare esperienza, come i Mellowtoy per esempio, e ha iniziato ad arrangiare e a metter mano sui pezzi di altri, un modo per allargare le proprie visioni e sbloccare processi mentali per scrivere in maniera diversa. E’ cresciuto molto da questo punto di vista”.
QUESTO APPROCCIO PIU’ LIVE QUINDI E’ STATO NATURALE, E’ STATO UNA CONSEGUENZA DEGLI ESPERIMENTI IN STUDIO OPPURE E’ STATO CONSIGLIATO DAL PRODUTTORE?
Andrea: “Sicuramente il produttore e lo studio hanno influenzato parecchio il risultato finale, perché noi abbiamo portato la nostra strumentazione usuale – microfoni e chitarre a sette corde – che comunque abbiamo usato in parte, ma nelle melodie e nei suoni strani abbiamo potuto sperimentare in un modo che da soli non avremmo mai fatto, soprattutto grazie a Kyle, l’ingegnere del suono, un ragazzo di ventisei anni che ha studiato alla Berkelee di Boston ed è stato già nominato a Grammy Awards, un talento incredibile. Jay è invece una persona che ama suonare un po’ di tutto ed ama lavorare sui cantati, quindi per noi è stato un metodo che ci ha molto stimolato. All’inizio, con la canzone pronta, abbiamo un po’ imparato le canzoni in studio. Successivamente lui ci spingeva a modificarle, ri-plasmarle. Diceva ‘l’hai imparata, adesso me la canti’. Ci ha spinti al massimo, è stato un metodo nuovo anche per noi. La produzione è intervenuta tanto sui suoni e sul metodo di lavoro. Se senti le demo le strutture delle canzoni e le linee vocali sono praticamente uguali al prodotto finito. Io, Cristina e Marco, al nostro livello di esperienza, lavorando insieme da molti anni, abbiamo raggiunto un livello per il quale sappiamo bene cosa vogliamo da una canzone. Quello in cui un produttore ci può venire in aiuto sono quelle cose che da solo non avresti mai fatto, come andare a prendere una testata di un certo tipo, e nel metodo di lavoro in studio”.
SONO STATO COLPITO DA “I BURN IN YOU”, FORSE IL PEZZO PIU’ SPERIMENTALE DELLA RACCOLTA. COME SONO NATI QUEI VOCALIZZI STRANI?
Cristina: “Proprio in studio, dove abbiamo cambiato qualcosina”.
Andrea: “La canzone, come le altre, era già pronta. E’ stata strutturata per partire con un’atmosfera quasi etnica, poi si sviluppa invece in un caos nella parte della variazione. Abbiamo voluto un po’ andare a ruota libera. In questo disco ci siamo detti che se ci avessimo voluto mettere il gutturale l’avremmo messo, se avessimo voluto metterci lei che fa un urlo in un certo modo ce l’avremmo messo. Quegli acuti altissimi che sembrano rumori inumani li ha fatti proprio Cristina. Quel pezzo si prestava particolarmente – soprattutto nella parte centrale – perché non ha la struttura da singolo, quindi ne abbiamo approfittato per sperimentare”.
NON AVETE MAI PENSATO DI CHIAMARE UN OSPITE PARTICOLARE, VISTO CHE ORAMAI VANTATE PARECCHIE AMICIZIE NEL CAMPO ARTISTICO INTERNAZIONALE?
Cristina: “Ci è mancato il tempo. In realtà volevamo farlo, abbiamo sentito anche l’artista che avevamo in mente ma non siamo riusciti ad incastrarci con i tempi”.
Andrea: “Siamo andati lunghi di una decina di giorni con le registrazioni e poi avevamo il tour coi Paradise Lost…”.
Cristina: “I mixaggi finali li abbiamo ascoltati in tour”.
Andrea: “Ci sarebbe piaciuto moltissimo. Siamo stati in tour coi Sevendust e abbiamo legato molto, quindi avere ospite Lajon ci sarebbe piaciuto un sacco, solo che non c’è stato proprio il tempo. Cercheremo di organizzarci meglio la prossima volta!”.
AVETE ACCENNATO PRIMA AL VOSTRO MANAGEMENT. NON SI PARLA TANTO DI QUESTE COSE. SIETE SOTTO RIOT ROCK – GIUSTO? – UN MANAGEMENT CANADESE CHE CURA POCHI GRUPPI MOLTO DIVERSI TRA LORO…
Andrea: “In passato eravamo con un altro management europeo, tedesco per la precisione, che aveva un sacco di gruppi come Dimmu Borgir, In Flames, Samael, Tiamat, Sentenced, Moonspell… e ci trovavamo bene. Siamo stati con loro fino a ‘Comalies’, però non sempre potevano dedicarsi a noi. Ad un certo punto abbiamo deciso di cambiare e abbiamo preso in considerazione altre persone soprattutto in Nord America, un mercato che stava iniziando a svilupparsi per la band. Avere un management in Germania per un gruppo che funziona in Nord America non è la cosa migliore. In America è tutto un altro mondo, quindi abbiamo pensato di lavorare di più dall’altra parte dell’oceano. Conoscevamo già questa persona perché avevamo lavorato con lui alla Century Management, che faceva la nostra produzione in Canada per la EMI, ci conoscevamo e ci è sempre sembrata una persona molto competente ed onesta. Cercavamo qualcuno che potesse aiutare il gruppo, magari anche senza il potere di management più grossi ma che si dedicasse a noi come priorità e di cui ci potessimo fidare veramente, facendoci capire meglio come funzionano certe cose”.
Cristina: “Era una di quelle persone con poca esperienza, ma con un fuoco dentro, che non vedeva l’ora di fare delle cose nuove per dimostrare di saperci fare. Lui segue più generi, gruppi grossi come realtà più piccole ed underground, possiede una sua piccola casa discografica e sa parecchie cose del music biz”.
Andrea: “Lavora con artisti molto diversi: ha noi come gruppo rock, ha una cantante soul, un DJ, un wrestler, e quindi ha una visione molto diversa. Non volevamo entrare in un management che decidesse tutto per noi, dalla produzione del palco ai vestiti”.
Cristina: “Molti paladini del metal sono più costruiti di quello che si possa pensare. Noi vogliamo rimanere noi stessi. Vogliamo essere padroni di cosa fare della nostra musica, della nostra immagine…”.
Andrea: “… anche sbagliando forse, ma comunque operando una scelta nostra”.
PARLANDO DI BUSINESS E DI SCELTE OGGI SI PARLA TANTO DEI PACCHETTI VIP E DEI MEET & GREET A PAGAMENTO. AVETE MAI FATTO COSE DEL GENERE?
Cristina: “Certo, spessissimo, l’abbiamo fatto anche noi regolarmente. In pratica oltre al biglietto di ingresso si offre un incontro con la band, gadget esclusivi, magari la maglietta in edizione limitata. Trovo anche sia un’ottima idea perché c’è sempre stato il feticcio dell’articolo esclusivo legato alla band o all’artista, al di là della foto e dell’autografo. Scegliere di poter avere determinate cose è sicuramente un’ottima idea”.
Andrea: “C’è anche da dire che la cosa è una novità solo in Italia, all’estero e soprattutto negli Stati Uniti facciamo queste cose da molti anni. E’ anche una necessità da un certo punto di vista: è vero che i gruppi cercano di guadagnare in tour il più possibile, è vero che non si vendono più i dischi che si vendevano prima, non ci sono più entrate dal punto di vista discografico e quindi si cercano nuove strade per guadagnare. Abbiamo sperimentato che è una bella esperienza per i fan, e comunque resta sempre una scelta del tutto facoltativa. Sin dai tempi dell’Ozzfest ricordo che facevamo due meet & greet a data: uno per la catena di negozi di dischi FYE, a cui si accedeva acquistando l’album, e uno per Jagermeister, ancora oggi nostro sponsor, dove regalavano il poster della band e uno shot glass, e firmavi a gratis senza dover comprare nulla. Negli States si è sempre fatto, in una moltitudine di modi differenti, ora è arrivato da noi un po’ per forza di cose, un po’ perché è una buona idea e ha sempre avuto un grande riscontro”.
SIETE IN PARTENZA PER L'”HOTTEST CHICKS IN HARD ROCK TOUR”. A VOLTE SCELTE DEL GENERE POSSONO ESSERE COME METTERSI UN BERSAGLIO SULLA SCHIENA. NE AVETE MAI DISCUSSO?
Cristina: “Quel nome proviene dalla rivista Revolver, molta gente non lo sa e pensa che vogliano vendere un tour pieno di donnine su un palco. In realtà Revolver Magazine anni fa ebbe l’idea di realizzare un numero esclusivo dedicato a tutte le donne della scena e io ebbi l’onore di finire sulla copertina”.
Andrea: “C’è da dire che sono cambiate tanto le cose. Quando facemmo il primo ‘Hottest Chicks’ tour, che allora era chiamato ‘Hottest Chicks In Metal’ e vedeva noi, Within Temptation, The Gathering e altri, era una cosa più di nicchia…”.
Cristina: “…oggi è una cosa molto più sdoganata, un ‘marchio’ conosciuto, non ci pensiamo nemmeno più a queste cose”.
Andrea: “Non dimentichiamo inoltre che c’è anche un lato ironico nel nome, in America si gioca volentieri verso le ‘hot chicks’ senza pensare a sessismo o altro. Poi diciamolo, chi vuole criticare lo farà a prescindere, anche se il tour si chiamasse in qualsiasi altro modo!”.
PARLAVAMO PRIMA CON CRISTINA PROPRIO DI QUESTO ARGOMENTO. SU METALITALIA, VISTE LE REAZIONI SPROPOSITATE, POCO ELEGANTI E PER NIENTE COSTRUTTIVE DI ALCUNI LETTORI, ABBIAMO TENTATO DI MODERARE I COMMENTI AI VOSTRI ARTICOLI, MA VISTO CHE RISULTA IMPOSSIBILE ATTUALMENTE CHIUDIAMO LE DISCUSSIONI A PRESCINDERE…
Cristina: “Non è giusto nemmeno in questa maniera, secondo me. Gli italiani sono coloriti. Sono tutti CT della nazionale. Pensano di sapere tutto e sentono soprattutto il bisogno di esprimere il proprio parere, che molte volte è polemico. Questo accade in particolar modo se c’è quel pizzico di invidia scaturita dal voler essere al posto di chi si critica, vuoi perché di aspetto fisico migliore, vuoi perché la donna bella deve essere scema sicuramente, nel nostro caso è quasi sempre perché siamo uno dei pochi gruppi ad essere arrivati ad un certo livello. Vai a spiegare che il motivo è che ci siamo fatti un mazzo così, ci siamo sempre sacrificati, abbiamo lasciato il lavoro a vent’anni per dedicarci esclusivamente alla musica, vagli a dire che abbiamo fatto la fame per anni prima di riuscire a raggiungere un equilibro. Tante persone vedono quello che vogliono vedere, vedono solo il gruppo che gira il mondo in tour sul bus ultra-figo, senza pensare a quello che c’è dietro”.
Andrea: “Non è solo un’abitudine italiana purtroppo, se leggi Blabbermouth la situazione non è molto diversa. Non criticano il gruppo italiano perché è italiano ma in alcuni casi, vedi gli Avenged Sevenfold per esempio, su ogni news c’è una fila di commenti e critiche, eppure sono i gruppi che vendono di più. In Italia inoltre non c’è una storia di gruppi che hanno fatto successo all’estero. In Germania ci sono stati gli Helloween, poi i Kreator e i Destruction, poi Rammstein e Guano Apes, gruppi che hanno lavorato a livello internazionale. In Italia non esiste questo, non nel mondo del metal, e a volte ci si trova davanti all’auto-umiliarsi delle persone e degli artisti che non pensano di essere all’altezza delle formazioni svedesi, tedesche o americane, o di chiunque abbia un pubblico internazionale. Io vedo invece molti gruppi di oggi che sono molto validi, vedo giovani che hanno una padronanza dello strumento che noi stessi non avevamo, una nuova generazione che con internet ha avuto accesso a più conoscenza e più fonti, con una vera e propria finestra sul mondo com’è internet, ed è avanti di dieci anni rispetto a quello che siamo stati noi in passato”.
Cristina: “Con la popolarità arriva la critica. Io non sono però per la censura, in tutta sincerità se fa stare meglio loro, li fa sfogare dalle loro frustrazioni e dopo quando vanno a bersi una birra con gli amici sono più contenti va bene così. A noi come gruppo non cambia assolutamente nulla, non ci impedisce di fare quello che vogliamo e raggiungere gli obiettivi che ci prefiggiamo”.
Andrea: “Senza un forte odio non esisterebbe nemmeno un forte amore. Se sotto una notizia ci sono cento commenti con sessanta di questi negativi e su un’altra due, vuol dire solamente che la seconda notizia non se la caga nessuno. Finchè c’è attenzione sul gruppo, positiva, negativa, vera, falsa, giusta o sbagliata è perché c’è interesse intorno al gruppo, e se c’è invidia vuol dire che il gruppo ha fatto qualcosa”.
Cristina: “Devo dire che a volte è divertente leggere i commenti negativi. Ti rendi conto di quanta ignoranza ci sia, di come la gente non sappia nulla di come funzionano le cose”.
Andrea: “E’ normale che avvenga questo in una realtà italiana dove appena si parla di ‘music business’ la gente scatta perché ‘business’ non va associato alla parola ‘musica’. E’ così che si chiama in tutto il mondo e per tutti i generi suonati, dalla disco al jazz. La gente non concepisce che questo è anche un lavoro, oltre ad essere una passione. Ci sta che accada, solamente perché manca la conoscenza, tutto qui. Un commento negativo ma ironico o pungente viene anche apprezzato, perché c’è dell’intelligenza. Accade in tutti i campi, dallo sport alla politica, è un po’ l’indole e la natura umana”.
Cristina: “A volte è capitato che le persone che mi hanno insultato da qualche parte siano poi venute a scusarsi direttamente con me tramite messaggi privati di Facebook, il massimo dell’assurdo. Molte volte invece i cosiddetti ‘hater’ li ritrovi anche ai tuoi concerti”.
Andrea: “A volte invece si crea anche una reazione opposta, un meccanismo dove chi ci apprezza si sente di intervenire difendendo la band pubblicamente, ed è molto bello”.