LEPROUS – Dolore e speranza

Pubblicato il 08/11/2019 da

Dal progressive schizzato dei primi lavori, alla spettacolare malinconia pirotecnica di “Coal” e “The Congregation”, fino agli azzardi crepuscolari e le commistioni con la musica classica di “Malina”, i Leprous ci hanno abituato a stupire e reinventarsi. Pur con il curriculum di tutto rispetto che hanno alle spalle, non avremmo immaginato potessero spingersi fino a quanto contenuto in “Pitfalls”, album che nella sua fragile emotività, nelle tessiture pop e nei raffinati arrangiamenti di synth e archi si pone come uno dei lavori più densi e profondi espressi dal panorama metal tutto nel 2019. Einar Solberg, mastermind dei Leprous cui è deputata la parte preponderante del songwriting e dell’indirizzo stilistico, non si tira indietro nel dettagliarci il percorso compiuto dai Leprous con il nuovo disco, svelando quanta passione, studio e lavoro vi sia dietro un’opera così intensa.

AVEVATE APPORTATO GRANDI CAMBIAMENTI AL VOSTRO STILE CON “MALINA”, COSÌ IMPORTANTI CHE IN POCHI SI SAREBBERO ASPETTATI UN’ALTRA RIVOLUZIONE SONORA, QUELLA CHE IN EFFETTI È AVVENUTA, CON TONI ANCORA PIÙ MARCATI, CON “PITFALLS”. VOGLIAMO ALLORA CHIEDERTI COME SIETE PERVENUTI A QUESTI CAMBIAMENTI E SE ERAVATE GIÀ PARTITI A COMPORRE CON L’IDEA DI MODIFICARE COSÌ TANTE COSE RISPETTO A “MALINA”.
– Non siamo mai perfettamente consapevoli di dove andremo a parare quando iniziamo a comporre, ci facciamo trasportare da quello che scaturisce naturalmente da noi stessi e solo alla fine osserviamo cosa è venuto fuori. Mi sento di dire che “Pitfalls” sia una naturale evoluzione di quello che avevamo concepito in precedenza.

QUALI PENSI SIANO STATE LE ‘TRAPPOLE’ (PARAFRASANDO IL TITOLO, “PITFALLS”, NDR) CHE AVETE DOVUTO AFFRONTARE NELLA SCRITTURA DEL DISCO, E IN GENERALE DURANTE LA VOSTRA CARRIERA?
– Una delle situazioni più difficili da gestire, qualcosa con cui dobbiamo confrontarci tutt’ora, è la gestione del ‘successo’, il prendere coscienza che la band stava iniziando a diventare importante, che cominciava a piacere a tanti e stava prendendo uno status diverso. Quando il tuo pubblico cresce e come artista vieni percepito in un modo differente dagli inizi, devi stare attento a non farti trascinare nella spirale del cercare il successo a tutti i costi. Come artista, devi sempre restare focalizzato sulla musica, su quello che tu senti di voler suonare, altrimenti potresti snaturarti. Se inizi a misurare te stesso in base al successo – qualcosa che viene naturale pensare, sia chiaro, rimane comunque un obiettivo importante – puoi perdere di vista il vero significato di quello che stai facendo. Questa per me è una delle trappole insidiose in cui si può cadere. Ricordiamoci sempre che, per quanto tu possa avere un’audience ampia e affezionata, ci sarà sempre qualcuno più grande di te! Potresti quindi restare perennemente frustrato nel vedere che qualcuno ha un successo superiore al tuo. Collegato a quanto ti ho appena detto c’è la tentazione, quando componi nuova musica, di cercare di piacere a tutti i costi ai tuoi fan e alla stampa specializzata. È una tentazione che si può insinuare, ma devi cercare di tenere lontana, prima di tutto perché è un compito impossibile da assolvere: non potrai mai piacere a tutti. Se inizi a star dietro al caos di opinioni sul tuo operato, non combinerai nulla. Cerchiamo allora di disconnetterci dalle aspettative che le persone possono nutrire su di noi e andiamo avanti per la nostra strada.

A QUALE IDEA DI SUONO VOLEVATE ARRIVARE CON “PITFALLS”? MI PARE VI SIA UN FORTE CONTRIBUTO DELLA MUSICA CLASSICA CONTEMPORANEA, UN LAVORO RICCO E SFACCETTATO DEI SYNTH E UN BASSO MOLTO IN PRIMO PIANO. TUTTE CARATTERISTICHE NON COSÌ EVIDENTI IN PASSATO, MI PARE.
– Questo è stato il primo album in cui, già prima di iniziare a scrivere la musica, sapevo che avrebbe suonato con noi Raphael (Raphael Weinroth-Browne, violoncellista canadese che aveva già collaborato con il gruppo per “Malina”, ndR). Sapere che avrebbe suonato lui quelle parti di violoncello fin dall’inizio e che non mi sarei dovuto affidare a dei sample ha dato un forte impulso all’inserimento di parti per gli archi molto elaborate. Poi si è aggiunto anche Chris (Baum, violinista statunitense con un ampio curriculum di collaborazioni con artisti pop e rock, ndR), che ha espresso la volontà di suonare con noi sia sul disco che dal vivo; “bene” ho pensato, “avremmo avuto a disposizione sia violoncello che violino!”. Questo ha portato a lavorare intensamente su questo tipo di arrangiamenti, che abbiamo cercato di valorizzare attraverso un metodo compositivo e una produzione che li valorizzassero e non mettessero gli archi in secondo piano. Sai, spesso nelle produzioni metal contemporanee si tende ad avere questo muro di chitarre in primo piano che satura tutte le frequenze e lascia poco spazio al resto. Non volevamo assolutamente andare in quella direzione. Desideravamo che le chitarre dialogassero con gli strumenti e non li sovrastassero, volevamo ci fosse il giusto spazio per gli archi, i synth, il basso, le armonizzazioni vocali e penso che ciò si senta in “Pitfalls”.

RIGUARDO A QUESTO RUOLO SEMPRE PIÙ IMPORTANTE DI SINTETIZZATORI E ARCHI, VORREI SAPERE SE VI SONO DEGLI ARTISTI CHE VI HANNO GUIDATO IN QUESTA DIREZIONE, ASCOLTI CHE ABBIANO ORIENTATO IN MANIERA DECISIVA L’IMPRONTA STILISTICA DEGLI ULTIMI DUE ALBUM.
– Nulla in particolare, nel senso che ascolto tanta musica, mi piacciono molto le colonne sonore, ma non saprei indicarti un artista che più di altri mi abbia portato a dare una certa direzione ai Leprous. Aspetta, vediamo, c’è quel compositore che ha composto la colonna sonora de “Il Trono di Spade”, adesso mi sfugge il nome, è un po’ difficile da ricordare (si riferisce a Ramin Djawadi, il compositore iraniano-tedesco della celebre serie, ndR). In generale, sì, mi piacciono molto le soundtrack e la vecchia musica classica, il mio compositore preferito è Bach. Però non è il mio musicista di riferimento quando penso a certe sonorità della band, queste scaturiscono da una miriade di ascolti che attecchiscono nel mio subconscio e quindi si riflettono sulla musica che scrivo.

SUL PIANO TESTUALE, HO LETTO CHE LE LIRICHE RISENTONO DI STATI DI ANSIA E DEPRESSIONE CHE HAI VISSUTO DI RECENTE. QUANTO È STATO DIFFICILE TRASFORMARE QUESTE EMOZIONI NEI TESTI DELL’ALBUM E QUANTO QUESTO STATO EMOZIONALE HA INCISO SULL’ASPETTO SONORO DI “PITFALLS”?
– Da un certo punto di vista, è stato molto facile far emergere nei testi quello che stavo provando. Ho scritto cose vere, non mi sono nascosto, sono stato molto onesto con me stesso. Ci ho messo poco a scrivere i testi, non ho dovuto pensarci su tanto tempo. Sulla musica, posso dirti che sicuramente è molto emozionale, arriva direttamente dal cuore, quando ho iniziato a scriverla ero in un periodo dove l’energia e la motivazione erano basse, non avevo tutta questa forza addosso. Col tempo si sono visti degli spiragli di luce e a questi mi sono aggrappato. Scrivere nuova musica mi ha aiutato a risalire, ad avere nuovamente la sensazione che stessi facendo qualcosa di buono, di valore. Gli spiragli di luce cui t’accennavo si sono dilatati e sono divenuti più luminosi, la concentrazione sulla musica mi ha spinto a stare meglio. Il sound del disco, la sua atmosfera generale, probabilmente risentono del periodo vissuto: il mood malinconico è predominante, così come nel periodo in cui ho iniziato a comporre non ero di certo del mio umore migliore. Certamente, puoi percepire anche un feeling speranzoso, in canzoni come “Alleviate” e “Observe The Train”, che va di pari passo al miglioramento dei miei stati d’animo. Non senti solo dolore e miseria nel disco, la speranza si scorge qua e là ed è un altro aspetto fondamentale di “Pitfalls”.

ANCOR PIÙ CHE IN PASSATO, “PITFALLS” SEMBRA UN LAVORO MOLTO TUO, EINAR, CON LE IDEE DEGLI ALTRI MEMBRI DELLA BAND SULLO SFONDO. QUANTO CONTRIBUISCONO GLI ALTRI MUSICISTI ALLA SCRITTURA DELLE CANZONI E AGLI ARRANGIAMENTI, QUANTO MARGINE DECISIONALE HANNO NEL LORO OPERATO? POSSIAMO PENSARE A “PITFALLS” COME A UN DISCO COMPOSTO COLLETTIVAMENTE OPPURE QUASI ESCLUSIVAMENTE DA TE IN PRIMA PERSONA?
– Il processo di scrittura nei Leprous è molto aperto, chiunque può comporre e proporre quello che vuole. Detto questo, mi sono sempre trovato a scrivere il grosso del materiale, tendenza accentuatasi a partire da “The Congregation”. Per “Pitfalls”, il nostro bassista Simen Daniel Børven ha creato la struttura base di una delle mie canzoni preferite dell’album, “Distant Bells”. Io ho aggiunto successivamente le parti di mia competenza, le linee vocali, le melodie, le lyrics. Mi occupo della maggior parte del lavoro di composizione in effetti e credo anche che, per avere una prima linea guida di un pezzo, sia meglio che sia una sola persona a svolgere il lavoro, non importa che a farlo sia io o un altro. Questo perché l’idea di noi tutti che ci mettiamo attorno a un tavolo a costruire un brano per me, personalmente, non funziona: preferisco che sia uno solo a scrivere, una persona esterna non potrebbe capire perfettamente quello che vuoi esprimere e finirebbe solo per intralciare il lavoro. È un mio punto di vista, coi Leprous finora ha funzionato. Quindi è vero che i Leprous non sono un progetto solista, ma è altrettanto vero che la maggior parte del materiale è opera mia.

ANDANDO NELLO SPECIFICO DELLE SINGOLE TRACCE, UNA DELLE MIE PREFERITE È “OBSERVE THE TRAIN”, CON IL SUO ANDAMENTO COME DI NINNANANNA. COME NASCE QUESTO PEZZO E QUAL È IL SIGNIFICATO DI UN TITOLO SIMILE?
– Eravamo in tour, nel nostro tourbus, io e uno dei nostri due chitarristi dovevamo scrivere della musica – in realtà stavamo più che altro guardando una partita dei Mondiali di calcio – e stavamo lavorando separatamente sui nostri computer. Era un fine settimana se non sbaglio, nel quale abbiamo scritto anche “Alleviate” e “Foreigner”. In quel frangente sono riuscito a definire quasi completamente tutte le parti strumentali, mentre per le linee vocali ho fatto più fatica. Pensa che sono arrivato fino a questa primavera per terminare i testi e le parti vocali, mi sono finalmente sbloccato durante una passeggiata nei boschi, poco prima di entrare in studio. Diciamo che prima mi sono venute le idee per le linee vocali – saranno state una ventina, che poi ho cercato di rimettere in ordine – quindi ho cercato di modellare un testo che avesse un senso rispetto all’indirizzo preso dalla voce. A quel punto era naturale che “Observe The Train” fosse una canzone molto tranquilla, il testo parla del ‘treno di pensieri’ che puoi avere in testa; li osservi, vedi i pensieri che ci sono, ma non è detto che tu possa prendere piena coscienza di essi e capirli realmente. Rimani in un certo senso distaccato dai tuoi stessi pensieri. Il non rimuoverli, farli restare lì nonostante non si riesca pienamente ad afferrarli, è qualcosa che mi ha fatto bene per la composizione dell’album. Ero lì coi miei pensieri, senza riuscire a penetrarne realmente il significato.


ANCOR PIÙ DI “OBSERVE THE TRAIN”, LE DUE CANZONI MIGLIORI DI “PITFALLS” CREDO SIANO “AT THE BOTTOM” E “DISTANT BELLS”, CHE SONO MESSE TRA L’ALTRO UNA DI SEGUITO ALL’ALTRA. VOLEVO SAPERE QUALI SIGNIFICATI PORTINO ENTRAMBE CON SÉ E SE C’È QULCHE MOTIVAZIONE PARTICOLARE CHE VI HA PORTATO AD AVERLE VICINE NELLA TRACKLIST
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– Come ti accennavo poco sopra, “Distant Bells” è prevalentemente frutto di idee del nostro bassista Simen. Questo è il suo primo pezzo per il gruppo e deriva da musica su cui stava lavorando da molto tempo, ben prima che iniziassimo la stesura di “Pitfalls”. Quando me l’ha mandata per avere un parere, gli ho detto che mi piaceva molto e vi ho aggiunto le melodie principali, quindi gliel’ho rimandata. Lui vi ha aggiunto le lyrics, quando siamo entrati in studio nessuno di noi sapeva esattamente come suonarla e come avrebbe suonato. Siamo andati un po’ incontro all’ignoto da un certo punto di vista, abbiamo sperimentato direttamente in studio di registrazione. La canzone ha avuto il suo sviluppo definitivo solo a quel punto, io mi sono messo a suonare al grand piano, un’azione che mi crea sempre un po’ di apprensione, perché non sono più abituato a suonare spesso al pianoforte. Ho dovuto lavorare sodo per realizzare una buona performance, non è stato semplice! Per quanto riguarda l’argomento del testo: a un certo punto della tua vita, diventi consapevole di alcune cose a cui prima non avevi mai pensato, o l’avevi fatto superficialmente. Ti accorgi delle conseguenze che potrebbe avere un determinato accadimento, pensi alla morte, ti senti addosso preoccupazioni mai provate prima. Allo stesso tempo, non è che la realtà che ti circonda ad essere cambiata, si sono piuttosto modificati i tuoi pensieri a riguardo. La probabilità che qualcosa accada non muta perché tu hai iniziato a pensarci. È su questa specie di riflessione che si basano le lyrics di “Distant Bells”. “At The Bottom”, invece, è un tipo di canzone diversa. Ha avuto la genesi più travagliata di tutte le altre, lo scheletro del pezzo è stato l’ultimo ad essere messo assieme, ho lottato molto per arrivare al risultato finale. “At The Bottom” ha una forma distante da quella tipica di una traccia dei Leprous, ero molto felice della parte strumentale, purtroppo non ero in grado di trovare linee vocali che mi convincessero. Anzi, mi sembrava proprio impossibile definirle! Ho compiuto una quantità infinita di tentativi per avere delle vocals che mi convincessero e all’inizio non andavo da nessuna parte. Solo pochi giorni prima di registrare le voci ce l’ho fatta ad avere parti vocali che mi andassero bene, ero già arrivato al punto di scartare la canzone e tenerla fuori dalla tracklist definitiva, tanto ero in alto mare. Un giorno sono uscito a correre, quando all’improvviso la voce giusta mi è entrata nella testa: mi sono fermato e ho registrato sul telefono l’idea che mi era venuta, per non lasciarla scappare. Così, dopo aver penato tanto in cerca di un’idea, in un attimo avevamo risolto il problema delle vocals di “At The Bottom”.

PROPRIO RIGUARDO ALLA TUA PROVA VOCALE, POSSIAMO SENTIRE ALCUNE SOLUZIONI MAI PROVATE IN PASSATO. MI RIFERISCO IN PARTICOLARE AD ALCUNE LINEE MOLTO BASSE E MORMORANTI, COME DURANTE “DISTANT BELLS”, DOVE POTRESTI SEMBRARE UN EMULO DI NICK CAVE, SOLO A TONALITÀ LIEVEMENTE PIÙ ALTE. CHE COSA VOLEVI PROVARE E DIMOSTRARE DI SAPER FARE CON LA TUA VOCE?
– Non volevo dimostrare nulla, quello no. Mi sono però preso il gusto di improvvisare molto e di sperimentare in studio di registrazione a ogni sessione che facevamo. Se è vero che le linee guida generali sono state tracciate prima delle registrazioni e per i chorus non mi sono discostato molto da quello che avevamo previsto, per le strofe ho improvvisato spesso sul momento. Posso dire di essere stato abbastanza impulsivo da questo punto di vista, tante cose che senti non era stato calcolato che dovessero suonare in quella maniera.

UN’ALTRA CANZONE CHE NON PASSA INOSSERVATA È “THE SKY IS RED”, DOVE POSSIAMO ASCOLTARE UNA CORALE DI BELGRADO NELLA SECONDA PARTE. VOLEVO SAPERE COME SIETE ARRIVATI A COLLABORARE CON QUESTO CORO E SE AVEVATE PENSATO IL BRANO COME A UNA SINFONIA, CON UNO SCHEMA COMPOSITIVO DERIVATO DALLA MUSICA CLASSICA E L’ATMOSFERA GLORIOSA E SACRALE CHE SVETTA NEL FINALE.
– Nonostante sia la canzone più lunga del disco, “The Sky Is Red” è quella che ha avuto la genesi più breve. L’ho scritta al computer, a casa, seduto comodamente su una sedia accanto al fuoco, con le cuffie alle orecchie: mi sono semplicemente fatto trasportare dal flusso della musica e sono andato avanti finchè non ho finito. In tutto ci avrò messo circa un’ora e mezza. Confesso che all’inizio non mi convinceva completamente, era troppo strana e pazza anche per i nostri standard, non ero sicuro stesse bene su un nostro album. Casualmente era lì vicino mia madre, gliel’ho fatta sentire e secondo lei era ottima, ne era entusiasta. L’ho fatta sentire agli altri ragazzi del gruppo e pure loro si sono mostrati subito convinti da “The Sky Is Red”. Ultimata la prima stesura, vista la complessità degli arrangiamenti, ho deciso che usare solo dei sample di quello che avevo in mente l’avrebbe svilita. E allora abbiamo cercato una soluzione alternativa, arrivando infine a questo coro di Belgrado. È stato uno di quei casi dove tutto si è svolto velocemente: se ho una specie di rivelazione in testa allora inizio a scrivere sempre più veloce finché non ho terminato ogni aspetto del brano.

QUANTO È STATO IMPORTANTE IL CONTRIBUTO DEL PRODUTTORE ADAM NOBLE, CHE NEL SUO CURRICULUM HA COLLABORAZIONI CON ARTISTI SOLITAMENTE MOLTO DISTANTI DALL’UNIVERSO METAL, PENSIAMO AD ESEMPIO AI PLACEBO?
– È stato fondamentale, la sua presenza è stata determinante nel darci il sound che senti. Ci siamo guardati attorno per uscire dall’ambito rock/metal, per avere vicino qualcuno che guardasse a noi da una prospettiva differente da quella che avrebbe un produttore metal. Il risultato è che abbiamo ottenuto un suono massiccio e sempre potente senza ricorrere a un costante muro di chitarre. Se lo paragoni a “Malina”, “Pitfalls” ha un suono più roboante anche se le chitarre non si presentano così grosse e pesanti come in un tipico metal album. Già il primo mix del disco ci ha spazzato via, non gli avevamo dato alcun tipo di istruzione eppure aveva capito esattamente quello che c’era bisogno e l’ha ottenuto.

NELL’EDIZIONE LIMITATA DI “PITFALLS” COMPAIONO DUE BONUS TRACK, “GOLDEN PRAYERS”, USCITA COME SINGOLO CIRCA UN ANNO FA, E UNA COVER DEI MASSIVE ATTACK, “ANGEL”. COME GIUDICHI QUESTI DUE PEZZI, CHE NON HANNO GODUTO DI GRANDI ATTENZIONI DAL PUBBLICO?
– Sono soddisfatto di entrambe e mi piacciono, ma se devo essere sincero le abbiamo utilizzate nell’edizione limitata perché servivano delle bonus track, non ci abbiamo prestato poi tutta questa attenzione. Sono canzoni che ormai appartengono al passato, arrivano dalle registrazioni di “Malina”, ci piacciono, le abbiamo suonate alcune volte dal vivo, però non hanno punti in comune con “Pitfalls”. Serviva del materiale extra, alcuni fan vogliono possedere qualcosa di esclusivo, così abbiamo accontentato questa richiesta della casa discografica. Se avessimo potuto scegliere, non avremmo incluso materiale extra.

UN ALTRO ELEMENTO CHE SEGNA UN FORTE DISTACCO COL PASSATO È L’ARTWORK. IN COPERTINA C’È UNA FIGURA NON COMUNE PER UN ALBUM METAL, DIPINTA DA UN’ARTISTA INDONESIANA. QUALI SONO LE RAGIONI DI QUESTA COVER? CHI È E COME AVETE RINTRACCIATO L’AUTRICE DELL’ARTWORK?
– L’autrice dell’artwork si chiama Elicia Edijanto, il primo che è entrato in contatto coi suoi dipinti è stato il nostro bassista. Ce li ha fatti vedere, ci sono piaciuti ma onestamente in quel momento non abbiamo pensato di contattarla per fare qualcosa assieme. Il tempo è passato, cominciavamo ad essere stretti per l’artwork, non ci avevamo ancora pensato seriamente, così abbiamo iniziato a visionare tante immagini diverse, fino a quando ci siamo imbattuti in quello che vedi in copertina. Sintetizza i contenuti del disco: puoi vedere un bambino seduto sulle spalle di Buddha, mentre suona il flauto. Secondo la mia interpretazione, il bimbo suona il flauto le cui note riecheggiano nella mente di Buddha. E la mente di Buddha, a sua volta, è l’immagine della consapevolezza dei nostri pensieri e del modo in cui noi ci relazioniamo ad essi. Tu non puoi scegliere i tuoi pensieri, ma puoi scegliere che rapporto avere con loro.

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