ORANSSI PAZUZU – Paesaggi sonori in libertà

Pubblicato il 28/10/2024 da

Abbiamo recensito qualche settimana fa “Muuntautuja”, il ritorno discografico di una delle band, a nostro parere, più interessanti e innovative in ambito estremo – sempre che la definizione possa ancora valere per gli Oranssi Pazuzu: dei veri e propri esploratori sonori, come ci ha detto testualmente il cantante e chitarrista Jun-His nel corso dell’intervista qui sotto.
Il disco è molto particolare, sicuramente segna un momento di passaggio e di rottura all’interno di una discografia mai statica, ma che qui assume degli inediti caratteri minimalisti, cinematografici, insomma fuori dagli schemi stessi della band finlandese.
In attesa della loro calata in Italia a dicembre, non abbiamo perso l’occasione per una chiacchierata, nella quale abbiamo scavato a fondo nel metodo di composizione e nelle intenzioni di questa geniale combo di musicisti. 

CIAO JUHO, PARTO OVVIAMENTE CHIEDENDOTI DEL NUOVO ALBUM. “MUUNTAUTUJA”, CHE POSSIAMO TRADURRE COME ‘CAMBIAMENTO DI FORMA’, O ‘MUTAFORMA’.
PENSO CHE SIA DAVVERO UN TITOLO CORRETTO, PERCHÉ È UN DISCO PESANTE  E CUPO, COME DA PRASSI, MA HO TROVATO ALCUNI ELEMENTI PECULIARI, IN PARTICOLARE QUANTO A RICERCA SUL RUMORE. E POI LA VOSTRA COMPONENTE “DARK” MI PARE DIVENTATA PIÙ INTENSA.
QUAL È IL TUO PUNTO DI VISTA SUI VOSTRI NUOVI BRANI?
– Se vogliamo partire dal titolo, è arrivato abbastanza presto nella fase di registrazione. E ci è sembrato una bella scelta, perché penso che descriva la band a molti livelli.
Descrive il nostro stesso progresso, credo, il continuo cambiamento di forma, e penso che descriva anche il modo in cui, sul disco, i suoni compaiono, scompaiono e cambiano, trasformandosi in qualcosa di nuovo. Quindi penso che ci siano parecchi elementi validi per la nostra scelta.
E poi ci sono alcuni temi lirici che a loro volta vanno e vengono, seguono anche loro questo lento spostamento verso qualcosa.

VORRESTI APPROFONDIRE MAGGIORMENTE IL TEMA DEI TESTI, IN PARTICOLARE QUELLI DI UN PAIO DI BRANI? ANCHE SE SO CHE NON TI OCCUPI DIRETTAMENTE TU DI SCRIVERLI.
– Esattamente, anche se cantandoli qualcosa posso provare a dirtelo, o almeno ho provato a dare una mia interpretazione, mi piace affrontarli così.
A volte discutiamo con Ontto, il nostro bassista e paroliere, di cosa parla la canzone, ma non così spesso: è piuttosto interessante dare la mia interpretazione di ciò che lui intende nei testi, anche se a volte significa che restano criptici anche per me. Altre volte riesco a trovare più livelli. Quali sono le canzoni di cui vorresti sapere qualcosa in più?

LA PRIMA È “HAUTATUULI”, CHE MI HA COLPITO PER LA SUA ATMOSFERA COSÌ RAREFATTA, E PERCHÉ MI HA FATTO SCATTARE DELLE SENSAZIONI MOLTO OSCURE.
– Il titolo significa ‘brezza di tomba’, quindi direi che è una riflessione sulla morte, intesa come concetto. Cosa significa per un essere umano giungere a quello stadio? Credo che sia un pensiero che ha un significato personale per ciascuno.
Anche se sei ateo, come lo sono io stesso, è chiaro che avviene un cambiamento. Ma il tuo ego non è più coinvolto nel cambiamento quando muori, è solo l’ego, appunto, che ti spinge a pensarci: anche se ciò di cui sei costituito continua a persistere, non sei tu che cambi.
E mi piace anche riflettere su un altro aspetto: te ne sarai andato realmente andato, dopo? Oppure assume significato per ciascuno di noi l’idea che rimanga una parte di te? Ma, come ho detto, non credo che rimanga alcuna parte della tua coscienza.
E ancora: quelle parti che restano, o potrebbero rimanere, sono le peggiori, o le migliori? O siamo semplicemente così innamorati delle nostre idee, della nostra coscienza e del nostro ego da pensare che tutto sia finito quando ce ne andiamo? Forse, per Ontto, che appunto ha scritto i testi, c’era un significato diverso, può essere.

È AFFASCINANTE, PERCHÉ IN QUALCHE MODO OFFRI GIÀ AUTOMATICAMENTE UNA DIVERSA RAPPRESENTAZIONE DI CIÒ CHE SONO O POSSONO ESSERE GLI ORANSSI PAZUZU.
– Sì. Come detto, a volte, quando discutiamo di queste cose, abbiamo la stessa interpretazione.
In altre occasioni sono completamente diverse, ma in questo caso non ci sono dubbi sulla parte relativa alla morte; sul resto, possono esserci significati diversi per me, per Ontto e si spera anche per coloro che ascoltano il disco e comprendono il testo.

PENSAVO DI AVER COLTO L’ARGOMENTO PRINCIPALE, IN EFFETTI, MA ERO CURIOSO PERCHÉ SIETE UNA DELLE RARE BAND METAL ESTREME CHE NON SI CONCENTRANO MAI SULLA MORTE O COSE SIMILI. QUINDI MI ASPETTAVO UNA SORTA DI RIFLESSIONE FILOSOFICA SUL TEMA.
PASSANDO A PARLARE DELLE SONORITÀ DEL DISCO, HO NOTATO UN CRESCENTE LATO PIÙ LENTO E RITUALE: ERA DA SEMPRE PRESENTE, MA QUI SI FA STRADA CON PIÙ FORZA E MI HA RICORDATO IL LAVORO CHE AVETE FATTO CON LA WASTE OF SPACE ORCHESTRA.
– Abbiamo provato a fare qualcosa di cui parlavamo da molto tempo, dando un approccio più astratto al songwriting, in modo da avere… come dire? Meno informazioni di partenza.
Un paesaggio sonoro in cui trovare dei dettagli in progressivo cambiamento, e in un certo senso puoi dare la tua interpretazione di questi cambiamenti e dei movimenti che la canzone compie, quindi penso che sia abbastanza minimalista, in qualche modo. Ma al tempo stesso c’è un enorme turbinio di cose. Cose semplici, altre piuttosto opprimenti e così via; volevamo che l’ascoltatore dovesse ‘cercare’ i riff e le melodie: non che siano necessariamente nascosti, ma fanno parte del paesaggio sonoro e della struttura sonora.
Volevamo che questo album fosse in un certo senso come una colonna sonora, dove il sound design prende il sopravvento. Canzoni che fluttuano, con le quali lasci che l’atmosfera ti risucchi, cercando di dare un senso alle cose intorno a te. In questo senso c’è una forte componente astratta, che speriamo ti porti in altri posti, che sviluppi nella tua testa pensieri filosofici durante l’ascolto. Ecco, abbiamo provato a fare qualcosa del genere.

LA SENSAZIONE È QUELLA, IN EFFETTI. LE CANZONI SONO DECISAMENTE PIÙ BREVI, MINIMALI. MA QUALCOSA POI INIZIA A RISUONARE: MI CI SONO VOLUTI TRE O QUATTRO ASCOLTI COMPLETI PER PERCEPIRE QUELLO CHE MI HAI APPENA DESCRITTO.
QUINDI C’È STATO UN NETTO CAMBIAMENTO NEL PROCESSO DI COMPOSIZIONE O È STATO SEMPLICEMENTE IL MODO IN CUI QUESTE CANZONI SONO VENUTE FUORI?

– In realtà abbiamo iniziato a lavorare su questo album subito dopo il precedente, ma poi abbiamo avuto una pausa piuttosto lunga perché abbiamo fatto parecchi live dopo che la questione del Covid si è risolta. Quindi tornare alle canzoni dopo aver fatto qualcosa come – credo – sessanta concerti ha dato ai brani un’impronta  diversa.
Avevamo già voglia di adottare questo diverso approccio, andando in studio più volte in modo che la prima volta potessimo semplicemente registrare alcune piccole idee, delle jam, e poi lavorarci sopra a casa e creare una specie di scultura, usando quindi lo studio quasi come uno strumento, piuttosto che semplicemente per registrare: man mano che avevamo dettagli pronti, abbiamo fatto dello studio un ‘ascoltatore’, lavorando anche in maniera ‘old-school’, per così dire.
La band ha suonato tutta assieme, ma poi abbiamo manipolato, mutilato e tagliato in varia forma quello che avevamo: ci piace essere molto fantasiosi, da questo punto di vista. Ma anche intuitivi e reattivi, usando qualsiasi strumento a seconda del momento e del bisogno.
Ecco, diciamo che non abbiamo voluto lavorare con l’idea di ‘premi click, vai e registra’: c’è tanto lavoro in studio e di riflessione, ma il risultato è che sembra stessimo suonando dal vivo, improvvisando. E questo è qualcosa di molto peculiare nel suono degli Oranssi Pazuzu.

QUINDI AVETE CAMBIATO DI NUOVO PELLE. MI HAI GIÀ DETTO NELLA PRECEDENTE INTERVISTA CHE NON IDENTIFICHI PROPRIAMENTE LA TUA MUSICA COME BLACK METAL O CHE È SOLO UNA PARTE DEL VOSTRO SUOND, QUALCOSA IN CUI AFFONDATE LE VOSTRE RADICI. COME DESCRIVERESTI GLI ORANSSI PAZUZU OGGI, A UN ASCOLTATORE NUOVO MA CURIOSO?
– È davvero difficile pensare a una definizione del nostro genere, penso che sia più facile per le altre persone etichettarci. Pensa a quando una persona dice “mi piace la musica pop”: per qualcuno significa Beatles, per qualcun altro qualcosa di totalmente diverso.
Voglio dire, penso che quel tipo di etichette siano abbastanza difficili da definire, almeno per me. Quello che penso, e credo di averlo già detto in qualche altra intervista,  è che il nostro stato mentale è quello di esploratori della musica degli anni ’60 e ’70, quando ogni tecnologia e tutto il materiale con cui si lavorava erano nuovi di zecca e, tornando all’esempio dei Beatles, dovevi costruirti materialmente qualcosa di nuovo per realizzare alcune delle cose che facevano loro.
Oppure pensa ad alcuni esperimenti sui sintetizzatori. È davvero un’esplorazione musicale, le band del tempo hanno assunto molti rischi nella loro musica, è stata una specie di rivoluzione della mente e di quanto ulteriormente puoi espanderla, cosa puoi fare nell’arte e quanto lontano puoi arrivare. Quindi penso che ciò a cui ci sentiamo connessi sia quel tipo di stato mentale.
Certo, la nostra è un’esplorazione dell’arte in un regno più oscuro, ma penso che sia la definizione più vicina a quello che facciamo. Forse la differenza, parlando dei miei gusti musicali, sta tra la vera esplorazione e le band che vogliono semplicemente essere progressive nel senso di pura complessità, di costruire una struttura invece di esplorare.

Penso che le cose che mi entusiasmano di più nella musica siano proprio quelle in ambito di jazz astratto, o la musica astratta per pianoforte, dove sembra che il compositore stia allo stesso tempo improvvisando e pescando idee da più lontano di quanto pensasse inizialmente.
È bello quando può succedere qualcosa di sorprendente, specialmente quando giochi con più persone nella stessa stanza, a volte le cose prendono una piega che non hai stabilito, a prescindere  se componi tu il riff o qualcun altro. Può succedere qualcosa che lo porta a un livello più astratto, che non avevi in mente: penso che questo sia ciò che amo del suonare in una band, in generale, quanto possa essere sorprendente dove vanno le composizioni e dove finiscono. E penso che abbia proprio a che fare con più menti che fanno rimbalzare le idee.
Non penso che una persona possa sempre inventare qualcosa, nell’arte o in ambiti più seri. Ma è per questo che mi interessa anche quello che ho detto a proposito del pianoforte, dove una persona, in un certo senso, lo suona con la propria mente e fa rimbalzare le proprie idee continuamente.
In una band hai sempre più menti che si incontrano, e ovviamente può essere anche difficile; a noi va bene, dopo quasi vent’anni di lavoro assieme. E credo che anche se siamo d’accordo su molte cose, il segreto sia proprio essere in disaccordo su altre: a volte le diverse interpretazioni portano a cose inaspettate, o a una combinazione di più cose. E penso anche che attraverso quel tipo di progresso, in cui cerchi anche di slegarti dal tuo ego e di lavorare semplicemente insieme sul materiale, puoi in un certo senso elaborare pensieri davvero unici e stratificati. Senza che il confronto porti a una discussione, o a uno scontro.

NO, SICURAMENTE. PRIMA HAI USATO L’ESPRESSIONE COLONNA SONORA E L’ULTIMO BRANO DEL DISCO “VIERIVÄ USVA”, MI HA DATO PROPRIO LA SENSAZIONE DI UNA PURA SOUNDTRACK HORROR.  PENSI CHE SIA UN ALTRO PASSO AVANTI NELLA VOSTRA MUSICA? STATE PENSANDO A UNA NUOVA DIREZIONE?
– Chi lo sa? Penso che in realtà ci siamo resi conto solo pochi mesi fa che, a partire da “Värähtelijä”, l’ultima canzone di ogni album inizia l’esplorazione di ciò che siamo andati a fare nel disco successivo. E infatti l’ultimo brano di “Mestarin Kynsi”, ossia “Taivaan portti”, è la canzone più caotica che avessimo mai scritto: abbiamo pensato che fosse naturale continuare la ricerca in quella direzione. Il nuovo album apre con puro noise ed è in generale molto rumoroso.
Non ci abbiamo mai pensato consciamente, ma ho appena realizzato che in realtà è stato così.

QUINDI FORSE POSSIAMO ASPETTARCI UNA COLONNA SONORA PER UN FILM, IN FUTURO?
Sarebbe divertente da fare, sì.

ABBIAMO GIÀ ACCENNATO AL FATTO CHE SUONI CON ALTRE BAND, E NON POSSO EVITARE UNA DOMANDA SUI GRAVE PLEASURES. ANCHE PERCHÉ IN QUESTO ALBUM HO NOTATO DEI PICCOLI ELEMENTI POST-PUNK, SIA IN ALCUNI RIFF, CHE SOPRATTUTTO SULLE LINEE DI BASSO.
– È come se ci siano sempre state due facce di una moneta, in particolare con Grave Pleasures e Oranssi Pazuzu, ma più invecchi e più lavori con entrambe le band, scrivi album e suoni dal vivo e più smetti di preoccuparti e di chiederti: per chi sto componendo?
Sempre più spesso è come se iniziassi a suonare qualcosa e non sapessi ancora per quale band sto componendo, ma poi a un certo punto mi dico, “sì sicuramente è una canzone dei Grave Pleasures (o dei Pazuzu)”. Poi le cose fanno passi avanti, inizi a pensare alla produzione e a cose del genere. Ma nel caso degli Oranssi Pazuzu, è bello perché tutte le canzoni di solito cambiano un po’ dopo aver inserito i riff.
In questo senso, non mi piace nemmeno preoccuparmene troppo se sia il materiale giusto per l’una o l’latra band, perché tanto negli Oranssi Pazuzu tutti portiamo un sacco di cose che non necessariamente vanno da nessuna parte, ma da cui tutti impariamo e sviluppiamo sempre qualcosa.

Voglio dire, io ascolto musica di ogni genere, dagli anni Settanta ai Novanta, ad altri piace musica più pop e così via. Quando lavori in questo modo ti si sviluppa un approccio mentale differente. Se scrivi pezzi pop, procedi all’interno di un certo schema, aggiungendo qualcosa di selvaggio, di fantasioso nel paesaggio sonoro, ma quando componi qualcosa di più astratto, non ci sono regole su come costruire la canzone. So che non ci sono regole fisse nemmeno nella musica pop, ma in quell’ambito mi piace riscontrare una tradizione. Penso che le tradizioni siano interessanti, nella musica, perché risalgono anche a migliaia di anni fa.
Purtroppo, non sappiamo esattamente che tipo di musica suonassero,  non so, nell’Europa centrale di tremila anni fa, ma sono sicuro che ci siano tuttora alcuni elementi simili: è una tradizione in cui si continua il lavoro delle generazioni passate. È qualcosa a cui sono davvero interessato, in termini di struttura pop. La stessa cosa vale anche con le composizioni più astratte, ma è davvero difficile individuare cosa sia connaturato al genere o proceda dalle generazioni passate. Forse, nella musica astratta, contano più i suoni in sé e il modo in cui il tipo di suono agisce su di te quando lo ascolti. È la stessa cosa di quando senti i suoni della foresta o qualcosa del genere, i suoni ti trasportano in una certa atmosfera.
A quel punto puoi iniziare a piegare i concetti dietro le note e i ritmi e ricavarne un ritmo. Quindi penso che queste siano solo due facce della medaglia molto diverse per me, nel modo in cui costruire una canzone o un album, o come trasformarlo in arte.

E QUINDI SE, SEMPLIFICANDO, I GRAVE PLEASURES SONO IL TUO LATO POP E GLI ORANSSI PAZUZU IL TUO LATO ASTRATTO, COME DEFINIRESTI GLI HAUNTED PLASMA?
– Penso stiano da qualche parte nel mezzo, in realtà, dove provo a combinare le due cose.  Sono anche loro molto krautrock nelle radici, perché  il krautrock, per me, è come ambientarsi in qualcosa, senza fretta, come se potessi semplicemente guardarti intorno all’interno di un paesaggio sonoro; un paesaggio sicuramente più in stile Oranssi Pazuzu, all’interno del quale cerco di capire come funzioni quel mondo, che tipo di mondo sia.
E poi ci sono aspetti melodici, più orientati al lato pop, e quel tipo di approccio di cui ti dicevo prima che prende piede. È qualcosa che definisco con difficoltà, ma direi che sta nel mezzo tra le altre due band.

L’ULTIMA DOMANDA RIGUARDA IL TOUR CHE STATE PER AFFRONTARE CON SOLSTAFIR E HELGA, UNA SQUADRA PIUTTOSTO PECULIARE…
– Una delle idee era di proporre una serata con musica variegata, e oltretutto ci affidiamo alla stessa agenzia di booking. Non abbiamo mai fatto un tour come band di supporto, ma ci è sembrata una scelta abbastanza naturale; mi piace anche l’idea che tutte le band non siano di madrelingua inglese e cantino in modo particolare.
Per noi è una buona opportunità per avere un pubblico un po’ diverso, e poi penso che sia interessante toccare molti posti in cui non siamo mai stati prima.

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