LAST IN LINE – Alla rinconquista della corona

Pubblicato il 29/06/2016 da

Si è da poco concluso il memorabile concerto dei Last In Line al Frontiers Rock Festival, quando veniamo ufficialmente invitati ad accedere nel backstage, per scambiare due chiacchiere con il simpatico Vivian Campbell. Puntuale come un orologio svizzero all’appuntamento stabilito, il protagonista è apparso dinnanzi ai nostri occhi pimpante e fresco come una rosa, nonché estremamente affabile e gentile. Il carismatico musicista originario di Belfast ha risposto con sincero entusiasmo a tutte le nostre domande, sciorinando una sequenza impressionante di preziosi aneddoti ed impagabili curiosità, che hanno contribuito a delineare il suo brillante percorso artistico…

Last In Line - Band - 2015

QUALI SONO STATE LE RAGIONI PRINCIPALI CHE TI HANNO SPINTO A RIUNIRE LE FORZE CON VINNIE APPICE, CLAUDE SCHNELL E JIMMY BAIN NEL 2012?
“Le cause di questa scelta risalgono alla temporanea inattività dei Def Leppard tra il 2010 e il 2012. Ho incontrato per caso Scott Gorham dei Thin Lizzy e mi ha chiesto se volevo unirmi a loro per un breve tour. Per me è stato uno shock, perché quando avevo quindici erano la mia band preferita in assoluto! Ho sempre adorato il particolare stile di Scott e Brian Robertson, i quali mi hanno spinto a dedicarmi sul serio allo studio della chitarra. Quando suono con i Def Leppard non eseguo delle partiture molto impegnative alle sei corde, in quanto il grosso del lavoro è incentrato sulle parti vocali e sui cori. Reduce dall’esperienza con i Lizzy, avevo una gran voglia di tornare a suonare rock e per me è stato naturale contattare i ragazzi con i quali ho suonato nei Dio. Ci siamo ritrovati in sala prove dopo circa ventisette anni e sin dalle prime battute ho notato che la magia dei bei vecchi tempi era rimasta inalterata. Mi sembrava di essere ritornato nel 1983 (ride, ndR)! A questo punto, avevamo bisogno di un cantante per completare la formazione e Vinnie aveva già con sé l’asso nella manica, Andrew Freeman, un ragazzo dotato di una voce pazzesca e di uno stile ben definito che lo differenzia da Ronnie James Dio. La squadra era finalmente al completo e di conseguenza abbiamo iniziato a suonare dal vivo solo per puro divertimento, fino a quando un giorno il presidente della Frontiers, Serafino Perugino, ci ha contattato chiedendoci se volevamo incidere un disco. Ecco, quello è stato decisamente il punto di svolta della nostra carriera. E’ un piacere lavorare con Andrew, perché è un ragazzo molto semplice e alla mano, ma al tempo stesso è capace di tirare fuori velocemente un sacco di idee molto interessanti che sono poi confluite nel nostro album di debutto”.

QUALI SONO I TEMI PRINCIPALI CHE AVETE TRATTATO SU “HEAVY CROWN”?
“Dovresti porre questa domanda ad Andrew, in quanto lui si è principalmente occupato della stesura dei testi. Per quanto concerne la musica, ti garantisco che durante le fasi iniziali di composizione non avevamo un’idea precisa di come sviluppare il nostro sound. Dopo le prime jam, abbiamo poi capito che volevamo tornare alla spontanea aggressività di ‘Holy Diver’, un’opera fresca, varia ed incisiva. Gran parte delle tracce sono state registrate ‘live in the studio’, con pochissime sovraincisioni di chitarre. Ad esempio, “I Am Revolution” è un brano punk, veloce e senza troppi fronzoli ed in questo caso gran parte del merito va ad Andrew, il quale oltre ad avere un impressionante timbro vocale ha dei gusti musicali molto eclettici. Pensa che la coda ‘lenta’ del brano rappresentava inizialmente il riff portante del brano, ma a quel punto eravamo consapevoli che avevamo già parecchi midtempo in cantiere. Pertanto, abbiamo deciso di accelerare il ritmo fino a quando ci siamo resi conto di avere tra le mani un brano punk. Non avevo mai fatto nulla del genere fino ad allora (risate, ndR)”.

QUALI ELEMENTI HANNO ISPIRATO LA COPERTINA DEL VOSTRO DISCO?
“Il bambino ritratto di spalle è il figlio di Andrew. Una mattina sono andati insieme in una vallata deserta di Las Vegas quando, ad un tratto, Andrew ha iniziato a scattargli parecchie foto. Abbiamo accettato con entusiasmo la sua idea, in quanto il ragazzo giovane rappresenta simbolicamente una nuova vita per dei dinosauri del rock (ride, ndR)”.

TI VA DI SPENDERE DUE PAROLE SULLA TUA ESPERIENZA CON GLI SWEET SAVAGE?
“Oh cazzo, sul serio? (ride, ndR). Ok Gennaro, gli Sweet Savage sono stati la prima band in cui abbia suonato a livello professionale. Abbiamo composto rapidamente un sacco di materiale inedito ed al tempo stesso ci siamo dilettati in qualche oscura cover come ‘Breadfan’ dei Budgie. In seguito ho avuto poi l’occasione di ascoltarla nel ‘Garage Days’ dei Metallica e in quell’istante ho pensato: “ehi, ci eravamo arrivati prima noi di loro” (ride, ndR). Seriamente, penso che James Hetfield abbia svolto un grandissimo lavoro e sono convinto che, se abbiamo contribuito in minima parte ad ispirare il suo stile, ne sono davvero orgoglioso. Di sicuro è uno dei migliori frontman sul nostro pianeta. Tornando ai ‘Sav’, ti posso dire che ci siamo ispirati in egual misura ai Thin Lizzy e ai Motörhead, ma il problema principale riguardava l’assoluta imprevedibilità del nostro batterista. Un giorno suonava a settantacinque battiti al minuto, quello successivo a centoquaranta, così nemmeno noi eravamo in grado di assumere un’identità sonora ben precisa. Abbiamo fatto di tutto per cercare di ottenere un contratto discografico, ma quando bussavamo alle porte delle etichette nessuno ci ha mai aperto. Evidentemente le cose per noi dovevano andare in questo modo”.

COME SEI ENTRATO IN CONTATTO CON RONNIE JAMES DIO?
“Per puro caso. In quel periodo ero disoccupato dopo il fallimento dell’avventura con i ‘Sav’ e, quando lui mi ha proposto di entrare a far parte del suo nuovo progetto, non ho potuto dire di no. Un’occasione del genere ti capita una volta nella vita, sarei stato davvero stupido a rifiutare un invito del genere”.

HAI INCISO BEN TRE DISCHI CON I DIO. SEI ANCORA SODDISFATTO DEL MATERIALE CONTENUTO IN ESSI?
“Vuoi che ti dica la verità? No, perché non sono mai completamente soddisfatto di ciò che faccio nella mia vita. Penso sia riconducibile al fatto che sono del segno della Vergine e di conseguenza sono un perfezionista nato (ride, ndR). Mi sento molto più agio adesso di quando avevo vent’anni, perché all’epoca era nato un nuovo modo di suonare la chitarra grazie a Eddie Van Halen. Le partiture erano diventate più articolate e più veloci da eseguire ed al tempo stesso stavano esordendo degli autentici fenomeni come Vinnie Moore, Steve Vai e Paul Gilbert. Mi sentivo molto frustrato, perché ero incapace di suonare in quella maniera. Successivamente, nel corso del tempo, ho imparato ad accettare i miei limiti e li ho trasformati nel mio punto di forza, perché penso sia importante possedere uno stile unico ed una personalità inconfondibile. Quando ascolti un assolo di Rory Gallagher capisci subito che è lui, perché nessun altro suona in quel modo, mi spiego? Negli anni Ottanta ho vissuto per parecchio tempo a Los Angeles ed ho conosciuto tantissimi chitarristi tecnicamente ineccepibili, ma molti di essi si limitavano semplicemente ad imitare Eddie Van Halen e di certo questo fattore non li ha aiutati ad emergere”.

QUALI SONO I TUOI RICORDI MIGLIORI CHE CONSERVI IN MERITO ALL’ESPERIENZA VISSUTA NEL MEGA PROGETTO HEAR’N’AID?
“In quel periodo il brano “We Are The World” stava riscuotendo un successo enorme in tutto il mondo ed era diventato il manifesto del progetto benefico ‘USA For Africa’. Un giorno, all’improvviso, Jimmy Bain mi disse: ‘Perché non organizziamo anche noi un qualcosa di simile in chiave rock? Potremmo denominarlo Hear’n’Aid’! E così fu. Nel giro di poco tempo, mi ritrovai a trascorrere tantissimo tempo al telefono, per cercare di far combaciare tutti gli impegni di alcune tra le personalità più in voga del rock. La tecnologia non era così sviluppata come ai giorni nostri, quindi immagina quanto possa essere stato frustrante passare ore e ore attaccato alla cornetta del telefono, per cercare di attirare l’attenzione di alcune superstar del calibro di Blackie Lawless e Rob Halford (ride, ndR). Una volta assolte tutte le formalità, io e Jimmy ci recammo in studio, per concretizzare le idee poi confluite sul brano ‘Stars’. Nel frattempo, Ronnie James Dio si stava dedicando alle fasi finali dell’album ‘Sacred Heart’, ma inizialmente non era per nulla entusiasta di questa idea, perché stava passando uno dei periodi più infelici della sua vita, a causa di un divorzio turbolento. Ritornò a trovarci dopo un paio di settimane per capire a che punto eravamo e quando si ritrovò ad ascoltare la parte strumentale del brano ne fu immediatamente rapito”.

DOPO LA TUA ESPERIENZA NEI DIO, SEI ENTRATO A FAR PARTE PER UN BREVE PERIODO WHITESNAKE AL LORO APICE COMMERCIALE.
“Mi sono sicuramente divertito tantissimo, ma al tempo stesso non posso dirti di essermi sentito completamente a mio agio nella band. Con questa dichiarazione non voglio assolutamente mancare di rispetto ai ragazzi: per me è stato un onore suonare insieme a David Coverdale, Tommy Aldridge, Rudy Sarzo e Adrian Vandenberg ma, dal punto squisitamente musicale, non è mai scoccata la fatidica scintilla con loro. Ci siamo incontrati per la prima volta in studio per registrare un video promozionale, perché all’epoca ‘1987’ stava riscuotendo un enorme successo, anche grazie al supporto di MTV. All’epoca era fondamentale apparire in TV e nelle riviste specializzate con i capelli cotonati, agghindati di tutto punto con dei vestiti a dir poco stravaganti, se non ridicoli. Mio malgrado, mi sono ritrovato a far parte di una ‘visual band’, non militavo più in un gruppo rock! Al posto di concentrare i nostri sforzi in sala prove per prepararci ad affrontare il gigantesco tour di supporto all’album insieme ai Mötley Crüe, abbiamo trascorso gran parte del nostro tempo davanti alle telecamere, dall’estetista e dal parrucchiere (ride, ndR). Per questo non sono stupito che musicalmente non abbiamo mai legato, perché non abbiamo avuto il tempo necessario per cementare il nostro feeling. Se poi aggiungi lo scontro titanico tra due personalità forti come la mia e quella di Adrian Vandenberg, allora la frittata è fatta (ride, ndR). Onde evitare fraintendimenti, ti confermo che attualmente sono in ottimi rapporti umani con David. Lo scorso dicembre insieme ai Def Leppard ho condiviso il palco proprio con i Whitesnake e i Black Star Riders e prima dello show è venuto da me e mi ha chiesto: ‘ti va di suonare Still Of The Night insieme a noi’? Ho provato un’emozione indescrivibile, credimi”.

VORREI PARLARE BREVEMENTE CON TE DELLA TUA ESPERIENZA NEGLI SHADOW KING, PERCHE’ SONO CONVINTO CHE SIA STATA UNA GRANDISSIMA BAND CHE HA INCISO UN GRANDISSIMO DISCO. PERCHE’ SIETE IMPROVVISAMENTE NEL NULLA?
“Sei sicuro di quello che stai affermando? Non ne sono così convinto, credimi (il tono qui si fa improvvisamente serio, quasi infastidito, ndR). In quel periodo il cantante Lou Gramm stava attraversando un periodo estremamente turbolento della sua carriera. Aveva avviato da poco le cause del suo divorzio ed al tempo stesso abusava di sostanze stupefacenti, cocaina in primis. Quando abbiamo finito di registrare il disco, Lou non era praticamente più insieme a noi. Per conto nostro, abbiamo cercato di essere sempre puntuali agli appuntamenti promozionali in radio, ma non abbiamo mai potuto contare sulla presenza del nostro frontman, il quale avrebbe dovuto rappresentarci almeno a livello di immagine. Mentre noi ci alzavamo alle cinque di mattina e organizzavamo i nostri impegni, lui trascorreva gran parte del suo tempo in camera d’albergo a farsi di ogni cosa possibile. La situazione aveva preso una piega surreale e le cose non hanno semplicemente funzionato. Non ho mai avuto problemi con le droghe, mi piace bere parecchio vino rosso, ma se io mi alzo all’alba per fare il mio lavoro pretendo che i miei colleghi facciano lo stesso. Un atteggiamento come quello adottato da Lou non è stato affatto professionale ed ha contribuito a mandare a monte un progetto al quale credevo molto”.

COME SEI ENTRATO A FAR PARTE DEI DEF LEPPARD NEL 1992?
“Conoscevo già da parecchio tempo Joe Elliott, a causa delle nostre molteplici amicizie in comune, ma di fatto non avevamo mai suonato una nota insieme. Dopo la morte del chitarrista Steve Clark, i Def Leppard hanno deciso di andare avanti come quintetto ed avevano bisogno di un valido rimpiazzo. Perciò un giorno Joe venne da me e mi chiese se volevo provare ad entrare nella band, ma ad una sola condizione: avremmo dovuto legare innanzitutto dal punto di vista umano. Viste le mie precedenti esperienze, nelle quali fui licenziato mio malgrado o tutto andò a rotoli per svariati motivi, i ragazzi credevano che fossi posseduto da uno strano spirito malefico (ride, ndR). Abbiamo così iniziato ad uscire insieme soltanto come amici, andavamo al pub, giocavamo a biliardo o a calcio, passavamo del tempo al cinema e così via. Solo dopo un paio di settimane dall’inizio di questo ‘rapporto’, abbiamo iniziato a provare insieme in studio e devo ammettere che le cose sono andate alla grande. Collaboro con loro ormai da quasi venticinque anni ed ora posso dirti con certezza che la presunta maledizione mi ha finalmente abbandonato (ride, ndR)”.

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