MICHAEL SCHENKER – Armed and ready

Pubblicato il 05/03/2018 da

Michael Schenker è uno dei chitarristi più influenti e apprezzati nella storia del rock: ha scritto brani immortali, raggiunto il successo quando era poco più di un ragazzo, ricevuto offerte da alcune delle più grandi band al mondo ma, allo stesso tempo, ha avuto momenti bui che l’hanno portato a rimanere sempre un po’ ai margini della scena. Oggi, però, grazie ad un contratto con la Nuclear Blast, Michael è pronto a celebrare la sua lunga carriera con i vecchi sodali che l’hanno accompagnato nel corso degli anni. Mentre attendiamo l’arrivo di Michael per una chiacchierata, ci chiediamo se ci saremmo trovati di fronte ad un rocker irascibile e scontroso, invece fortunatamente abbiamo incontrato un artista in pace con se stesso, soddisfatto della sua vita e delle sue scelte, anche quelle controverse che magari gli avranno precluso il successo planetario in cambio di una vita più serena e tranquilla. Un fiume di parole tra ricordi di una carriera eccezionale, divisa tra Scorpions, UFO e MSG, e naturalmente il grande ritorno del nuovo album “Resurrection”.

CIAO MICHAEL, E’ UN PIACERE AVERTI QUI SU METALITALIA.COM. IL MICHAEL SCHENKER FEST E’ NATO INIZIALMENTE COME PROGETTO LIVE, TI VA DI RACCONTARCI COM’E’ ANDATA?
– Ecco, è successo che, appunto, siamo partiti da un progetto dal vivo. Anzi, tutto parte ancora prima dal Michael Schenker Temple Of Rock, con Herman Rarebell, Francis Buchholz e Doogie White: stavamo suonando in Giappone e ci è stato chiesto se ci avrebbe fatto piacere che fosse Graham Bonnet ad aprire i nostri concerti con la sua band, unendosi a noi sul palco per cantare un pezzo. Ho detto di sì e penso che questa idea mi sia rimasta in testa, in qualche modo. Con il progetto Temple Of Rock siamo stati in tour per qualcosa come quattro, cinque anni: abbiamo inciso album in studio e dal vivo e quando abbiamo deciso di registrare l’ultimo DVD ci siamo detti, “deve essere qualcosa di davvero grandioso perché siamo stati tanto tempo in tour e abbiamo già pubblicato del materiale live e vogliamo che il pubblico abbia qualcosa di speciale”. In quel momento mi sono accorto di essere in uno stato mentale adatto per una sorta di celebrazione: ho pensato che dopo tanti anni in cui Doogie ha cantato il materiale più famoso del Michael Schenker Group, sarebbe stato bello richiamare i cantanti che sono stati parte della mia storia. Ci siamo messi in contatto con loro e hanno tutti accettato con piacere. A quel punto mi sono messo a cercare i musicisti e la scelta è caduta su Chris Glen e Ted McKenna, la sezione ritmica originale dopo quella con Cozy Powell alla batteria, con l’unica aggiunta di Steve Mann, che è collegato al periodo McAuley/Schenker. In questo modo abbiamo un po’ tutto lo spettro di quegli anni. Così, per tornare alla domanda iniziale, abbiamo iniziato a suonare qualche data dal vivo, soprattutto nei festival, una data ogni tre, quattro mesi, ma poi abbiamo iniziato a ricevere delle offerte per un vero e proprio tour, ad esempio in Europa, in America… Ad esempio mi era stato offerto il posto da headliner per il Loud Park 2016 (un festival giapponese, ndR): ho chiesto “chi sono gli headliner il giorno prima?”, mi hanno risposto “gli Scorpions” e allora ho detto “no, grazie”. Però un altro promoter mi ha proposto un’altra data, sempre in Giappone, in una location che mi ha ricordato il vecchio Budokan. Sai, quando abbiamo registrato il “Live In Budokan”, non abbiamo fatto delle riprese video, era solo audio. Così ho pensato che sarebbe stato fantastico, non ho consultato nessuno, ci ho investito direttamente i miei soldi: ho assunto la crew, noleggiato le telecamere e il materiale… E’ stata una serata grandiosa, abbiamo preso tutto il materiale, l’ho editato in Germania e mixato assieme a Michael Voss e abbiamo reso disponibile il tutto assieme alla Inakustik, una società che si occupa di materiale audio-video che, da qualche tempo, vende anche alcuni CD. E’ stato questo DVD live a portarci al livello successivo, perché il risultato finale era ottimo, un biglietto da visita che ha fatto sì che ci arrivassero diverse offerte da etichette importanti.

ED E’ A QUESTO PUNTO CHE ENTRA IN GIOCO LA NUCLEAR BLAST…
– La Nuclear Blast è stata la scelta migliore, quella con la proposta più interessante sotto diversi aspetti, eppure c’era una cosa di cui ero particolarmente contento della mia precedente etichetta: sono stato lontano dalle scene per tanto tempo ed ero felice di questa realtà così piccola, facendo le mie cose, anche piccole, ma a me andava bene così. Alla fine mi sono detto: “se devo farlo, deve essere con loro”. Non è stato semplice, c’è stato un vero e proprio tira e molla: mi hanno contattato e io ho detto di no, poi di nuovo ho detto di no finché alla fine non mi hanno convinto. Ci ho riflettuto e sono giunto alla conclusione che, non essendo più il Micheal di una volta, non avevo più bisogno di proteggermi, perché mi sento più forte e stabile. Non devo più comportarmi come se fossi la persona che ero, perché non lo sono più e il Michael Schenker Fest è una cosa così grande che ha bisogno di una realtà professionale come quella della Nuclear Blast e sono molto contento ora di aver preso questa decisione perché questo progetto si sarebbe perso senza il loro contributo. È stato un incontro felice e le cose sono andate avanti molto bene. Voglio dire, nella prima parte della mia vita mi sono ritrovato ad avere un impatto sulle generazioni a venire, un contributo che definisco inconscio, perché non me ne rendevo conto. Nella seconda parte, invece, mi sono concentrato sullo sperimentare con la musica e imparare ciò che conta nella vita. Ora invece sono pronto a riprendere quanto avevo interrotto in gioventù.

QUINDI QUELLO CHE DOVEVA ESSERE UN SEMPLICE EVENTO DAL VIVO E’ DIVENTATO ANCHE UN ALBUM IN STUDIO. COME SI SONO EVOLUTE LE COSE?
– Dopo la pubblicazione del DVD mi sono chiesto quale sarebbe stato il passo successivo e la risposta è stata: “facciamo il Michael Schenker Fest anche in studio!”. Mi si è formata in testa un’immagine, con un grande tavolo, alle spalle la cabina dello studio di registrazione, grandi lampade, cibo, vino, donne dalle tette grosse (risate ndR), insomma una specie di banchetto medievale. Questa era un po’ l’idea originale, quindi tutti i vari dipartimenti si sono messi al lavoro e mi hanno presentato questa immagine, che parte un po’ dall’idea originale con la grande tavolata, e mi sono accorto che sembra un po’ “L’Ultima Cena”. Insomma le cose si sono mosse un po’ per volta, quasi per caso. Prendi anche la collaborazione con Doogie White: era già qualche tempo che Doogie mi chiamava chiedendomi quando avremmo realizzato il prossimo album dei Temple Of Rock, ma io continuavo a tergiversare, finché a un certo punto mi è venuto in mente di proporgli di partecipare al Michael Schenker Fest: abbiamo già diversi brani che possiamo considerare dei classici interpretati da lui, quindi alla fine i cantanti da tre sono diventati quattro. Lui ha accettato di buon grado e a un certo punto è venuto da me con un brano che si intitola “Take Me To The Church”, mentre Michael Voss-Schoen aveva scritto un altro brano che si chiamava “The Last Supper”. Insomma, è stato come un puzzle che pian piano è andato a comporsi: inizialmente l’album doveva intitolarsi semplicemente “Michael Schenker Fest”, ma una volta uniti tutti i tasselli ho pensato che forse “Resurrection” sarebbe stato molto più appropriato.

COME MAI HAI SCELTO QUESTO TITOLO?
– Il motivo del titolo è presto spiegato: come dicevo ho lasciato il successo quando avevo ventitré anni, ho deciso coscientemente di dedicarmi a cose più piccole, di avere la pace e la libertà che mi serviva per sperimentare con la musica e imparare dalla vita. Mi è sembrato che ci fosse una sorta di parallelismo con gli anni perduti di Gesù Cristo, quelli di cui non si sa nulla: anche io ho avuto degli anni perduti, la gente non sapeva più nulla di me, ero praticamente sparito dalla circolazione. Poi nel 2008, tutto ad un tratto, mi è tornato il desiderio di salire su un palco. Prima ero terrorizzato all’idea, invece nel 2008 questo desiderio è ricomparso. L’ho preso come un segno del fatto che fosse arrivato il momento giusto ed è stato allora che, con l’aiuto della mia etichetta, mi sono rimesso in attività, fino ad arrivare al Michael Schenker Fest e alla Nuclear Blast. È interessante vedere come ogni cosa si sia mossa spontaneamente al momento giusto. Quindi “Resurrection” è il mio ritorno sulla giostra del rock e si riferisce anche al ritorno dei miei vecchi compagni di avventura. Quindi questa è un po’ la mia ‘ultima cena’, anche se non è affatto l’ultima, perché abbiamo appena cominciato!

COME HAI DIVISO LE PARTI? HAI PENSATO A CIASCUNO DI LORO IN FASE DI COMPOSIZIONE?
– No, no, non lo faccio mai. Io suono e scopro dove mi porta la musica: alcuni la chiamerebbero ‘pratica’, ma io non amo il termine. Non faccio ‘pratica’, io suono, perché mi piace farlo e mi piace scoprire cose nuove. Quando qualcosa che faccio mi colpisce, possono essere anche solo dieci secondi, li registro e li metto da parte. Quando è il momento di registrare un album, raccolgo tutti questi spunti, li riascolto e ci lavoro, fino a farli diventare dei brani. Quando ho in mano qualcosa come dieci, dodici brani, vado in studio con Michael Voss e continuiamo a lavorarci sopra aggiungendo tutto il resto, delle linee di basso e dei pattern di batteria, giusto per avere uno scheletro e un’idea di come dovrà suonare il pezzo definitivo. E’ stato proprio in studio che è nata l’idea dei quattro cantanti riuniti assieme: io e Michael stavamo lavorando alla nostra seconda canzone e lui è venuto da me dicendo che aveva un testo e degli spunti melodici fantastici. Abbiamo pensato che questo brano sarebbe stato grandioso con tutti i cantanti ed è nata “Warrior”. Lo stesso è successo con “The Last Supper” dove cantano ancora tutti. Non volevo che fosse una cosa tipo: tre canzoni per Gary, tre canzoni per Graham ecc. Volevo che fosse un mix naturale: a volte cantano assieme, a volte da soli, e poi abbiamo lavorato molto sui cori e le backing vocals, cercando di sperimentare combinazioni diverse. Vorrei che la gente ascoltando il disco si divertisse a riconoscere le diverse voci, dicendo ‘ecco Doogie’, ‘adesso è Gary’ e via dicendo. È un album diverso dal solito: non capita tutti i giorni di avere una band con quattro cantanti, è una cosa nuova, divertente, piena di colori diversi. Io non avevo mai fatto niente del genere prima e mi è piaciuto molto. Ho registrato tutte le mie parti nello studio di Michael Voss e lo stesso è stato fatto per il basso; per la batteria ho noleggiato un altro studio non molto lontano che è specializzato nella registrazione della batteria. Poi Michael è volato a Los Angeles per finire le parti vocali mancanti, che erano quelle di Graham e una parte di quelle di Robin. È stato lì che abbiamo avuto l’idea di coinvolgere Kirk Hammett: è un mio fan e un amico e suona nella più grande band del mondo.

ECCO, VOLEVO PROPRIO CHIEDERTI DI QUESTA COLLABORAZIONE: E’ STATA UNA TUA IDEA?
– Sì, o meglio, è il frutto di quelle occasioni in cui ti metti a pensare a come arricchire quello che stai componendo. Ce lo potevamo permettere, perché questa vuole essere una festa, quindi puoi concederti di spingerti in là con qualche idea azzardata. Di certo, avendo già quattro cantanti, non ci mancava la varietà. Insomma, abbiamo proposto a Kirk di partecipare e lui ne è stato entusiasta, così come anche il management, che ha pagato perché Michael Voss andasse a registrare nello studio di Kirk. Quando è tornato, mi ha fatto vedere una foto in cui Kirk sorrideva come un ragazzo di vent’anni, è stato incredibile. Poi avevamo avuto un’altra idea, quella di coinvolgere gli Apocalyptica: all’inizio di “Heart And Soul” ci sono dei violoncelli e ci sarebbe piaciuto che fossero registrati da loro. Ci avevano già detto di sì e chiesto di mandare le indicazioni di cosa avrebbero dovuto fare, ma io e Michael eravamo così occupati che ci siamo persi questa opportunità. Alcuni mesi dopo, quando abbiamo ripreso il discorso, era ormai troppo tardi e non se n’è fatto più niente. Oppure avrei voluto che Dee Snider cantasse una piccola parte in una canzone, questa è un’altra storia strana: ero in Inghilterra per ritirare un premio e ad un certo punto chi mi trovo alle spalle? Dee Snider! Gli ho chiesto subito se potesse interessargli cantare nel mio disco e anche lui ne era entusiasta: mi ha raccontato di come amasse i miei dischi e di come fosse venuto a un mio concerto quando ero negli UFO, siamo stati seduti uno di fianco all’altro per tutta la serata. Chissà, magari riusciremo a fare qualcosa in futuro. Comunque, anche se non sono riuscito a fare proprio tutto quello che avevo in mente, è andata bene così: c’è Kirk, la mia band, ci siamo veramente divertiti un sacco.

ANCHE GUARDANDO IL VIDEO DI “WARRIOR” LA SENSAZIONE E’ ESATTAMENTE QUELLA, CHE VI SIATE DIVERTITI UN SACCO.
– Sì, esatto! Quel video non è altro che una raccolta di materiale filmato di quello che stava succedendo in studio.

VOLEVO CHIEDERTI ANCHE QUALCOSA SU “MESSIN’ AROUND”, E’ UNA DELLE MIE CANZONI PREFERITE DEL DISCO.
– Anche per me! È una canzone che ho composto, come faccio spesso, utilizzando il mio solito metodo di scrittura, ma devo dire che sono rimasto piacevolmente sorpreso io stesso di come sia venuta, soprattuto per il contributo di Michael Voss e per la performance di Gary: la canta con quel modo di fare da impudente, un po’ sfacciato. Si sente che sta cantando in piena libertà e poi c’è quel ritmo così conciso (e con le mani e la voce inizia a riprodurre il suono della batteria, ndR).

POCO FA MI PARLAVI DI KIRK HAMMETT, CHE E’ UN TUO FAN E DI COME AVESSE UN GRAN SORRISO PER AVER PARTECIPATO AL TUO NUOVO ALBUM. ALLO STESSO TEMPO ABBIAMO GLI IRON MAIDEN CHE, OGNI SERA, INIZIANO IL LORO SHOW CON LA VERSIONE REGISTRATA DI “DOCTOR DOCTOR”. COME CI SI SENTE AD ESSERE AMMIRATI DALLE DUE BAND HEAVY PIU’ FAMOSE AL MONDO?
– Sai, devo dirti questa cosa: quando ho iniziato, è stato per il puro piacere di suonare, per praticare l’arte della chitarra solista, si trattava di esprimere me stesso. Ho iniziato quando avevo diciassette anni e da allora non ho copiato nessuno, in modo da avere il mio stile. Credo che il fatto di aver agito in questo modo, condividendo qualcosa che è solo dentro di te, abbia contribuito all’unicità del mio stile. Inoltre non ho mai fatto nulla per cercare di diventare famoso, volevo solo suonare. Non è mai stato uno dei miei obiettivi: non a caso, quando uscì “Lights Out” che diventò una hit in America, scappai via. C’era troppa pressione, ogni volta che le cose diventavano troppo serie, mi tiravo indietro. Quindi a conti fatti, mi sono reso conto dell’impatto che la mia musica aveva avuto sugli altri solo intorno agli anni Novanta. Ho lasciato la scena quando ne avevo ventitrè per occuparmi delle mie cose, quindi questi pareri lusinghieri mi sono arrivati tardi, con artisti come Slash o i Def Leppard che si professavano miei fan. Ciononostante è stato grandioso sapere come, anche senza aver pianificato nulla, la tua vita possa aver avuto un tale impatto sugli altri. È una cosa che ti fa pensare e ti fa capire che se segui il tuo cuore, la vita ti donerà tutto il resto e ogni cosa andrà automaticamente per il verso giusto. Però devo essere sincero, sono stati quegli anni intermedi, in cui ho sperimentato e imparato dalla vita, a darmi gli strumenti e la capacità di comprendere meglio tutto ciò che mi è successo o l’impatto che la mia vita ha avuto sugli artisti che hai citato. È parte di un grande disegno, io sono legato ad artisti come Leslie West o Jeff Beck, allo stesso modo altri artisti più giovani sono legati a me: è un passaggio generazionale. Alcuni artisti prendono in mano una chitarra per emulare i propri idoli, altri semplicemente per diventare famosi: dipende tutto da come decidi di affrontare questo viaggio.

CERTO, AD ESEMPIO SO CHE NELLA TUA CARRIERA TI SONO STATI OFFERTI DEI RUOLI PAZZESCHI: NEGLI AEROSMITH AL POSTO DI JOE PERRY, ADDIRITTURA NEI ROLLING STONES. OGGI TI CAPITA MAI DI PENSARE A QUESTI EPISODI E CHIEDERTI COME SAREBBE LA TUA VITA SE AVESSI ACCETTATO UNO DI QUESTI RUOLI?
– No, anzi, probabilmente sarei già morto si avessi accettato! Coi Rolling Stones è andata così: gli UFO si erano già interessati a me e già questo era un grande passo, ma ad un certo punto mi arrivò una telefonata dove mi si chiedeva se volessi fare un’audizione con loro. Rimasi di sasso, chiamai mio fratello per avere un consiglio, perché non potevo credere che davvero mi stessero chiedendo una cosa del genere. Gli chiesi: “che devo fare?”. E lui mi rispose che era la mia vita e che dovevo fare quello che ritenevo essere la cosa migliore per me. Brian Jones era morto da poco, pensai allo stile di vita che mi aspettava e mi resi conto che, semplicemente, se fossi entrato negli Stones sarei morto entro due anni. E questa consapevolezza veniva proprio dal fatto che avessi già sperimentato quella vita. Non ero una persona che pensava: “oddio, se riuscissi a diventare famoso, sarei felice!”. Ero già famoso, ero già lassù ed ero già caduto quindi sapevo come ci si sentiva. Ecco perchè sono felice di come siano andate le cose e non sento la mancanza di quella vita: le mie sono state scelte consapevoli. Sono grato delle esperienze che ho avuto nella vita, così quando sono stato avvicinato da Ozzy Osbourne o gli Aerosmith, sono stato tentato ma poi mi sono detto: “hai lasciato gli Scorpions e gli UFO per una ragione, quindi non hai bisogno di accettare queste proposte, perchè sarebbe la stessa situazione”. Anche i Deep Purple me lo chiesero nel ’93, ma decisi di fare un altro album con gli UFO: Phil Mogg venne da me dopo aver completamente annientato la band e mi chiese di aiutarlo a ricostruirla. Io accettai ma gli chiesi il 50% dei diritti sul nome: volevo proteggere la band in modo da non farla tornare nuovamente in quello stato. C’è voluta tanta energia per rimettere in piedi il gruppo, ma l’abbiamo fatto, abbiamo inciso “Walk On Water” e concretizzato la reunion. Tutto stava andando alla grande, troppo alla grande per Phil… Le cose andarono di nuovo a rotoli, ci siamo comportati da stupidi, e io decisi nuovamente di andarmene. Phil allora mi chiamò e mi chiese di riavere i diritti sul nome e glieli cedetti nuovamente, gratis oltretutto. Nessun ringraziamento, niente. Lui ora va in giro orgogliosamente portandosi dietro il nome degli UFO, ma non ho mai ricevuto un apprezzamento per il fatto di averglielo restituito a titolo gratuito.

GRAZIE MICHAEL, IL TEMPO STRINGE E MI RESTA UN’ULTIMA DOMANDA. TU SEI UN CHITARRISTA ECCEZIONALE: CREDI CHE PER ARRIVARE A QUESTO LIVELLO SIA SUFFICIENTE TANTO LAVORO E APPLICAZIONE COSTANTE, OPPURE PENSI CHE CI SIA COMUNQUE UN DONO, QUALCOSA DI INDEFINIBILE CHE NON PUO’ ESSERE NE’ IMPARATO NE’ INSEGNATO?
– Io non mi considero un chitarrista fissato con la tecnica, non sono un matematico. Sono però attratto per natura dalla musica, fin da quando ho memoria mi interessavo alle armonie, al ritmo, cercavo di suonare qualunque cosa, che fosse un flauto o un piano, fino a quando non scoprii la chitarra. Rimasi affascinato dalla possibilità di creare melodie, delle belle combinazioni di note che mi facessero sentire bene. Questo è ciò che mi interessa e lo dico fin da dagli inizi, quando avevo sedici-diciassette anni. Riesco a comprendere quello che succede nel processo creativo ed è questo che mi affascina: suonare e scoprire cose nuove.

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