Nel corso della loro lunga carriera, i Marillion sono riusciti ad ottenere una credibilità ed un rispetto enormi, merito di una carriera eccellente e di un’integrità che ha permesso loro di continuare ad evolversi e cambiare, pur rimanendo fedeli alla propria storia. Il nuovo album della band, “An Hour Before It’s Dark”, è un perfetto esempio di come si possa portare avanti un percorso artistico riconoscibile, personale, sempre al di fuori delle logiche mainstream, eppure perfettamente incastonato in una discografia che ha tantissime gemme luminose e poche ombre. Ne abbiamo parlato con Steve Hogarth, interlocutore acuto e stimolante, che rappresenta uno di quei rari casi di artista subentrato ad un frontman carismatico, capace di raccoglierne l’eredità portando la sua visione e la sua personalità al servizio della band.
STEVE, INIZIAMO L’INTERVISTA PARTENDO PROPRIO DAL TITOLO SCELTO. QUAL E’ IL SIGNIFICATO DIETRO A “AN HOUR BEFORE IT’S DARK”?
– Quando ero piccolo e uscivo fuori a giocare, mia mamma mi diceva: “torna a casa un’ora prima che faccia buio”, perché voleva che fossi al sicuro. Ho lavorato su questo concetto e canto un verso alla fine della prima canzone dell’album, “Be Hard On Yourself”, che dice: “dipingi un quadro, canta una canzone, pianta dei fiori nel parco, esci e fa che sia un posto migliore, hai un’ora di tempo prima che faccia buio”. Si tratta di un invito affinché tutti spendano una parte del loro tempo, di quello che rimane dopo una giornata lavorativa, per cercare di rendere il mondo un posto migliore, invece di stare lì a guardare la TV. Abbiamo mandato questo testo a Simon Ward, l’artista che si è occupato della copertina ed è stato lui a suggerirci di usarlo come titolo per l’album, perché racchiudeva molte delle questioni trattate nelle canzoni. C’è il tema del cambiamento climatico e di quanto poco tempo ci rimanga per cambiare le cose, ma ci sono tanti altri livelli di interpretazione e queste sono le cose che funzionano meglio e che mi piacciono di più. In generale è una metafora del tempo a nostra disposizione che si sta esaurendo.
COME PRIMO SINGOLO AVETE SCELTO UN BRANO, “MURDER MACHINES”, CHE HA DEI RICHIAMI MOLTO ESPLICITI AL COVID, MA NON SOLO…
– Ci siamo appena lasciati alle spalle un periodo – gli ultimi due anni – in cui ogni volta che abbracciavamo una persona amata, c’era una piccola possibilità che noi la uccidessimo. E’ una consapevolezza difficile da concepire, per me ma penso per chiunque: il gesto più naturale del mondo, un abbraccio, è diventato improvvisamente un problema. Abbiamo vissuto come prigionieri nell’ora delle visite, obbligati a vedere gli altri attraverso dei pannelli trasparenti, senza poterli toccare. Questa è una delle chiavi di lettura della canzone, ma non è l’unica. Ad esempio parla di come, in tempo diversi, le persone siano in grado di uccidersi a vicenda, attraverso le emozioni: l’amore è uno dei più potenti impulsi primordiali, ma se ci innamoriamo della persona sbagliata, di qualcuno che non ci ricambia o che non possiamo amare per qualche motivo, si trasforma in un inferno. La canzone quindi lavora su entrambi questi aspetti, le ‘macchine assassine’ possono essere i virus, ma possiamo essere anche noi e Dio solo sa quanto sia ancora più vera questa frase oggi (l’intervista si è tenuta il 24 febbraio, il giorno stesso dell’inizio del conflitto in Ucraina, ndR).
UNO DEI BRANI CHE ABBIAMO APPREZZATO DI PIU’ E’ “SIERRA LEONE”, TI VA DI RACCONTARCI LA STORIA DI QUESTA CANZONE?
– Un paio d’anni fa, io e la mia famiglia andammo a vedere i gioielli della Corona, nella Torre di Londra. Non ci ero mai stato, nonostante tutti gli anni vissuti in Inghilterra, è uno di quei posti dove vanno più spesso i turisti e magari tu non ci sei mai entrato. Credo che l’ispirazione per la canzone sia partita da lì, perché nei gioielli della Corona ci sono alcuni dei più grandi diamanti del mondo. Leggevo la storia di questi diamanti, dove erano stati scoperti, come vennero tagliati… Dopo qualche tempo mi è venuta in mente questa immagine, di un pover’uomo che scava in una pila di rifiuti in Sierra Leone, trovando per caso un diamante grande quanto la sua mano. E nonostante questo lui decide di non venderlo, perché questo diamante gli ha restituito qualcosa che aveva perduto, ovvero una dignità, la volontà di imporsi e di poter dire di no. La gemma avrebbe avuto un valore inestimabile, l’avrebbe reso ricco, ma quello che rappresentava per lui era qualcosa di ancora più prezioso. Questa immagina che mi ha dato l’ispirazione, così come anche il paesaggio della Sierra Leone, che è famosa per le sue spiagge bianche, fuori dalla capitale, Freetown: ho immaginato quest’uomo, sdraiato sulla sabbia a guardare il cielo attraverso le sfaccettature di questo enorme diamante che nessuno sa essere in suo possesso, e ad ascoltare le voci dei bambini che giocano, sentendosi finalmente libero.
UNA DELLE CANZONI, INVECE, E’ DEDICATA A LEONARD COHEN, GIUSTO?
– Sì,“The Crow And The Nightingale” è stata ispirata da un piccolo libro di Leonard Cohen che si intitola “Il libro del desiderio”. Lo comprai anni fa e contiene una raccolta di poesie scritte mentre si trovava in un monastero. Cohen ad un certo punto passò del tempo in un monastero zen sul Monte Baldy in California: sì isolò dal mondo e per un certo periodo provò a vivere come una monaco buddista, penso che l’abbia fatto per liberarsi da un dolore, chissà, forse una donna (ridacchia, ndR). Ho voluto scrivere qualche parola su di lui per ringraziarlo e per dirgli che aveva scritto delle bellissime parole, anche se alcune magari non sono riuscito a comprenderle davvero. Ma questo non è importante, perché comunque mi hanno portato in un luogo. Quindi quello che volevo dirgli è che non sono degno, sono come un corvo mentre lui era un usignolo, lui con la sua voce bellissima, e io da qualche parte a gracchiare.
NELL’ALBUM PER LA PRIMA VOLTA C’E’ LA PRESENZA DI UN CORO, IL CHOIR NOIR. COME E’ NATA QUESTA COLLABORAZIONE?
– Si è trattato di una coincidenza fortunata: stavamo lavorando all’album da una settimana circa e il nostro regista, Tim Sidwell, che ha curato la regia di molti nostri concerti, così come del video di “Murder Machines, venne a trovarci ai Real Studios. Lui stava lavorando alla regia di un concerto dal vivo dei Bring Me The Horizon che si era tenuto alla Royal Albert Hall. Sul palco avevano proprio questo coro e Tim ci consigliò di ascoltarli, perché erano incredibili. Mi disse che facevano degli arrangiamenti corali di brani rock e metal, così li ho ascoltati e li ho trovati molto interessanti. In passato avevo già lavorato con Trevor Horn, il famoso produttore, sia in studio che dal vivo, e avevo avuto modo di conoscere dei coristi di supporto che avevano lavorato con lui. Già da un po’, quindi, stavo pensando che sarebbe stato interessante utilizzare per la prima volta un coro femminile anche nella nostra musica, visto che di solito faccio tutto da solo, con l’aiuto di Pete (Trevawas, il bassista della band, ndR), ma poi ho ascoltato il Choir Noir e ho pensato che sarebbe stata un’ottima alternativa. Anche al nostro produttore, Michael Hunter, piaceva di più questa soluzione, rispetto ad una più classica sezione di coriste, non so, forse pensava che non sarebbe stata abbastanza particolare. Così abbiamo contattato Kat Marsh, che è la direttrice, la mente dietro a questo progetto e colei che si occupa anche degli arrangiamenti per il coro: hanno collaborato con noi su “The Crow And The Nightingale” e poi anche sul brano finale, “Care”. Credo davvero che abbiano aggiunto qualcosa alla nostra musica. Quello che abbiamo fatto è stato dare loro delle indicazioni, perché volevamo un approccio molto diretto, non tradizionale, senza vibrato o cose del genere e credo che abbiano fatto un ottimo lavoro.
LA TUA STORIA CON I MARILLION E’ INIZIATA PIU’ DI TRENT’ANNI FA…
– Cosi mi dicono (risate, ndR)!
…E DA ALLORA LA BAND NON HA MAI CAMBIATO FORMAZIONE. QUAL E’ IL SEGRETO DI QUESTA LONGEVITA’? NON SONO POI MOLTI I GRUPPI RIMASTI COSI’ STABILI TANTO A LUNGO.
– Dipende da tante cose e puoi vedere la faccenda sotto diversi aspetti. Ogni tanto mi piace scherzare dicendo che il motivo per il quale stiamo ancora assieme è che non abbiamo mai raggiunto un successo tale da poterci permettere di separarci. Però abbiamo avuto abbastanza successo da non doverci sciogliere (ride, ndR)! Scherzi a parte, penso che il motivo principale sia che siamo stati sempre molto liberi da un punto di vista creativo. Non abbiamo gente che ci sta col fiato sul collo a dirci come dovremmo fare le cose, nessuno di ci dice “abbiamo bisogno di una hit”, “ora ci serve un singolo”, “ora vanno di moda questi suoni”, eccetera. Questo genere di pressioni, che siano dirette o implicite, finiscono per logorarti e a noi questo non è mai successo. Tante band vengono consumate da queste pressioni, dai compromessi che devono accettare, per la fatica di essere stati spremuti da una major, oppure semplicemente dall’ambizione. I cinque ragazzi dei Marillion, anzi no, i quattro, escludendo me, sono tutte brave persone: non c’è niente come il processo creativo per arrivare ad uno scontro e basta poco perché i litigi passino sul personale, superando quel punto per cui diventa difficile perdonare. Inoltre possiamo contare su uno splendido mediatore che è il nostro batterista Ian Mosley, che è molto bravo a rimetterci in riga quando stiamo deviando troppo. E’ importante avere una persona così, che fa un po’ da ‘madre’ all’intera band.
D’ALTRA PARTE IL BATTERISTA DEVE SEMPRE DETTARE IL TEMPO AGLI ALTRI!
– Sì, alla fine è così, i batteristi sono una razza diversa! Prendi Charlie Watts nei Rolling Stones, ad esempio. La maggior parte di loro (anche se non tutti, ovviamente) non ha l’ego da primadonna che può avere un cantante o un chitarrista.
TORNIAMO PER UN ATTIMO ALL’INIZIO DELLA TUA CARRIERA CON I MARILLION. TI SENTIVI SOTTO PRESSIONE PER IL FATTO DI DOVER SOSTITUIRE UN FRONTMAN AMATO E CARISMATICO COME FISH?
– No, all’inizio no, perché quando sono entrato nella band tutti sembravano contenti ed eccitati all’idea della musica che avremmo potuto fare assieme. Ricordo che ci siamo chiusi una piccola sala prove dalle parti di Brighton per provare e passare del tempo assieme e sono state delle settimane molto produttive. Poi un giorno il nostro tastierista, Mark Kelly, andò nel pub della zona e disse che avremmo fatto un concerto lì. A me era sembrata un’idea folle, ma ormai l’aveva promesso e quando arrivò la data non si poteva camminare per strada da quanta gente si era messa in coda per entrare. Immagina un pub dove normalmente possono entrare settanta persone, con una coda di mille persone per entrare! E’ stato in quel momento che mi sono sentito un po’ soffocare perché mi ero reso conto di essere entrato in qualcosa di importante. Poi la serata andò bene e ovviamente con la pubblicazione di “Season’s End” iniziammo un tour vero e proprio e tutto filò liscio. Non mi sono mai sentito a disagio, nemmeno una sera, perché tutti erano molto accoglienti. In fondo penso che tutti coloro che non erano interessati a me, come cantante e artista, semplicemente non venissero ai nostri concerti. Se ci pensi, che senso ha andare al concerto di qualcuno che non ti piace? Quindi semplicemente non ho mai incontrato queste persone. Mi è capitato invece l’opposto, ovvero di ricevere email o messaggi di persone che dicevano di aver smesso di ascoltarci dopo il mio ingresso e di aver cambiato idea dopo aver ascoltato un nostro album recente, rimanendone rapiti. Mi scrivono quasi per scusarsi di avere avuto dei pregiudizi nei miei confronti. E’ una bella cosa.
A PROPOSITO DI ALBUM DA RISCOPRIRE: C’E’ QUALCHE LAVORO DEI MARILLION CHE SECONDO TE E’ STATO SOTTOSTIMATO E CHE INVECE IL PUBBLICO DOVREBBE PROVARE A RIASCOLTARE CON MAGGIORE ATTENZIONE?
– Penso che “Somewhere Else” sia stato sottostimato e anche “Radiation”. Mi piacerebbe che venissero rivalutati, perché ci sono ottime cose in entrambi. A volte serve un po’ di tempo: ad esempio mi ricordo che quando uscì “Brave” perdemmo un sacco di fan, un vero e proprio crollo verticale. Se, però, parli con i nostri fan oggi, “Brave” è considerato un capolavoro! Allo stesso modo gli album che magari ti colpiscono fin da subito non è detto che siano poi necessariamente anche i migliori.
VOI SIETE STATI TRA I PRECURSORI DEL CROWDFUNDING IN AMBITO MUSICALE (PENSIAMO AD ESEMPIO A “MARBLES” CHE ERA USCITO IN VERSIONE DOPPIA PER CHI L’AVESSE PREORDINATO DURANTE LA CAMPAGNA E IN EDIZIONE SINGOLA PER TUTTI GLI ALTRI). TI VA DI RACCONTARCI QUALCOSA SU QUESTO ASPETTO DEL MUSIC BUSINESS?
– In realtà avevamo iniziato già prima con “Anoraknophobia”. La prima volta è stato dopo aver lasciato la EMI: non potevamo permetterci di fare un tour in America e alcuni ragazzi si organizzarono autonomamente. Aprirono un conto corrente e misero un annuncio su Internet chiedendo a tutti coloro che avrebbero voluto vederci dal vivo di versare dei soldi. Quando mi arrivò la notizia, questi ragazzi avevano già raccolto ventimila dollari ed entro la fine della campagna arrivarono a sessantamila. Grazie a questa iniziativa riuscimmo a finanziare un tour in America e ci rendemmo conto che questa cosa di Internet era il futuro e che avremmo dovuto approfondirla. Ci ha fatto anche capire quanto i nostri fan si fidassero di noi e che sarebbero stati disposti a comprare il nostro nuovo album ancora prima che venisse registrato. Noi non avremmo tradito la loro fiducia, non avremmo usato quei soldi per fare delle feste, ma per realizzare il miglior album possibile: siamo partiti da questo salto di fede dei nostri fan e praticamente abbiamo inventato il crowdfunding!
NEI PRIMI ANNI DUEMILA AVEVI DATO VITA AD UN SIDE PROJECT, LA H BAND, CON CUI AVEVI FATTO DEI CONCERTI ECCEZIONALI. HAI IN PROGRAMMA DI FARE DI NUOVO QUALCOSA DEL GENERE?
– No, al momento no, anche se mi piacerebbe fare qualcosa, sperimentare altre cose. Mi piace molto l’idea di lavorare con persone che considero artisti molto creativi e che magari non ti aspetti che possano fare musica assieme. Nella H Band c’era Dave Gregory degli XTC, Richard Barbieri dei Japan, assieme a Iziz Ibrahim, che aveva lavorato con Ian Brown. Nell’album avevamo un suonatore di tabla, ma anche un violoncello, elementi culturali che normalmente non ti viene spontaneo associare tra loro. Il risultato era stato qualcosa di speciale e di interessante. Ero molto orgoglioso di questa band, e ti dico di più: quando sono tornato nei Marillion, dopo questa esperienza, li ho visti con occhi diversi. Mi sono reso conto della bella chimica che c’era tra di noi, perché a volte è anche utile fare un passo indietro per poter dare il giusto valore alle cose. E’ stata un’esperienza che mi ha insegnato molto, così come anche lavorare con Trevor Horn, un vero genio degli anni Ottanta e Novanta, che ha portato al successo Frankie Goes To Hollywood, Buggles, Yes… la lista è infinita. E ad un certo punto mi sono trovato a cantare per lui. Mi ha aperto nuove finestre sulla musica, mi ha dato sicurezza, mi ha dato un riconoscimento, perché ti senti invitato al tavolo dei grandi. Magari non per rimanerci, ma è bello essere invitati. Sarà paradossale, ma è una cosa che poi ti aiuta a rimanere con i piedi per terra.
UN’ULTIMA DOMANDA, PRIMA DI SALUTARTI. IL NOSTRO PORTALE E’ DEDICATO ALL’UNIVERSO METAL IN TUTTE LE SUE SFUMATURE, I MARILLION OVVIAMENTE NON SONO UNA BAND METAL, MA SIETE UNA DI QUELLE REALTA’ CHE HANNO UN GROSSO SEGUITO NELLA COMUNITA’ METAL. COME MAI SECONDO TE?
– E’ davvero un mistero! I Marillion sono sicuramente una band rock, il nostro batterista Ian Mosley non è uno che si perde in giochini, ma ama picchiare e anche il nostro chitarrista, Steve Rothery, ha una formazione rock (non solo, ma per grossa parte sì). Io non me la cavo male come cantante rock, anche se credo di avere altri punti di forza. E’ solo uno degli aspetti del mio modo di cantare: sono fiero di averlo, ma sono anche contento che non sia l’unico. A me piace la comunità metal perché sta in disparte rispetto al mainstream e questa è sempre una cosa buona, è formata da brave persone, e sarebbe un vero insulto pensare che solo perché ti piace una determinata cosa allora non sei in grado di comprenderne un’altra. Magari ti piace il pesce – intendo il cibo, non il cantante! (Hogarh utilizza la parola ‘fish’ che è lo pseudonimo dello storico cantante dei Marillion, ndR) – ma questo non significa che vuoi mangiare solo quello per tutta la vita. Capisco questa cosa che la musica debba essere divisa in generi e sottogeneri, ma pensare che le persone non siano in grado di apprezzarne di molto diversi sarebbe irrispettoso nei loro confronti.