Alcuni lo considerano la vetta più alta di una discografia stellare, altri l’inizio della fine di una band che ai nostri giorni ha cambiato totalmente pelle: comunque la si voglia vedere, è innegabile che “Blackwater Park” sia un album iconico, di quelli che hanno segnato un’epoca. Era il 2001 e gli Opeth avevano alle spalle già quattro opere di valore indiscutibile, ma questo disco fu una sorta di chiave di volta, che permise agli svedesi di fare il balzo definitivo e segnò un momento fondamentale nella storia del genere, trovando quella che, al tempo, sembrò essere la sintesi perfetta tra la ferocia del death metal e la complessità del prog settantiano. Otto pezzi tra i quali non c’è neanche un filler, che ancora oggi vengono spesso riproposti in sede live e che i fan della band conoscono ormai a memoria.
A distanza di vent’anni dalla sua pubblicazione, questo capolavoro è stato ristampato dalla Music For Nations (in realtà senza particolari bonus se non una versione live di “Leper Affinity” ed un libretto arricchito con commenti, aneddoti e foto), e Metalitalia.com coglie l’occasione per parlarne con il leader della band, Mikael Åkerfeldt, in una chiacchierata breve ma interessante, in cui il cantante, chitarrista e principale compositore del gruppo si dimostra un personaggio loquace ed un grande appassionato di musica a trecentosessanta gradi.
CIAO MIKAEL, INNANZITUTTO COME STAI? COM’E’ LA SITUAZIONE IN SVEZIA?
– Sto bene grazie. La situazione sta migliorando e stanno procedendo con i vaccini, ed essendo ormai vicino ai cinquanta tra poco sarà il mio turno (l’intervista è stata raccolta all’inizio di maggio, ndR). Proprio pochi minuti fa stavo scambiando qualche messaggio con JB, il cantante dei Grand Magus, e stavamo discutendo di quanto siamo vecchi (risate, ndR).
HAI DETTO CHE “BLACKWATER PARK” E’ STATO L’INIZIO PER GLI OPETH COME BAND PROFESSIONALE. COSA INTENDI? CHE DIFFERENZA C’E’ STATA TRA PRIMA E DOPO LA SUA PUBBLICAZIONE? PENSI SIA STATO UNA SORTA DI SPARTIACQUE?
– Di sicuro per noi è stato uno spartiacque, molto di più dell’album che si intitola così (spartiacque in inglese è traducibile come ‘watershed’, ndR). Per noi c’è stato un prima e un dopo “Blackwater Park”, in maniera tangibile: ai tempi avevamo un lavoro regolare oltre alla band e improvvisamente ci siamo ritrovati a guadagnare con la musica; in questo senso siamo diventati una band professionale. Prima che succedesse tutto ciò, facevamo musica senza ricevere la giusta attenzione; è vero, andavamo già in tour, ma con questo disco è come se tutto si fosse sistemato per noi. Hanno iniziato a chiamarci molto di più per suonare dal vivo, per la prima volta abbiamo avuto del management, un agente e tutti questi altri aspetti che per noi sono stati l’inizio di qualcosa completamente differente. In passato eravamo dei buoni dilettanti, in un certo senso. Amiamo la musica, e ciò non è mai cambiato, la musica sarà sempre al primo posto, ma da “Blackwater Park” in poi è stato come avere del supporto aziendale alle spalle, ad esempio un’etichetta solida, con gente che ci aiuta. Prima non era così, eravamo una specie di sognatori. Non fraintendere, la musica qui contenuta non è più professionale rispetto a qualsiasi altro nostro disco, in quanto come sempre per noi è un flusso della nostra coscienza e non ho mai scritto una canzone con lo scopo preciso di diventare famoso, ma lavorare con delle persone che hanno un’idea esatta di ciò che stanno facendo rende tutto più semplice e, per noi, ciò accadde con questo album.
PENSI CHE “BLACKWATER PARK” SIA L’ALBUM CHE MEGLIO RAPPRESENTA GLI OPETH NELLA LORO ESSENZA?
– Sai, sono passati vent’anni da allora, avevo circa venticinque anni quando stavo scrivendo quei pezzi ed ora ne ho quarantasette. Amo sentire gente che mi dice di essere cresciuta con quel disco e che ancora adesso ha un certo rapporto con esso, ma per forza di cose la mia connessione con “Blackwater Park” è differente rispetto ad allora, è mutata col tempo, perché, come ti ho detto, sono molto più vecchio, gli anni passano, la band è ora totalmente diversa. Ma lo considero sempre l’opera che ha cementato il suono degli Opeth, nella maniera in cui la gente ci conosce; molti hanno ascoltato il disco nel momento in cui è stato pubblicato e da lì hanno sempre abbinato mentalmente gli ingredienti che contiene al nostro sound: il progressive, le chitarre acustiche, le clean vocals. In questo album c’è tutto ed è per questo motivo che è così importante per me e, penso, per molte altre persone. Ma allo stesso modo non penso sia più importante di qualsiasi altro album, perlomeno a livello musicale.
SEI TUTTORA SODDISFATTO DEL RISULTATO O C’E’ QUALCOSA CHE VORRESTI MODIFICARE?
– No, non penso che cambierei niente in “Blackwater Park” o in qualsiasi altro nostro disco. Lo so che è un album popolare, ma ciò non mi fa pensare ad esso con un occhio più critico rispetto all’altro materiale che ho scritto negli anni solo per il fatto che è più conosciuto delle altre nostre opere. Per me è un’impronta nel tempo, è quello che volevamo fare vent’anni fa e siamo stati fortunati, nel senso che in quel momento molta gente era interessata a ciò che facevamo. E’ uscito nel momento giusto, quando serviva. Ed è sicuramente un grande disco ma non è qualcosa che mi fa ringraziare la mia buona stella per averlo composto, è semplicemente successo.
QUAL E’ STATO IL CONTRIBUTO DI STEVEN WILSON? IN QUALI RAPPORTI SIETE DOPO TUTTI QUESTI ANNI? TI PIACCIONO I SUOI ALBUM SOLISTI?
– Sì, amo la sua musica. E’ una persona che difenderò sempre indipendentemente da ciò che possa fare, a livello musicale o altro. Proprio qualche giorno fa mi ha inviato un messaggio invitandomi, con la mia compagna, a stare per qualche settimana nella sua casa di Londra, e probabilmente quest’estate ci andrò. Siamo sempre ottimi amici; più che una collaborazione la nostra, infatti, è un’amicizia. E’ vero che parliamo sempre di lavoro, di scrivere musica insieme, costantemente, ma c’è anche quest’altro aspetto, ancor più importante. Steven non è solo un musicista fantastico. E naturalmente il suo contributo è stato fondamentale per “Blackwater Park”, perché ci ha insegnato che potevamo fare, che potevamo sperimentare, che non avevamo ragione di aver paura. Ai tempi avevamo più di un piede nel mondo del death metal, dove ci sono regole che non dovrebbero essere infrante, se non a proprio rischio. Steven ci ha fatto capire che questo disco era nostro e di nessun altro e che avremmo potuto fare tutto ciò che avremmo voluto. Questa sua lezione ci ha spinto a sperimentare ancora di più, a sviluppare idee musicali che altrimenti avremmo accantonato e che non erano comuni vent’anni fa. Penso che “Blackwater Park” suoni diverso da ciò che veniva composto allora, ha tutta un’altra complessità.
PER IL RECORD STORE DAY AVETE INVECE OPTATO PER UNA RISTAMPA DI “MORNINGRISE”. COME MAI QUESTA SCELTA? PENSI SIA ANCORA IMPORTANTE ACQUISTARE MUSICA IN FORMATO FISICO?
– Non so perché proprio “Morningrise”, non è stata una nostra scelta diretta. E’ fondamentale che la gente acquisti ancora i dischi. Ho Spotify sul mio telefono, ovviamente è molto comodo in certe situazioni, ad esempio quando sto viaggiando. Ma ti fa ascoltare la musica in un modo diverso: mi sento irrequieto quando posso cambiare canzone ogni pochi secondi con un semplice clic, mentre non lo sono quando utilizzo un formato fisico. Penso che si affronti la musica con maggiore rispetto quando la si ascolta da un vinile o da un CD, le si dedica più tempo e molto di ciò che si trova in commercio merita questo tempo aggiuntivo, senza dubbio. E’ più facile scordarsi della musica con un mezzo come Spotify, e non mi piace quest’idea. Inoltre, quando investi dei soldi in un disco, sei invogliato ad ascoltarlo, perché lo hai pagato e vuoi essere sicuro di scoprire se ti piace o non ti piace, prima di eventualmente accantonarlo. Con la musica in formato liquido, invece, questa decisione la prendi con molta più leggerezza, e ciò non mi piace affatto. E’ come avere una visione distopica della cultura. Difenderò sempre la musica in formato fisico, e lo farei anche se non dovessi guadagnarci nulla. Anzi, ti dirò, sono appena tornato da un negozio di dischi, ero con Leif, il bassista dei Candlemass. Nella mia collezione ho anche parecchi LP di prog italiano, tra cui quelli del Banco Del Mutuo Soccorso; amo la voce del loro cantante morto qualche anno fa, di cui non ricordo il nome (Francesco Di Giacomo, ndR). Pensa che, a proposito di prog italiano, ho comprato una nuova casa ed il mio vicino è originario della Toscana, ovviamente cucina benissimo ed ho scoperto che è anche un grande collezionista di dischi, nonché un fan dei Dik Dik. Ogni giorno si scopre musica nuova, e non sarò mai stanco di acquistare nuovi LP.