Succede sempre così, con i Naglfar: tra un disco e l’altro passa tanto di quel tempo che quasi ci si dimentica di loro, ma dal nulla ecco materializzarsi l’ennesimo concentrato di black/death svedese a cui risulta difficile sottrarsi se appassionati di determinate sonorità. Mettendo al bando le sorprese, ma puntando di contro su un songwriting intenso e solidissimo, “Cerecloth” ha ribadito la personalità del trio di Umeå nella maniera che era lecito aspettarsi dopo ventotto anni di carriera all’insegna di ben poche variazioni stilistiche o colpi di scena; un album per certi versi semplice da decifrare, ma non per questo povero di idee o di spunti, di cui il frontman Kristoffer W. Olivius ci ha parlato in un botta e risposta telefonico avvenuto ormai un paio di mesi fa…
SONO TRASCORSI OTTO ANNI DAL VOSTRO ULTIMO FULL-LENGTH, IL CHE FA DI QUESTA PAUSA LA PIÙ LUNGA DELLA VOSTRA CARRIERA. COS’È SUCCESSO NEL FRATTEMPO? NON SIETE MAI STATI UNA BAND MOLTO PROLIFICA, MA A COSA SI DEVE UN SILENZIO SIMILE?
– Ci sono stati grossi cambiamenti nelle nostre vite, cose che hanno richiesto la priorità e che ci hanno fatto mettere in stand-by la musica. Dall’uscita di “Téras” sono diventato padre di due bambini, e la stessa cosa è successa ad Andreas, che è da sempre il compositore principale della band. Ci siamo semplicemente concentrati su altri aspetti delle nostre vite. Non siamo uno di quei gruppi che pubblicano dischi per andare in tour, pagarsi le bollette, eccetera. Per noi è fondamentale che quanto composto abbia un significato, sia onesto e che rispecchi i nostri standard. Il processo creativo è sempre stato qualcosa di profondo, di ponderato… per darti un’idea, il materiale di “Cerecloth” era già pronto da un anno, ma abbiamo preferito prenderci dell’ulteriore tempo per scrivere dei testi di qualità e rifinire tutto nel dettaglio. Meditare sulla propria musica è importante.
DA UN PUNTO DI STILISTICO, QUALI OBIETTIVI VI ERAVATE PREPOSTI DI RAGGIUNGERE CON “CERECLOTH”? PENSO SIA UN LAVORO MOLTO PIÙ VIOLENTO E VELENOSO DI “HARVEST” E “TÉRAS”…
– Lo credo anch’io. Nella nostra discografia ci sono lavori più atmosferici, come gli ultimi due, e altri più violenti. Per “Cerecloth” abbiamo voluto riprendere il discorso di “Pariah”, dando maggiore risalto alla rabbia e all’aggressività. Sentivamo il bisogno di scrivere un album del genere, e come detto poco fa l’onestà per noi è tutto. Sono molto soddisfatto del risultato finale, rispecchia esattamente quelli che sono i Naglfar nel 2020.
DI COSA PARLANO I NUOVI TESTI?
– I temi affrontati sono grossomodo quelli di sempre. Le lotte spirituali e i fantasmi che ogni persona cela dentro di sé. Situazioni che vanno oltre la normale quotidianità, ma con cui la gente può immedesimarsi ed entrare in sintonia. Ci ho riflettuto a lungo prima di scriverli, ma una volta cominciati li ho portati a termine in cinque ore.
LA PRODUZIONE È OTTIMA, FORSE LA MIGLIORE DELLA VOSTRA CARRIERA…
– Ricollegandomi a quanto detto prima, penso che “Cerecloth” sia un lavoro molto onesto, molto vero. Abbiamo voluto che la produzione andasse nella stessa direzione della musica, con un suono il più possibile organico e vicino alla resa live. Niente trucchi, poche sovraincisioni… un qualcosa che esaltasse le dinamiche dei brani e le nostre performance.
PER QUALE MOTIVO AVETE DECISO DI COLLABORARE CON NECROLORD SOLTANTO ORA? MOLTI GRUPPI SVEDESI SI SONO RIVOLTI A LUI PIÙ VOLTE NEL CORSO DEGLI ANNI, VOI INVECE NO…
– Credo che il motivo sia proprio quello. Non abbiamo mai voluto essere generici o scontati nelle nostre scelte. Non fraintendermi: io in primis sono un suo grandissimo fan. Con i Setherial, la mia vecchia band, ci rivolgemmo a lui per la copertina di “Endtime Divine”, ma nel caso dei Naglfar aspettavamo il momento e l’occasione giusti. Se si doveva fare, doveva essere speciale. Per “Cerecloth” sentivamo che il suo stile poteva sposarsi al vibe della musica, e così lo abbiamo coinvolto. Ha svolto un lavoro incredibile: i colori, il soggetto… a suo modo è un artwork unico, che si discosta da quanto fatto in passato per altri gruppi.
DOPO TUTTI QUESTI ANNI, COSA VI STIMOLA MAGGIORMENTE DEL PROCESSO CREATIVO?
– Cercare di scrivere buona musica. Siamo i più severi giudici di noi stessi, e comporre un brano che funziona è sempre appagante. Ci lascia ancora una bella sensazione. E poi c’è la consapevolezza dell’amicizia che ci lega. Sapere che suoniamo insieme da così tanto tempo, da quando in pratica eravamo ragazzini, ci rende orgogliosi e felici del percorso fatto. Oggi siamo cresciuti, ognuno ha la sua vita, le sue idee e il suo carattere, ma questa band continua a significare moltissimo per noi. La vita è fatta di cose importanti, e i Naglfar lo sono. Nel mio caso anche per preservare la sanità mentale (ride, ndR).
COME SPIEGATE LA NASCITA DELLA CORRENTE DEATH-BLACK SVEDESE NEI PRIMI ANNI NOVANTA? VI SENTIVATE PARTE DI UNA SCENA? CHE RICORDI AVETE DI QUEL PERIODO?
– Non ci siamo mai sentiti parte di una scena. Abitando nel nord della Svezia, non avevamo la possibilità di frequentare regolarmente i club metal di Stoccolma e di Göteborg, o di vivere quel periodo come i ragazzi di altre band. Alcuni di quei musicisti erano nostri amici, e lo sono tutt’ora, parlo di gente di Dissection, In Flames e Dark Tranquillity, ma in generale abbiamo sempre portato avanti i Naglfar in maniera indipendente e isolata, concentrandoci solo sulla loro progressione artistica. Vedo questa band come una famiglia, di conseguenza sono molto più importanti le persone che ne fanno parte del resto.
AVETE QUALCHE RIMPIANTO? PENSATE CHE AVRESTE MERITATO PIÙ SUCCESSO E VISIBILITÀ?
– No, nessun rimpianto. Non è mai stato nostro obiettivo diventare delle celebrità, o una band più amata e accessibile. Per me è sempre stato più importante entrare in contatto con persone che fossero allineate alla mia concezione di arte e di musica. Quindi no, non ho mai accostato la parola ‘rimpianto’ ai Naglfar. Credo che le cose capitino per un motivo, e tutte le scelte prese o i fatti accaduti in passato ci hanno reso i musicisti di oggi. È importante ricordarselo. Tanta gente pensa “avrei meritato questo o quello”, ma io non la vedo così. Abbiamo operato consapevolmente delle scelte per non saturarci, ed è grazie a questo che posso guardare con orgoglio alla nostra discografia.
QUAL È LA PIÙ GRANDE SODDISFAZIONE CHE AVETE RAGGIUNTO CON QUESTA BAND?
– Non lo so (ride, ndR). Credo che esprimersi sapendo di aver dato il massimo sia la più grande soddisfazione per un artista.
CI SONO GRUPPI ODIERNI CHE TROVATE PARTICOLARMENTE PROMETTENTI? SEGUITE LE NUOVE USCITE MUSICALI?
– Mi piacciono molto i Darkened Nocturn Slaughtercult, penso siano un gruppo davvero valido. Per il resto, trovo che l’odierna scena black metal punti molto più sull’immagine e sugli aspetti di contorno che sulla sostanza. Non posso dire nulla di negativo su certe band… ma neanche di positivo (ride, ndR).
VI ANDREBBE DI COMMENTARE BREVEMENTE OGNUNO DEI VOSTRI ALBUM?
– “Vittra”: un album scritto da ragazzi che non sapevano neppure suonare i loro strumenti, e che misero il 100% di loro stessi in quelle canzoni. Le nostre influenze giovanili vennero a galla come non capitò mai più in seguito. Iron Maiden, Slayer, tutta la vecchia scena heavy e thrash… penso si senta subito. Ovviamente è un lavoro molto importante per noi, il primo disco non si scorda mai.
“Diabolical”: il disco in cui abbiamo cominciato ad essere un gruppo black metal e a suonare la musica che avevamo in mente fin da subito. Molto estremo, ma anche molto onesto e sentito.
“Sheol”: penso sia un album molto ben scritto, ma al tempo stesso – almeno dal mio punto di vista – suonato con la consapevolezza che Jens, il nostro frontman originale, avrebbe lasciato di lì a poco la band per concentrarsi sui propri studi.
“Pariah”: forse il disco più importante della mia carriera. Mentre lo stavamo scrivendo lasciai i Setherial, e contemporaneamente decisi di farmi carico delle voci. Non avevo nessuna aspettativa particolare, mi impegnai soltanto al massimo per non deludere i nostri fan e fare un buon lavoro dietro il microfono. È un’opera molto arrabbiata, e sì… probabilmente anche la mia preferita.
“Harvest”: un album estremamente ben scritto e prodotto. Tornando a quello che dicevamo prima, trovo che la produzione di “Harvest” sia superiore a quella dell’ultimo. Per certi versi, si avvicina a quella di un disco metal mainstream. È sicuramente un lavoro speciale.
“Téras”: il frutto di un gruppo un po’ stanco. Prima di scriverlo eravamo stati in tour più a lungo del solito, avevamo deciso di diventare un trio e molti di noi stavano affrontando dei cambiamenti importanti. Pur ritenendolo un buon disco, credo risenta di queste circostanze.
“Cerecloth”: che dire, un vero killer-album!