OPETH – Una stilla di veleno

Pubblicato il 29/09/2019 da

Con la pubblicazione di “In Cauda Venenum”, il nuovo controverso capitolo della discografia degli Opeth, eravamo curiosi di poter avere un confronto diretto con la band, per cercare di cogliere al meglio tutte le sfumature di un album complesso, capace di alternare momenti alti ad altri meno riusciti. Questa volta la nostra controparte è Martin Mendez, il bassista della band, che si rivela un interlocutore pacato, dalle risposte essenziali, che non si fa problemi ad ammettere di non conoscere nel dettaglio tutto ciò che dipende dalle decisioni del leader Mikael Åkerfeldt, ma che al tempo stesso mostra tutta la sua passione nel rivendicare la cura e l’attenzione posta nel suo ruolo di musicista ed artista. Un punto di vista diverso, magari meno dettagliato rispetto a quello del loquace cantante/chitarrista, ma non per questo meno interessante.

 

 

MARTIN, PARTIAMO DAL PRINCIPIO: COME NASCE L’IDEA DI REGISTRARE UN NUOVO ALBUM IN UNA DOPPIA VERSIONE, SVEDESE ED INGLESE?
– Dunque, l’idea di realizzare un album in lingua svedese è stata la prima e solo successivamente si è pensato di aggiungere anche una versione inglese dell’album. La versione, per così dire, ‘originale’, dunque, è quella svedese. Personalmente la considero una grande cosa: non l’abbiamo mai fatto prima e, in generale, è sempre cosa buona provare strade nuove. Inoltre credo che la lingua svedese si adatti particolarmente all’atmosfera del disco.

QUINDI SE CONSIDERIAMO LA VERSIONE SVEDESE COME QUELLA ‘ORIGINALE’, COME È AVVENUTA LA GESTIONE DEI TESTI IN INGLESE? SI È TRATTATA DI UNA VERA E PROPRIA TRADUZIONE O I TESTI SONO MOLTO DIFFERENTI TRA LORO?
– Credo che l’idea fosse proprio quella di creare una vera e propria traduzione, tuttavia in certi passaggi Mikael è stato costretto a modificare parzialmente il testo, mantenendone il significato generale, ma scendendo a qualche compromesso, soprattutto per poter adattare le parole alle melodie. Quindi, per quanto nessuna delle canzoni sia stata modificata in maniera eccessiva, non possiamo nemmeno parlare di una pura traduzione, quanto piuttosto di un adattamento.

DAL VIVO, INVECE, COME VI MUOVERETE? DARETE PIÙ SPAZIO ALLE VERSIONI IN SVEDESE?
– Non lo so ancora, esattamente. Penso che finiremo per alternare un po’ le due versioni: ci saranno probabilmente delle canzoni in svedese ed altre inglese.

LA FRASE LATINA “IN CAUDA VENENUM” PUÒ INDICARE UNA SITUAZIONE IN CUI TUTTO SEMBRA FILARE LISCIO, QUANDO IMPROVVISAMENTE ARRIVA LA STOCCATA FINALE ‘VELENOSA’ A ROVINARE TUTTO QUANTO. TU PER COSA USERESTI QUESTA ESPRESSIONE?
– Onestamente non so dirti esattamente il motivo per cui Mikael ha voluto scegliere il titolo “In Cauda Venenum” però, cercando di rispondere alla tua domanda, penso che possa adattarsi a tante situazioni. La vita stessa a volte ha ‘il veleno nella coda’ e ti fa passare momenti difficili. Non saprei raccontarti un episodio in particolare, è semplicemente la natura delle cose.

ABBIAMO LETTO COME, INIZIALMENTE, GLI OPETH AVEVANO IN PROGRAMMA DI PRENDERSI UNA PAUSA PIÙ LUNGA, INVECE MIKAEL SI È MESSO AL LAVORO PRIMA DEL PREVISTO ED ECCOCI QUINDI QUI A PARLARE DI UN NUOVO ALBUM. COSA È SUCCESSO?
– Penso che Mikael non sia riuscito a staccarsi completamente dal processo creativo. Dopo “Sorceress”, effettivamente, l’idea era quella di fermarci per qualche tempo, invece dopo appena un mese, Mikael si era già rimesso al lavoro. Inizialmente avevamo pensato di fare una pausa un po’ più lunga del solito, tirare il fiato dopo il disco e il tour, ma immagino che sia qualcosa che non appartiene alla sua natura, non riesce a stare lontano dalla musica: dopo qualche mese aveva già buona parte del disco già pronto, lo abbiamo ascoltato e ci siamo detti, ‘al diavolo, chi se ne frega, è davvero grande, non possiamo fermarci’.

SIAMO ABITUATI A PENSARE A MIKAEL NEL SUO RUOLO DI PRINCIPALE AUTORE E COMPOSITORE NEGLI OPETH. QUAL È INVECE IL TUO CONTRIBUTO DIRETTO NELLA NASCITA DI UN NUOVO ALBUM?
– Personalmente, quando si tratta di confrontarmi con il nuovo materiale, vivo il mio ruolo all’interno degli Opeth, da sempre, come una sorta di sfida. Mikael realizza delle demo nel suo studio casalingo, dove registra da solo tutti gli strumenti: il mio lavoro, quindi, consiste nello sviluppare le linee di basso intorno all’idea originale di Mikael, in modo da crearne di migliori, che possano adattarsi perfettamente con la musica, con la batteria… È una cosa che prendo molto sul serio, perché non sono io l’autore principale, ma ho la possibilità di scrivere almeno le parti di basso e cerco sempre di fare del mio meglio per rendere ancora migliore la musica. A volte Mikael scrive delle linee di basso molto belle e in quei casi non le tocco, mi limito a riprodurle così come sono, non mi metto a cambiare le cose per il puro gusto di farlo. Al tempo stesso, però, lui non è un bassista e questo mi lascia molto spazio di manovra, per poter intervenire e dare il mio contributo. Anzi, da questo punto di vista, sono quello che gode di maggior libertà all’interno della band, potendo interpretare quello che fa Mikael in maniera differente.

TI È MAI CAPITATO DI TROVARTI IN DIFFICOLTÀ MAGGIORI PER IL FATTO DI NON ESSERE DIRETTAMENTE L’AUTORE DELLE CANZONI?
– No, questo non mi capita. Magari ci possono essere dei passaggi, all’interno della canzone, che mi risultano più difficili, semplicemente perché ognuno ha il suo stile, la sua ritmica, e non sempre è facile adattarsi all’idea originale. Questo è l’unico aspetto che rende un po’ più difficile il lavoro e necessita magari di un po’ più di tempo, ma quando entriamo in studio arriviamo estremamente preparati. Provo a lungo, per almeno un mese, tutti i giorni, per permettere alle canzoni di entrarmi dentro, di adattarsi al mio corpo, quindi quando arriva il momento di registrare, conosco le mie parti perfettamente. Però può capitare anche che in studio ci siano dei cambiamenti fatti sul momento e bisogna adattarsi velocemente a queste modifiche: devi essere sveglio e reattivo, perché non è certamente la musica più semplice da suonare. Poi questa è anche la cosa più divertente, trovarsi di punto in bianco a fare una jam in studio per cercare di trovare la soluzione migliore per un passaggio che necessita di qualche cambiamento.

LE VOSTRE COPERTINE SONO SEMPRE ESTREMAMENTE CURATE. QUELLA DEL VOSTRO ULTIMO DVD LIVE, “GARDEN OF THE TITANS”, ERA UN OMAGGIO AI DEEP PURPLE. MENTRE QUESTO HA DEI RIMANDI A KING DIAMOND. COSA PUOI DIRCI IN MERITO?
– Quello che posso dirti è che questo è davvero uno dei migliori artwork della nostra carriera. Onestamente non saprei entrare molto nel dettaglio della sua genesi, perché non ho avuto occasione di parlarne approfonditamente con Mikael. Lui è molto attento nel cercare sempre delle immagini che si adattino perfettamente a noi e alla nostra musica, però non sono in grado di dirti tutte le influenze che possono esserci nell’immagine. So solo che mi piace molto!

ALL’INTERNO DELL’ALBUM CI SONO DELLE VOCI DI BAMBINI, O GIOVANI RAGAZZE, CHE PARLANO IN SVEDESE. DI COSA SI TRATTA?
– Dunque, una delle voci è la figlia di Fredrik (Åkesson, ndR), l’altra è la figlia di Mikael. Le parti di dialogo hanno a che fare con tanti temi: Dio, la morte… È stata una cosa spontanea, non c’è un copione: sono state messe di fronte ad un microfono e sono state rivolte loro delle domande, a cui hanno risposto così, di getto. È affascinante sentire queste voci e credo che aggiungano qualcosa all’atmosfera dell’album.

INTERESSANTE, MI RICORDA UN PO’ QUANTO FATTO DAI PINK FLOYD ALL’EPOCA DI “THE DARK SIDE OF THE MOON”. PASSIAMO INVECE AL PRIMO SINGOLO SCELTO PER PRESENTARE L’ALBUM, “HJÄRTAT VET VAD HANDEN GÖR”: COME MAI AVETE OPTATO PER QUESTA CANZONE?
– Penso che sia stata fondamentalmente una scelta dell’etichetta e del management: immagino che sia stata scelta perché è uno dei brani più semplici, più immediati, almeno ad un primo ascolto. Non credo, però, che possa considerarsi la canzone più rappresentativa del sound dell’intero album: è un brano forte, potente, ma non penso che un ascoltatore possa farsi un’idea precisa dell’album ascoltando “Hjärtat Vet Vad Handen Gör”. Tu hai avuto sicuramente modo di ascoltare l’album nella sua interezza e avrai sentito come ci siano una molteplicità di stili e di caratteristiche differenti, ma questo è sicuramente un buon punto di partenza per poi andare a scoprire anche tutto il resto.

UNO DEI BRANI DI “IN CAUDA VENENUM” CHE CI HA COLPITO MAGGIORMENTE È “BANEMANNEN”. CHE NE PENSI?
– Ah, sì, la canzone in stile jazz. Per quanto mi riguarda è in assoluto una delle mie preferite. Quando ho ascoltato le demo per la prima volta, questa è la canzone che mi è rimasta più impressa nella mente: mi piace questo genere, mi piace questo stile, il sound jazz. È un brano speciale per me: non vedevo l’ora di registrarla e, soprattutto, non vedo l’ora di suonarla dal vivo. L’ho registrata utilizzando un basso degli anni Sessanta, che ha un bellissimo suono. Non so, è un brano che ha qualcosa che mi cattura e credo che si adatti perfettamente al mio stile.

UN ALTRO PEZZO PARTICOLARMENTE RIUSCITO, A NOSTRO PARERE, È “INGEN SANNING ÄR ALLAS”, CHE HA DEGLI OTTIMI ARRANGIAMENTI DI ARCHI. AVETE MAI PRESO IN CONSIDERAZIONE L’IDEA DI INSERIRE NELLA LINE-UP DEL TOUR UNA SEZIONE DI ARCHI PER RIPRODURRE DAL VIVO QUESTE PARTI?
– Onestamente mi sembra difficile: comporterebbe un dispendio di tempo e denaro notevole. Per il tour credo che opteremo per l’utilizzo di alcuni sample e delle tastiere. In futuro chissà, potrebbe anche capitare l’occasione di suonare con l’ausilio di un’orchestra, una volta l’abbiamo fatto (al teatro romano di Plovdiv, in Bulgaria ndR) ma non siamo riusciti a prepararci per questo evento come avremmo voluto. Se mai dovessimo decidere di rifarlo, faremo in modo di pianificare tutto al meglio, questa volta. Sarebbe bello, ma si tratterebbe comunque di un evento speciale, non credo che potremmo inserire una soluzione di questo tipo in un tour regolare.

IL CANTATO DI MIKAEL, IN QUESTO DISCO, SEMBRA PARTICOLARMENTE RIUSCITO: PIÙ DINAMICO RISPETTO AL PASSATO. SAPPIAMO CHE SAREBBE UNA DOMANDA PIÙ ADATTA PER LUI, MA COSA PUOI DIRCI DEL LAVORO FATTO SULLE LINEE VOCALI?
– Personalmente sono convinto che stia migliorando sempre di più come cantante, album dopo album. Mi piace molto come canta oggi, credo che abbia sviluppato uno stile più maturo; alcune linee vocali sono molto difficili da cantare, soprattutto se ti trovi a suonare anche la chitarra contemporaneamente. Credo che sia una sfida non da poco riuscire a migliorare continuamente, un passo alla volta, e sono molto molto contento del risultato finale. Ma in generale sono convinto che l’intero album sia un passo avanti rispetto al disco precedente.

TI VA INVECE DI RACCONTARCI COME TI SEI AVVICINATO AL BASSO E SE AVEVI QUALCHE MUSICISTA PREFERITO CHE TI HA ISPIRATO NEL DECIDERE DI INTRAPRENDERE LA CARRIERA DI BASSISTA?
– Ho iniziato a suonare quando avevo circa undici anni, ma non avevo esattamente un musicista come punto di riferimento. All’epoca vivevo in Uruguay e non avevo a disposizione uno stereo o un lettore CD: eravamo una famiglia piuttosto povera e tutto quello che potevo fare era ascoltare la radio. Quindi sono cresciuto ascoltando il tango o la musica folk del mio Paese. Ho iniziato a suonare il basso perché mio padre era un bassista, ma aveva smesso di suonare dopo la mia nascita. Però in casa c’era ancora il suo basso e a undici anni mi è venuta voglia di prenderlo in mano, chiedendogli di provare a mostrarmi qualcosa, quello che riusciva a ricordare. Mi sono innamorato del basso, ma ho iniziato ad ascoltare rock e metal solo più tardi, quando avevo forse tredici anni. Ricordo che quando ascoltai metal per la prima volta rimasi affascinato, ipnotizzato da questo stile musicale, però ricordo di aver avuto la sensazione che sarebbe stato impossibile per me suonare quel genere di musica. Non so perché, non avevo nemmeno idea di che aspetto avessero questi musicisti, non sapevo nulla, ma è stato un periodo felice, perché c’era tanto spazio per l’immaginazione. È stato più tardi che ho iniziato ad avere dei musicisti di riferimento, quando finalmente ho potuto comprarmi dei dischi o andare a vedere qualche concerto e non è successo fino a quando mi sono trasferito in Svezia, quando avevo ormai diciassette anni. Il primo è stato Jaco Pastorius, ricordo di averlo ascoltato e di aver pensato che fosse un cazzo di mostro. Mi sono detto, “voglio imparare a suonare come lui”, cosa che tra l’altro è praticamente impossibile. Però, ecco, le mie radici nella musica vengono proprio da quei primi anni, dal tango e dal folk e mi capita ancora di ascoltarli, li amo tutt’ora.

DAL VIVO GLI OPETH CONTINUANO AD ALTERNARE MATERIALE NUOVO A PEZZI CHE PROVENGONO DAL VOSTRO PASSATO DEATH METAL. COME MUSICISTA, QUALE MATERIALE RISULTA PIÙ STIMOLANTE PER TE?
– Devo dirti la verità, mi piace suonare entrambe le cose: amo le vecchie canzoni tanto quanto le nuove. Certo, suonare le canzoni nuove ti dà sempre una boccata d’aria fresca, perché non le hai suonate per così tanto tempo e magari sono un po’ più difficili, ma mi piace così tanto suonare dal vivo con gli Opeth che mi diverto ancora su tutte le canzoni. Non ce n’è una che mi verrebbe voglia di non suonare: ci sono canzoni come “Deliverance” o “Demon Of The Fall”, che abbiamo riproposto così tante volte, eppure mi piacciono ancora. Inoltre noi suoniamo tutto dal vivo, senza click o tracce, e questo aiuta a far sì che ogni sera possa essere leggermente diversa da quella precedente. Personalmente cerco sempre di dare un’impronta sempre diversa al mio modo di suonare: ovviamente ci sono le linee di basso che devo suonare, ma nei limiti del possibile mi capita di fare dei piccoli cambiamenti.

È INUTILE NEGARLO: CI SONO ANCORA TANTISSIMI FAN CHE CONTINUANO A SPERARE IN UN VOSTRO RITORNO A SONORITÀ DEATH METAL. QUAL È IL TUO PARERE IN MERITO? SEI CONVINTO CHE IL VOSTRO PUBBLICO DOVREBBE RASSEGNARSI E LIMITARSI AD APPREZZARE LA VOSTRA MUSICA, OPPURE PENSI CHE IN FUTURO, CHISSÀ ,QUESTO SOGNO DI MOLTI POTREBBE ANCORA AVVERARSI?
– È una domanda difficile, onestamente non lo so. Quello che posso dirti è che siamo davvero felici di quello che facciamo adesso. All’epoca di “Watershed”, quando abbiamo smesso di suonare death metal, era un periodo difficile per il gruppo. Avevamo bisogno di fare qualcosa di diverso e un album come “Heritage” è stata la salvezza della band, davvero. Se avessimo fatto un altro album death metal allora, forse oggi non saremmo qui a parlare. Quindi per me si è semplicemente trattato di una naturale evoluzione e ci troviamo bene. Però non si può mai sapere con una band come la nostra. Al momento siamo interessati ad esplorare nuovi territori, facendo cose differenti: tornare a suonare death metal non avrebbe nulla a che fare con questa idea di sperimentazione. Ma non si sa mai, se dovessimo trovare un nuovo modo di intendere il death metal, perché no?

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