È la seconda volta che abbiamo il piacere di intervistare una leggenda della sei corde come Michael Schenker e, anche in quest’occasione, il biondo chitarrista si è soffermato a parlare della sua vita, del suo percorso di rinascita, del suo bisogno di esorcizzare i fantasmi del passato. Anche i suoi ultimi lavori sembrano seguire il medesimo percorso, mettendo in musica una sorta di sintesi di tutta la sua carriera. Schenker oggi è certamente un uomo più sereno, ma resta evidente la fatica di un uomo che sente di aver subito innumerevoli torti e tradimenti. Non stupisce, quindi, come una grossa fetta dell’intervista si concentri nello spiegare l’immagine di copertina di “Revelation”, che ritrae il chitarrista crocifisso, in un parallelismo fin troppo sfacciato con la figura di Gesù Cristo.
MICHAEL, NEL DESCRIVERE IL TUO NUOVO ALBUM, “REVELATION”, HAI DATO TU STESSO UNA DEFINIZIONE: PUREZZA E PASSIONE IN OPPOSIZIONE AD AVIDITÀ E CORRUZIONE. VUOI SPIEGARCI MEGLIO QUESTA FRASE?
– Parte tutto dalla copertina, l’artwork dice tutto in questo senso. Chi conosce qualcosa di me, della mia vita, del mio passato, potrà comprenderla in maniera più chiara; ma anche chi non ha presente la mia vicenda potrà guardarla e trovare un parallelismo tra me e la figura di Gesù: da una parte le persone avide e corrotte, che desiderano conquistare il mondo e dall’altra la filosofia del conquistare se stessi; da una parte coloro che vedono in due dimensioni, pensando al denaro e all’avidità, dall’altra chi abbraccia la sua parte più spirituale. Da un punto di vista prettamente musicale, c’è una sorta di parallelismo con la vicenda di Gesù… Quando è nata la copertina di “Resurrection” (il precedente album di Michael Schenker, che rappresenta una sorta di rappresentazione dell’Ultima Cena, ndR) non avevo alcuna intenzione di creare un’immagine dai richiami religiosi, è semplicemente accaduto, ma il progetto iniziale era quello di rappresentare un festino, un’immagine che doveva riprendere il concetto del Michael Schenker Fest, invece poi si è trasformata in un’immagine religiosa. Questa copertina, invece, arriva da più lontano: è stata concepita cinque anni fa partendo da uno schizzo che avevo abbozzato, ed è nata così perché non parla solo di adesso, ma della mia intera vita.
La prima parte della mia vita da musicista è iniziata senza obiettivi prefissati, senza competizione, come un gattino che gioca nella sabbiera, semplicemente suonando e sperimentando con la chitarra; poi ad un certo punto mi sono ritrovato, all’epoca di “Strangers In The Night”, con persone che dicevano che Schenker è un dio. Lì ho conosciuto la fama e il successo, ma sono stato anche in grado di prendere una decisione, di lasciare tutto da parte, concentrandomi sulla musica, focalizzandomi sulla mia vita, imparando qualcosa su me stesso, eccetera. Finalmente, nel 2008, sono riuscito a superare la mia paura del palcoscenico, mi sono detto “Michael, è il momento di tornare sul palco”, e per me è stato un po’ come tornare sulla Terra, per riprendere in mano tutto quello che avevo messo in disparte. Mi vedi, in un certo senso non ho mai lasciato gli anni Ottanta, mi vesto ancora come una rockstar di quegli anni (ridacchia, ndR). Insomma, finalmente ho iniziato a prendermi cura di me stesso e questo mi ha ricompensato con una senso di realizzazione; ho creato finalmente una versione tridimensionale di Michael, mentre se, per esempio, avessi accettato di unirmi alla band di Ozzy Osbourne, forse oggi non sarei nemmeno vivo.
Oggi mi sento completo, ma in quel periodo ero preso a sperimentare, abbandonando il carrozzone del successo e occupandomi della mia musica. E non, come qualcuno ha avuto modo di dire, perché volessi tutto per me, anzi, tutti quanti volevano continuare a fare affari con me: gli Scorpions erano arrabbiati con me ma volevano che facessi con loro “Lovedrive”. Volevano che li aiutassi a sfondare in America, visto che io avevo già avuto una hit in America nel 1976, quando avevo ventuno anni. Pensavano che potessi essere il loro biglietto per il successo perché ero arrivato in America quando avevo appena diciotto anni, pur essendo più giovane di mio fratello di sei anni e mezzo. È davvero complicato… Nella parte centrale della mia vita, tutti erano arrabbiati con me, non riuscivano a capire perché fossi così stupido da non voler usare il mio talento per fare più soldi, avere una carriera di fianco a grandi star. Hanno cercato di sabotarmi, di umiliarmi, invitandomi sul palco a suonare di fronte a migliaia di fan e dandomi in mano una chitarra completamente scordata, solo per prendersi gioco di me. Cose così!
Finalmente nel 2015 sono riuscito a liberarmi da questo peso del passato, semplicemente ripercorrendo la mia vita e prendendo atto di tutte le volte che qualcuno ha cercato di danneggiarmi, di distruggermi: ecco, quindi da dove arriva il parallelismo con Gesù, ma sempre e solo in riferimento alla mia carriera musicale, non certo in termini religiosi.
IL PRIMO SINGOLO, “ROCK STEADY”, HA UN CONTENUTO AUTOBIOGRAFICO. ANCHE MUSICALMENTE SEMBRA CHE TUTTO L’ALBUM SIA UNA RIFLESSIONE SUL TUO PASSATO E SULLA TUA VITA.
– La cosa pazzesca è che non sono io l’autore di quel testo, sono rimasto senza parole! Però leggendo i versi mi ci sono ritrovato pienamente. Pensa che “Rock Steady” ha rischiato di non essere nemmeno inclusa nell’album: era una dei brani nato con l’idea di includere degli ospiti e questo progetto si era fermato a causa della morte di Ted McKenna. Tuttavia la canzone è rimasta, si è evoluta, ed è diventata una bella canzone, anche senza gli ospiti a cui avevamo pensato. Il testo è stato scritto da Michael Voss e pian piano il brano ha assunto un ruolo centrale, raccontando la storia di Michael Schenker, tanto da non poter essere più escluso dall’album.
Non occupandomi direttamente delle liriche, però, posso risponderti da un punto di vista musicale: da quando, qualche anno fa, diedi vita al progetto Temple Of Rock, mi sono ritrovato ad andare sempre più a fondo fino alle mie radici, una scrittura veloce, epica, drammatica e melodica. È come se il passato stesse ritornando, con tutto quello che mi è successo, e si stia mescolando al presente, e a fare da collegamento ci sono sempre io, che raccolgo questa eredità, la registro, ne prendo atto… È un po’ il percorso della vita stessa, tre passi avanti e due indietro: per poter assimilare bene quello che ti succede devi continuamente riviverlo, tornarci sopra, in modo da poterlo ‘digerire’. Quello che siamo oggi è il risultato di ciò che siamo stati e che abbiamo vissuto fino a questo momento.
HAI CITATO POCO FA LA MORTE DI TED MCKENNA. DEVO DIRE CHE, QUANDO HO LETTO LA NOTIZIA, SONO RIMASTO SENZA PAROLE. SOPRATUTTO PERCHÈ, SE NON ERRO, TED È DECEDUTO IN SEGUITO A DELLE COMPLICAZIONI DURANTE UN INTERVENTO PROGRAMMATO.
– È stato uno shock. E ti dirò di più, mi sono sentito pieno di rabbia, perché si trattava di un’operazione di routine… Qualcosa è andato storto, non ho davvero idea di cosa possa essere successo, ha combattuto contro un’emorragia che nessuno riusciva ad arrestare per quasi dieci ore ed è morto dissanguato. È stato un momento molto triste. Però ho pensato che Ted non avrebbe voluto che ci fermassimo. Mi avrebbe detto, “Michael, keep on rocking!” e questo pensiero mi ha aiutato ad andare avanti.
IMMAGINO CHE QUESTO EVENTO TRAGICO ABBIA AVUTO DELLE RIPERCUSSIONI SULLE REGISTRAZIONI DELL’ALBUM.
Diciamo che abbiamo dovuto fare il possibile per cercare di portare avanti i lavori: avevamo la seconda parte del tour americano da completare, in aprile, per supportare “Resurrection”, e dovevamo trovare un batterista che riuscisse ad imparare in pochissimo tempo qualcosa come quarantacinque canzoni, perché il nostro show dura circa due ore e mezza e conta trentadue pezzi, a cui si dovevano aggiungere tredici nuove canzoni. Simon Phillips non era disponibile per il tour, quindi lui si è fatto carico delle parti di batteria di dieci canzoni del nuovo disco, mentre Bodo Schoft ha suonato sulle altre tre e poi è venuto con noi in tour. Abbiamo provato e provato, affinché tutto fosse perfetto per andare in tour, nonostante il poco tempo a nostra disposizione. Per fortuna siamo riusciti a fare tutto, compresa la listening session a marzo per la stampa internazionale e due videoclip a Los Angeles. L’unica cosa a cui abbiamo dovuto rinunciare è stata l’idea di coinvolgere degli ospiti nelle varie canzoni: ci sarebbe voluto troppo tempo e una mole di lavoro superiore alle nostre forze rispetto al tempo a nostra disposizione.
Invece volevo che ci fossero quattro canzoni in cui le voci dei cantanti fossero tutte presenti, perché avevo amato molto quello che avevamo ottenuto con “Warrior” e “The Last Supper” (due brani di “Resurrection” ndR). Purtroppo siamo riusciti a completare solo tre canzoni con tutti e quattro i cantanti: per la quarta ci abbiamo lavorato, ma non siamo riusciti a trovare la giusta alchimia. È stato allora che Michael Voss ha avuto l’idea di coinvolgere Ronnie Romero, con il quale aveva lavorato e che aveva sentito con i Rainbow. Ho pensato che fosse un’ottima idea e così Michael l’ha contattato e lui è stato molto felice di partecipare: già il brano è particolare, diverso dagli altri, e anche Ronnie ha una voce molto particolare, soprattutto una voce molto diversa da quella degli altri quattro cantanti, cosa che ha dato un’ulteriore sfumatura all’album. Così, alla fine, siamo riusciti ad avere almeno un ospite, proprio quando avevamo abbandonato l’idea. La vita è così, perdi qualcosa e guadagni qualcos’altro. Sono molto soddisfatto del risultato finale.
TU AVEVI AVUTO MODO DI ASCOLTARE RONNIE ROMERO NEGLI SHOW CHE HA TENUTO CON I RAINBOW?
– No, no, ed è questa la cosa divertente. Ho semplicemente pensato: se Ritchie Blackmore l’ha voluto nella sua band, deve essere un bravo cantante (ride ndR)!
ANCHE QUESTA VOLTA NEL DISCO HAI INSERITO UN BRANO STRUMENTALE. QUANTO È IMPORTANTE PER TE SCRIVERE MUSICA DI QUESTO TIPO?
– Non è una cosa davvero importante. Quando ho scritto le canzoni di “Resurrection” c’era questo brano che nessuno riusciva a cantare, non si riusciva a trovare la giusta melodia vocale, e così è stato trasformato in un pezzo strumentale. E la stessa identica cosa è successa anche questa volta: nessuno riusciva a trovare il modo giusto per interpretare questa canzone.
QUINDI NON HAI UN APPROCCIO DIFFERENTE: SCRIVI QUESTI BRANI ESATTAMENTE NELLO STESSO MODO IN CUI COMPONI LE CANZONI ‘NORMALI’.
– Sì, esatto. Io compongo la struttura generale della canzone e poi utilizzo la mia chitarra come se fosse la voce. È chitarra solista a diventare il cantante.
ABBIAMO AVUTO IL PIACERE DI ASSISTERE AL TUO PIÙ RECENTE CONCERTO ITALIANO ED È STATO DAVVERO UN GRANDE SPETTACOLO, PERFETTAMENTE BILANCIATO. COM’È STATO PER GARY BARDEN, GRAHAM BONNET, ROBIN MCAULEY E DOOGIE WHITE CONDIVIDERE IL PALCO E CANTARE SOLO PER UNA PARTE DELLO SHOW?
– Credo che a loro sia piaciuto, davvero. Poi ciascuno è impegnato anche in altri progetti, fanno tutti anche altre cose e questo è stato per loro qualcosa di diverso: sono abituati a suonare le loro cose, con la loro band e poi arriva il momento del Michael Schenker Fest, che è un’altra cosa. Ad esempio, Doogie andava a vedere i concerti di Gary Barden o di Graham Bonnet, che è uno dei suoi cantanti preferiti ed è un cantante di altissimo livello, rispettato da tante persone. Quindi per Doogie è un piacere poter vedere tutte le sere questi cantanti all’opera. Per ciascuno di loro è un piacere condividere il palco, a maggior ragione perché ognuno ha fatto parte degli MSG in momenti diversi. È un’esperienza diversa rispetto ad essere il solo e unico cantante sul palco.
RECENTEMENTE ABBIAMO ANCHE POTUTO ASSISTERE AD UN CONCERTO DEGLI U.F.O., DURANTE LO SWEDEN ROCK. ERA UNA DELLE PRIME DATE DAL VIVO DOPO LA MORTE DI PAUL RAYMOND E ABBIAMO AVUTO UNA STRANA SENSAZIONE, COME DI GUARDARE UN’ALTRA BAND. COME SE FOSSE LA BAND SOLISTA DI PHIL MOGG, SENZA PAUL RAYMOND, PETE WAY E, OVVIAMENTE, SENZA DI TE.
– È esattamente così. In quel momento stavi guardando un’altra band. Gli U.F.O. sono Phil Mogg e Michael Schenker. Punto.
L’ULTIMA VOLTA CHE TI ABBIAMO INTERVISTATO, CI DICEVI CHE ERI PRONTO A TORNARE SULLE SCENE CON UNA GRANDE ETICHETTA COME LA NUCLEAR BLAST, DI NUOVO SOTTO LA LUCE DEI RIFLETTORI. A DISTANZA DI TRE ANNI LA PENSI ANCORA ALLO STESSO MODO?
– Sì, perché tutto quello che dovevo fare per raggiungere l’appagamento artistico e la pace, l’avevo fatto negli anni precedenti, quelli in cui sono stato lontano dalle scene. Sono stato onesto con me stesso e quando sei onesto con te stesso, tutto il resto ti verrà dato e anche di più di quello ti aspetti. Quando sei giovane non lo capisci, ma una volta che riesci ad elevarti, capisci che è tutto vero. Ora non ho più timore del palcoscenico, anzi, voglio stare sul palco e mi ci trovo benissimo. Voglio celebrare la mia vita e ripartire da dove avevo interrotto.
QUAL È IL LATO POSITIVO DI POTER SUONARE DAL VIVO CON DEI CANTANTI CON I QUALI HAI CONDIVISO UNA PARTE DELLA TUA STORIA?
– Credo semplicemente che la cosa bella del Michael Schenker Fest sia avere la possibilità di suonare il materiale originale degli MSG con i suoi interpreti originali.
UN’ULTIMA DOMANDA PRIMA DI SALUTARTI, MICHAEL: PERSONALMENTE HO AMATO MOLTO ANCHE I TUOI ALBUM ACUSTICI, COME “THANK YOU”. PENSI CHE CI SARÀ LA POSSIBILITÀ DI VEDERTI ANCORA ALL’OPERA IN QUESTO CAMPO?
– Ho passato molto tempo registrando album acustici: al momento sono concentrato su quello che sto facendo e non voglio spendere energie nel pensare a qualcosa che potrebbe non accadere mai. Potrei anche non essere vivo domani, quindi perché pensare troppo al futuro? Se poi, un giorno, vorrò ancora prendere in mano la chitarra acustica e registrare un album, lo saprai (sorride ndR).