MISERY SIGNALS – Il cammino della vita

Pubblicato il 10/08/2020 da

Il nuovo “Ultraviolet” ci ha riconsegnato una delle band più personali del vasto panorama metal-core. Con la line-up che incise l’ormai storico debut album “Of Malice and the Magnum Heart” nuovamente riunita sotto il monicker Misery Signals, il gruppo nordamericano è riuscito a confezionare un’opera che ricattura l’espressione artistica più amata dei fan e la ripropone in una collezione di brani ispiratissima nel mescolare tecnica, intensità e passione. La lunga attesa (il chitarrista Stu Ross ci anticipò che il disco era sul punto di essere completato quasi due anni fa) è stata dunque ben ripagata: “Ultraviolet” è a tutti gli effetti l’album che i Misery Signals dovevano realizzare dopo il grande hype generato dal ritorno del cantante Jesse Zaraska. Un lavoro diretto e sentito, che mantiene una propria autenticità sotto ogni aspetto e che non ha bisogno di ampie sovrastrutture per liberare il proprio messaggio. Ne parliamo con il leader del gruppo, il chitarrista Ryan Morgan, raggiunto telefonicamente poche settimane fa.

SONO TRASCORSI SEI ANNI DAL “MALICE X” TOUR, DURANTE IL QUALE AVETE RIALLACCIATO I RAPPORTI CON JESSE ZARASKA, IL VOSTRO PRIMO CANTANTE. VOCI DI UN NUOVO ALBUM SONO EMERSE SUBITO DOPO QUELLE DATE E GIÀ UN PAIO DI ANNI FA SEMBRAVA CHE LA PUBBLICAZIONE FOSSE IMMINENTE. INVECE È PASSATO ALTRO TEMPO. PER I FAN SI SARÀ TRATTATO DI UN’ATTESA INFINITA, MA IMMAGINO CHE ANCHE PER VOI IL TUTTO SIA STATO SNERVANTE…
– Puoi dirlo forte! Prima di tutto, devo dire che il disco inizialmente era solo un’idea: ne parlammo poco dopo quel tour celebrativo per il decennale dell’uscita di “Of Malice and the Magnum Heart”, ma abbiamo davvero iniziato a comporre qualcosa soltanto un anno dopo quei concerti. Da allora abbiamo cercato di mantenere una certa costanza nella composizione, ma il fatto di abitare in città e stati diversi, oltre ad avere stili di vita spesso molto differenti, ha rallentato il processo forse più del previsto. Inoltre, bisogna anche tenere conto di una cosa: in tutti questi anni trascorsi dal primo album siamo chiaramente diventati persone e musicisti diversi: siamo cresciuti e cambiati tantissimo da allora, quindi ci è voluto un po’ di tempo per ritrovare la giusta alchimia. “Ultraviolet” non è un disco composto da una sola persona: abbiamo lavorato come una squadra e ogni singolo aspetto della musica doveva ricevere l’approvazione di tutti i membri della band. Ci siamo trovati spesso a discutere su cosa volevamo fare con questo album, in quanto ognuno di noi ha la sua personale visione di cosa sia la musica dei Misery Signals. Non ti nascondo che ad un certo punto mi sono anche chiesto se saremmo mai riusciti a completare il lavoro. La vita non è come un film nel quale i protagonisti si ritrovano e poi vivono felici e contenti: la riconciliazione con Jesse e la reunion della formazione originale sono stati un evento, ma dopo l’iniziale ‘luna di miele’ abbiamo comunque dovuto fare i conti con qualche divergenza di veduta, come è normale che sia. Insomma, tutte queste cose hanno portato via tempo e, alla fine, fra quel tour e la pubblicazione del disco sono trascorsi ben sei anni.

ASCOLTANDO “ULTRAVIOLET” SI HA L’IMPRESSIONE CHE ABBIATE VOLUTO RIPORTARE IN PRIMO PIANO L’ENERGIA DEI VOSTRI ESORDI…
– Certamente il fatto di avere in formazione tutte le persone che hanno suonato sul debut ha influito sullo spirito alla base del disco. Credo che “Ultraviolet” abbia elementi provenienti da ogni nostro album, ma senza dubbio si tratta di un’opera particolarmente diretta, con alcuni episodi che vanno più che mai dritti al sodo. Abbiamo discusso e lavorato molto sulla struttura del disco, cercando spesso un approccio ‘less is more’. Tuttavia, puoi comunque riconoscere l’evoluzione artistica e tecnica che vi è stata dagli esordi ad oggi: sarebbe d’altronde stato stupido cercare di imitare i suoni e le interpretazioni di un tempo. Questo è un disco composto e suonato da una band che ha alle spalle tanti anni di carriera e che ha trovato una sua maturità.

IL TIMBRO E IL CARISMA DI JESSE SI FANNO SENZA DUBBIO SENTIRE NEL DISCO: COME È STATO TORNARE A LAVORARE CON LUI DOPO TUTTO QUESTO TEMPO?
– Abbiamo parlato tanto con Jesse prima di iniziare a lavorare seriamente al disco. Lui aveva dei dubbi su come approcciarsi alla musica: ovviamente non è più il ragazzo tormentato che incise “Of Malice…” e in principio non era sicuro di potere trovare gli stimoli giusti per cantare su quanto stavamo componendo. Ha riflettuto molto su come riuscire a dare ai propri testi e alle linee vocali un taglio sincero e su come trovare un messaggio che lo rappresentasse per ciò che è oggi: l’ultima cosa che volevamo era fingere di essere arrabbiati per qualcosa e confezionare un lavoro posticcio. I vecchi testi di Jesse erano amari, se non addirittura negativi: oggi è un’altra persona, è un padre di famiglia, e i suoi pensieri sono di conseguenza piuttosto diversi da quelli con cui il ragazzo Jesse faceva i conti ormai quindici anni fa. Ci è voluto un po’ di tempo per trovare il concept su cui basare il disco, ma poi Jesse ha preso in mano le redini del lavoro e si è espresso alla grande.

DI COSA PARLA “ULTRAVIOLET” QUINDI?
– Il titolo “Ultraviolet” è stato scelto proprio perché in netta contrapposizione con quello del disco precedente, “Absent Light”. Nonostante siano presenti elementi oscuri e criptici, il disco ha un feeling molto più euforico e positivo rispetto a quelli che lo hanno preceduto. Volevamo dare un segnale forte in questo senso, dato che “Ultraviolet” nasce proprio in seguito ad un lungo processo di riconciliazione fra di noi. I testi portano avanti un messaggio di speranza e riflettono pianamente quello che siamo diventati come persone in questi ultimi anni.

HAI MENZIONATO “ABSENT LIGHT”, UN ALBUM CHE NON TUTTI HANNO COMPRESO E APPREZZATO…
– È certamente un capitolo particolare della nostra discografia: un album composto principalmente da me con l’aiuto del nostro chitarrista di allora, Greg Thomas. Puoi sentire come si tratti di un lavoro concepito in solitudine: alcuni brani sono piuttosto elaborati e ruotano attorno a degli esperimenti che per l’epoca erano un po’ azzardati. Sono tuttora molto soddisfatto degli arrangiamenti orchestrali, i quali conferiscono al disco un’atmosfera unica, ma per “Ultraviolet” volevamo tornare ad un feeling maggiormente live e riscoprire il piacere di comporre musica come una vera band. Come ti dicevo, si è trattato di un processo lungo, ma solo coinvolgendo ogni membro del gruppo saremmo riusciti a catturare quell’energia che oggi puoi sentire nei brani. “Absent Light” invece è il prodotto di lunghe ore passate al computer e di decisioni prese in totale autonomia.

COME SEI SOLITO PRENDERE I COMMENTI E LE OPINIONI DEI FAN ONLINE? BADI A QUELLO CHE SI DICE DI VOI?
– Credo di essere abbastanza bravo a non prendere i commenti troppo sul personale. Ognuno è libero di avere la sua opinione e in un certo senso sono orgoglioso che vi siano persone che hanno talmente a cuore la band da intavolare discussioni anche molto accese su di essa. Al tempo stesso, ciò che viene detto su di noi non ha influenza sulla mie decisioni e sul nostro modo di operare come band, anche se senza dubbio alcuni degli altri membri non hanno la mia stessa filosofia in merito. A conti fatti, è impossibile accontentare tutti, quindi, anche volendo provarci, non riusciremmo mai a mettere d’accordo ogni nostro fan. Tuttora vi sono persone che si lamentano del fatto che Jesse sia rientrato nella band, visto che preferivano la voce di Karl. Un fan di vecchia data trova tutto ciò una bestemmia, ma evidentemente ci sono fazioni diverse anche su un argomento che potrebbe apparire scontato. È giusto così. Noi andiamo avanti per la nostra strada e credo che il gruppo sia così rispettato proprio per questo. Non siamo mai scesi a compromessi.

PER LE REGISTRAZIONI DI “ULTRAVIOLET” VI SIETE RIVOLTI A PIÙ PRODUTTORI E A DIVERSI STUDI. È STATO FATTO ANCHE IL NOME DI DEVIN TOWNSEND…
– Sì, ci sarebbe piaciuto lavorare con Devin Townsend per tutti gli aspetti del disco, come era stato fatto per “Of Malice…” e per “Controller”, ma questa volta non aveva molto tempo a disposizione. Ci ha aiutato a produrre le linee vocali, mentre per il resto del lavoro ci siamo rivolti ad altri professionisti. Lo stesso Greg Thomas, il nostro ex chitarrista, ci ha aiutato con parte della strumentazione, mentre per la batteria ci ha assistito il noto Matt Bayles, produttore che ha lavorato con Botch e Mastodon, fra i tanti. Siamo molto contenti del risultato finale: il disco ha un suono limpido e naturale, lontano da certe esagerazioni che si sentono oggi.

LA PANDEMIA HA AVUTO E STA AVENDO EFFETTI DEVASTANTI SU TUTTA L’INDUSTRIA MUSICALE. IMMAGINO ABBIA CREATO DISAGIO ANCHE A VOI…
– Sì, siamo stati costretti ad annullare due tour negli USA e in Canada che avevamo in programma per questa primavera. Le date verranno certamente recuperate appena possibile. Per il resto, vivendo in zone diverse, la nostra routine come band non ha subito grossi cambiamenti: non siamo un gruppo che prova insieme ogni settimana. I Misery Signals non sono più la nostra occupazione principale da tanti anni ormai. Io, ad esempio, lavoro in uno studio di registrazione e sono anche un insegnante di Jujutsu. Sono un grande appassionato di arti marziali. Tutti gli altri ragazzi hanno altri lavori e impegni. Jesse, ad esempio, è un insegnante. Tornando al disco, per fortuna siamo riusciti a mantenere invariata la data di pubblicazione: ci siamo mossi con un certo anticipo per stampare le copie e in quel senso tutto è andato bene. Non ci resta che aspettare la data di uscita ora.

COME PER “ABSENT LIGHT”, AVETE DECISO DI PUBBLICARE IL DISCO IN AUTONOMIA, SENZA APPOGGIARVI AD UNA CASA DISCOGRAFICA, SE NON A LIVELLO DI DISTRIBUZIONE. COME SPIEGHI QUESTA SCELTA? IMMAGINO CHE LE OFFERTE NON VI MANCHINO…
– Per “Absent Light” avevamo lanciato una campagna di crowdfunding, la quale è andata benissimo e ci ha permesso di lavorare a quel disco con notevole libertà. Per “Ultraviolet” ci siamo detti che non sarebbe stato necessario rivolgersi ai fan per realizzare il disco: abbiamo fatto tutto da soli, ma al contempo non abbiamo voluto proporlo a nessuna etichetta per la pubblicazione. Da quando la nostra vecchia label, la Ferret, è stata assorbita dalla Warner, non abbiamo più il controllo dei nostri primi dischi. Di conseguenza, oggi siamo estremamente restii a concedere ad una casa discografica qualsiasi tipo di potere sulla nostra musica. Vi sono delle piccole etichette in alcune zone che ci daranno una mano nel distribuire il disco: sono gestite da persone di cui ci fidiamo e non hanno avanzato richieste sui diritti dell’album. Per il resto, gestiremo la pubblicazione in autonomia. È un lavoro enorme, ma credo che sia necessario per mantenere il pieno controllo economico e artistico. Non abbiamo nemmeno un manager e in certi casi gestiamo anche l’organizzazione dei tour in prima persona.

COME VEDI LA PROPOSTA DEI MISERY SIGNALS NELL’ATTUALE PANORAMA METAL E HARDCORE? PERSONALMENTE TROVO CHE NON VI SIANO MOLTE BAND SIMILI ALLA VOSTRA, OGGI PIÙ CHE MAI, OLTRE AL FATTO CHE ‘METAL-CORE’ OGGIGIORNO SIGNIFICA DAVVERO TANTE COSE…
– Sì, devo dire che non abbiamo mai avuto molto in comune con ciò che viene definito ‘metal-core’ nel circuito più mainstream. Non era così quindici anni fa e oggi la cosa è ancora più evidente. Non siamo mai stati il tipo di band che fa molta leva sull’alternanza fra urla e cantato o che usa le chitarre come se fossero una batteria. Le influenze sono sempre state diverse e oggi probabilmente la differenza fra noi e il grosso del movimento è forse ancora più lampante, anche se ammetto di non seguire molto la scena e di non avere grande interesse per quelle sonorità.

QUALI ERANO LE TUE INFLUENZE QUANDO HAI INIZIATO A SUONARE? COME SEI ARRIVATO AL SUONO DEI MISERY SIGNALS, DA COMPOSITORE PRINCIPALE DELLA BAND?
– Da ascoltatore e musicista, in principio credo di essere stato più ‘metallaro’ di altri nelle band in cui ho suonato, dai 7 Angels 7 Plagues ai Misery Signals. I Metallica sono il gruppo che mi ha fatto avvicinare alla musica heavy. In particolare, nutro da sempre una grande ammirazione per un disco come “… And Justice For All”: amo le ritmiche di quel disco, le strutture elaborate e il grande utilizzo di arpeggi. Diciamo che il metal è sempre stata la base del mio modo di vedere la musica e di suonare la chitarra. Poi sono entrato in contatto con gruppi del filone hardcore influenzati dal metal, come Cave In, Shai Hulud e Strongarm, e ho mischiato le loro influenze a quelle di altre realtà metal che nel frattempo avevo scoperto: Meshuggah su tutti. Infine, parte del mio gusto melodico credo derivi dall’ascolto di band lontane dal mondo heavy, come Radiohead e Hum. Se metti insieme tutto questo, hai la base del suono dei Misery Signals. È difficile da definire, me ne rendo conto!

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