PAIN OF SALVATION – Questione di prospettive

Pubblicato il 17/09/2020 da

Sentirsi fuori tono, lontani dai canoni imperanti, cosiddetti ‘pesci fuor d’acqua’, in un ambiente che non sentiamo nostro e che ci mette in soggezione, ci fa sentire inferiori, spaesati quando va bene, mortificati e abbattuti quando va male. Il sapere di essere in contrasto con le norme, le abitudini, il modo di pensare, l’essere dei ‘diversi’, è il concetto cardine su cui ruota l’ultimo album dei Pain Of Salvation, “Panther”. Le pantere, ovvero coloro che stanno al di fuori dalle norme vigenti, contrapposte ai cani, la popolazione prevalente, quella che redige le regole e pensa che tutti vi si debbano adeguare. Nell’intervista con il vulcanico mastermind della band svedese Daniel Gildenlöw si vanno a toccare vari aspetti del concetto di diversità, un’idea a cui il musicista nordico tiene molto, una diversità che la sua band ha sempre avuto e ha contribuito a farne una delle realtà cardine del prog metal moderno. “Panther”, nelle sue sperimentazioni e voglie di introdurre elementi inediti, porta avanti con successo il discorso cominciato con “Entropia”, segnalando che la vena creativa del gruppo, nonostante tutte le difficoltà incontrate e la mutevolezza del mondo musicale, è ancora ben lontana dall’esaurirsi…


IL VOSTRO NUOVO DISCO, “PANTHER”, SI CONCENTRA SULL’ANTITESI FRA COLORO CHE RAPPRESENTANO LA NORMA, ‘I CANI’, E COLORO CHE LE SONO ESTRANEI, STANNO AI MARGINI, IDENTIFICATI COME ‘LE PANTERE’. PERCHÉ HAI PENSATO A QUESTO CONFRONTO COME IL TEMA CARDINE DELL’ALBUM E PERCHÉ HAI SCELTO PROPRIO DI UTILIZZARE LA PANTERA, COME ANIMALE SIMBOLO DI COLORO CHE SI SENTONO DIVERSI E FUORI DALLA MASSA?
– Penso di aver avuto una fissazione per le pantere da quando ero un ragazzino, o perlomeno da quando ho diciotto/diciannove anni. Mi affascinavano quelli che, nella mia mente, erano identificati come dei gatti molto grossi, che vivevano in un ambiente affascinante: la giungla, ampi spazi naturali, il verde, i corsi d’acqua… Solo che quando mi è successo di ammirarne una, le ho viste in uno zoo, rinchiuse in uno spazio ristretto e quegli occhi mi guardavano, facendo emergere tutto il desiderio di ribellione dell’animale. Sono creature forti le pantere, forti e assieme fragili. Quelle volte che ho incrociato lo sguardo con una di esse, separati soltanto da un vetro, mi sono reso conto di quanto potere detenessimo noi come essere umani, per riuscire a tenere in cattività un animale simile.
Poi mi sono domandato: in un altro ambiente, quali sarebbero i rapporti di forza? Chi avrebbe il vero potere? Così ho iniziato a riflettere su come, a seconda delle circostanze, dell’ambiente in cui ci si trovi, cambino radicalmente i rapporti di forza fra gli esseri viventi, così come può accadere tra le persone. Il contesto fa la differenza. La cosiddetta normalità è il contesto in cui ci troviamo, essere sintonizzati con essa, essere funzionali rispetto al contesto o disfunzionali, dipende in buona sostanza dalle regole del gioco, da quello che è considerato desiderabile in una determinata cultura, in un certo sistema valoriale. Essere a proprio agio o sentirsi fuori posto dipende dalle regole che governano il sistema in cui siamo immersi.
La pantera diventa allora il simbolo di una creatura con grandi possibilità, qualità enormi, che se viene inserita in un mondo che le è totalmente estraneo, se viene privata dei suoi spazi, viene completamente impoverita, è disfunzionale rispetto a ciò che la circonda. È qualcosa che può succedere di provare un po’ a tutti noi, ‘essere pantere in un mondo di cani’.

FAI RIFERIMENTO A QUALCHE TUA ESPERIENZA PERSONALE IN MATERIA, PER DESCRIVERE QUESTO DUALISMO, QUESTO ESSERE IN SINTONIA COL SISTEMA O, AL CONTRARIO, TOTALMENTE DISALLINEATI RISPETTO AD ESSO?
– Sul tema funzionalità/disfunzionalità rispetto a un ecosistema, guardo spesso a cosa accade a scuola e alla mia esperienza nell’insegnamento. Spesso, in base a criteri fin troppo stringenti, all’età di otto/nove anni un bambino viene considerato problematico, con qualche difficoltà di relazione con gli altri, solo perché è diverso da quello che ci si aspetta da un bambino di quella età. Magari, ha delle doti notevoli sotto altri punti di vista, ma vengono trascurate. Così mi era venuta in mente la metafora delle automobili, per spiegare questo concetto. Pensa alla differenza che intercorre tra una Fiat 500 e una Ferrari di Formula 1. Ogni macchina lavora benissimo per l’uso per cui è stata progettata. Una city car avrà una performance orribile su un circuito automobilistico. Lo stesso accadrebbe se mettessi un’autovettura di Formula 1 a girare nel traffico cittadino. Anche se sei una Formula 1, quindi, se devi ‘girare’ in un luogo dove non puoi esprimerti al meglio, finirai per sentirti uno schifo, ad avere disistima per te stesso. Spesso, viviamo in comunità con regole rigide e, ritornando alla metafora motoristica, dalle strade molto strette, dove è difficoltoso andare ad alte velocità. Paradossalmente, e questo sarebbe un bene, siamo in una società dove è si è sempre più consapevoli della necessità di essere tolleranti, di capire chi è diverso, di comprendere le ragioni di chi ha un modo di vivere e opinioni differenti dalla nostra. Questo su un lato teorico. Nella realtà, purtroppo, si arriva troppo frettolosamente a bollare come ‘diverso e ‘fuori norma’ un individuo.

PASSANDO AL LATO MUSICALE DI “PANTHER”, NELLE NOTE BIOGRAFICHE PARLI DI UN TUO BISOGNO DI SPERIMENTARE, DI ANDARE VERSO SUONI CHE DI SOLITO NON MANEGGI COI PAIN OF SALVATION. IN EFFETTI, NELL’ALBUM CI SONO SONORITÀ INCONSUETE PER VOI, SOPRATTUTTO NELLA PRIMA PARTE DELL’ALBUM, DOVE C’È MOLTA ELETTRONICA. VOLEVO SAPERE QUALI FOSSERO STATI I VOSTRI PRINCIPALI RIFERIMENTI PER L’ELETTRONICA PRESENTE IN “PANTHER”.
– Le influenze per questi suoni sono arrivate da tante direzioni diverse, aventi per denominatore la nostra necessità di creare dei contrasti, un qualcosa che penso si sia amplificato in “Panther” rispetto a tutti i nostri dischi passati. Oggigiorno, avere questo tipo di contrasti è facilitato, puoi sperimentare moltissimo coi suoni. Credo che comunque sia rimasto un buon bilanciamento tra vari aspetti: c’è conflittualità e dialogo, come puoi sentire che batte forte un suono rock caldo e passionale, che non spegne quei suoni più freddi e tendenti al perfezionismo. Mi piace quando prendi suoni ‘perfetti’ e fai in modo che si sporcano, che emergano le loro imperfezioni. Non amo le note perfette, troppo precise.
Un aspetto che adoro della musica, è quando introduci un certo elemento e finisci per dargli una sfumatura inattesa, distorta rispetto a quello che si aspetterebbe, come per i synth ad esempio. Distorcere un suono, renderlo imperfetto, è qualcosa che trovo sempre molto attraente. È un modo di lavorare che ritengo possa tradurre l’eterna battaglia tra passionalità e calcolo vissuta da ognuno nella vita di tutti i giorni. Ed è anche da questo punto di vista un’estensione di “In The Passing Light Of Day”. Infatti, il modo in cui utilizziamo le tastiere adesso possiamo farlo risalire a quanto senti in “Full Throttle Tribe”, proprio dal precedente album. È lì, che puoi sentire quanto ti spiegavo via, il suonare la ‘melodia sbagliata’, suonare uno strumento in un modo opposto a quelli che ci si attende. È divertente prendere uno strumento e impiegarlo in una modalità per cui non è stato concepito.

RIGUARDO IN PARTICOLARE ALLE PRIME DUE CANZONI IN TRACKLIST, “ACCELERATOR” E “UNFUTURE”, HO COLTO DEGLI INVOLONTARI RIMANDI A UNA PIETRA MILIARE DEI QUEENSRŸCHE, “RAGE FOR ORDER”. COSA NE PENSI DI QUESTO PARAGONE CON UN ALBUM PIUTTOSTO DATATO, MA CHE ALL’EPOCA ERA PROIETTATO MOLTO PIÙ AVANTI DELL’EPOCA IN CUI ERA STATO COMPOSTO?
– Non ho mai pensato a un accostamento simile per “Panther”. La mia canzone preferita di quel disco è “Screaming In Digital”, che è la canzone più progressive che hanno scritto i Queensrÿche, secondo me. Come mi è sempre piaciuta moltissimo la loro cover di “Gonna Get Close To You”, che ritengo anche più brillante dell’originale. Una composizione che mi ha ispirato molto per alcuni suoni di “Panther” è colonna sonora di “La Guerra dei Mondi” a firma Jeff Wayne, è un artista che mi ha segnato nel profondo nel modo di interpretare la musica. Oppure “Revolver” dei Beatles. In generale, tutti coloro che ai loro tempi hanno spostato i limiti più lontano, in quello che veniva comunemente inteso un certo ambito musicale e i confini che gli venivano assegnati, finiscono per attrarre il mio interesse. In un discorso ancora più ampio, sono fermamente convinto che la musica debba originarsi da un’ardente passione, un bisogno, anche dalla frustrazione se vogliamo, da qualcosa di genuino che hai dentro di te. Per frustrazione, intendo che percepisci la necessità di tirare fuori qualcosa dall’interno e farlo conoscere agli altri, esprimerlo nel linguaggio che padroneggi meglio. Ci possono essere conflitti interiori, desideri, oppure necessità di parlare di qualcosa di socialmente e culturalmente rilevante, a muoverti nello scrivere nuova musica.
Nel mio caso, questo stato di necessità espressiva è stato ed è tutt’ora soddisfatto dal metal e dal prog metal in particolare. Ho sempre voluto, attraverso il metal, viaggiare in qualche luogo sconosciuto. La volontà di esplorare non si è sopita, mi è rimasta addosso, per questo in “Panther” abbiamo provato a inserire elementi inediti per il sound dei Pain Of Salvation. Le basi sono le stesse di sempre, le fondamenta possono risalire indietro nel tempo, agli anni ’80, ’90, ma non può mancare una componente esplorativa. Sai, alcuni oggi potrebbero pensare che stiamo andando nella direzione sbagliata, ma magari tra dieci anni vedranno il suono di “Panther” come la norma, qualcosa di ‘classico’…

IN DIVERSE CANZONI DELL’ULTIMO ALBUM, PENSO IN PARTICOLARE A “PANTHER” E “RESTLESS BOY”, VI È UNA STRUTTURA ATIPICA DEI PEZZI. QUESTI PAIONO COME RIMANERE IN SOSPESO QUANDO TERMINANO, COME SE CI FOSSE UNA MIRATA VOLONTÀ DI NON GIUNGERE A UNA VERA E PROPRIA CHIUSURA. COME SE FOSSE NECESSARIO LASCIARE IL DISCORSO A METÀ, INCOMPLETO. QUESTO ‘RESTARE IN SOSPESO’ È EFFETTIVAMENTE VOLUTO, O CI SI È ARRIVATI QUASI SENZA ACCORGERSENE?
– Non sono abituato a indirizzare un brano in modo calcolato, pianificando prima come si dovrebbe svolgere. Nel caso di “Restless Boy”, ho sentito che a quel punto bastava così, doveva finire in quella maniera, non ci dovevo aggiungere null’altro. Le due canzoni citate sono tra le mie preferite, è un buon segno che dopo tre anni di lavorazione mi rimangano impresse queste due tracce, significa che pur durando poco sono riuscito a dire con esse qualcosa di significativo, destinato a rimanere. Soprattutto “Restless Boy” mi ha stupito, non pensavo, a inizio lavorazione, potesse diventar così importante per me. Credo che le canzoni vadano prese per quelle che sono, senza chiedersi che cosa ci si sarebbe dovuto aspettare da esse, come si sarebbero potute evolvere. Se ascolti bene i nostri dischi, a partire dal secondo album ci sono diverse canzoni che sfuggono a una strutturazione tradizionale, in questi casi è inutile cercare dove stia il cuore del brano, il suo punto centrale, perché non c’è. Mi piace vedere quello che suoniamo come delle piccole storie, dei viaggi, possono diverse forme, cambiare sfumature.
Se considero qual è la musica che mi è rimasta dentro, che mi ha toccato nel profondo, è quasi sempre materiale camaleontico, mutevole, che può prendere, appunto, forme molto differenti, non avere delle sembianze univoche e facilmente inquadrabili. Ad esempio, negli ultimi tempi sto ascoltando l’ultimo album di Leonard Cohen, quello che ha scritto poco prima di morire, “Thanks For The Dance”. Le mie due canzoni preferite del disco hanno schemi poco definiti, non c’è un chorus a cui ruota attorno tutto il resto. Almeno, non i chorus come possiamo di solito intenderli. Eppure rappresentano le parti secondo me più consistenti dell’album, quelle che meglio lo contraddistinguono, che mi hanno tenuto compagnia più a lungo nella mente. Un altro esempio che ti posso fare da questo punto di vista è il tema principale di “Per Un Pugno Di Dollari”, scritto da Ennio Morricone. È così breve, vorresti che il crescendo non terminasse mai, o almeno che quel brano durasse il doppio di quello che dura in realtà. Eppure, in fondo sono contento che non vada avanti un secondo oltre, è così che dovrebbe essere, è perfetto. Se fosse lungo il doppio, non avrebbe lo stesso impatto.

NELLA LORO ETEROGENEITÀ, CREDO CHE LE CANZONI DI “PANTHER” SI POSSANO DIVIDERE FRA QUELLE TESE ALLA SPERIMENTAZIONE, COME “ACCELERATOR”, “FUTURE”, LA TITLETRACK, E ALTRE DAI SUONI PIÙ FAMIGLIARI E PIÙ VICINE ALLE COSE DEL PASSATO. NEI SINGOLI AVETE PRIVILEGIATO LE PRIME, DISPOSTE TENDENZIALMENTE NELLA PRIMA METÀ DEL DISCO. POSSO CHIEDERTI IL PERCHÉ DI QUESTA DISPOSIZIONE DEI PEZZI E COME SEGUONO L’EVOLUZIONE DELLE LIRICHE?
– Dal mio punto di vista non c’è tutto questo stacco fra i singoli brani, anche una “Unfuture” la interpreto come una tipica canzone dei Pain Of Salvation. È vero, sperimentiamo tanto all’interno della nostra musica, ma all’interno di una continuità stilistica. L’ordine della tracklist è qualcosa a cui pensiamo alla fine di tutto il processo compositivo, di solito non impieghiamo più di un paio d’ore per definirlo. Cerchiamo di disporre le tracce per avere un flusso coerente e di musica e testi, affinché il racconto fili perfettamente senza alcun intoppo. Dobbiamo evitare contraddizioni, intoppi nell’ascolto. Mentre non c’è una ragione precisa per cui canzoni che ritieni più ‘sperimentali’ siano all’inizio mentre altre che interpreti come più ‘classiche’ per il nostro stile arrivino dopo. Per me è solo musica, non saprei come spiegartelo diversamente (risate, ndR).

SE TU DOVESSI FARE UN PARAGONE TRA “PANTHER” E GLI ALTRI VOSTRI ALBUM, QUALE SAREBBE QUELLO CHE PIÙ GLI ASSOMIGLIA?– Dipende dai brani. “Species”, ad esempio, potrebbe addirittura arrivare dai nostri primi album, da “Entropia” o “One Hour By The Concrete Lake”. Se penso invece al processo compositivo nella sua globalità, ti farei un accostamento con “Remedy Lane”. Come in quel caso, mi sono occupato della scrittura quasi per intero, con pochi contributi esterni. Devo dire che mi approccio a ogni album alla stessa maniera, cercando innanzitutto di scrivere la musica che vorrei sentire. Quella di cui sono affamato, che mi manca e vorrei creare per poterla udire. C’è un forte bisogno dietro a ogni nostro album, un vuoto da colmare. Mi estraneo da paure e aspettative rispetto a quello che andremo a suonare, ci sforziamo di scrivere la musica migliore possibile, nel tentativo di andare oltre quanto fatto in precedenza. Non è detto che poi ci riusciamo, non è detto soprattutto che i fan apprezzino ogni volta il nostro lavoro, ma partiamo sempre con l’idea di superare noi stessi. Dal mio punto di vista, è anche difficile comprendere esattamente come cambia la mia musica nel tempo, sono sincero. Sai, è come quando hai figli e li vedi tutti i giorni: crescono, è vero, ma avendoli sempre sott’occhio non te ne accorgi, mentre chi li vede una volta ogni tre/quattro anni ti fa subito notare quanto siano cresciuti! Così succede anche per la musica, chi ascolta un disco a distanza di qualche tempo da quello precedente, nota immediatamente le differenze tra uno e l’altro. Per noi musicisti, che abbiamo lavorato su quella musica a lungo, magari a distanza di poco dall’album precedente, è più difficile accorgersi di cosa sia mutato nel frattempo. Scrivo musica in maniera continuativa, con un atteggiamento mentale verso di essa che non è cambiato granché nel tempo.

COME ALTRE VOLTE PER VOI IN PASSATO, LA CHIUSURA È AFFIDATA A UN BRANO LUNGO, COMPLESSO, MOLTO INTENSO COME “ICON”. COME AVEVATE PENSATO QUESTA COMPOSIZIONE E PERCHÉ AVETE REPUTATO FOSSE IDEALE PER COMPLETARE “PANTHER”?
– Vi sono due storie separate, all’interno di “Icon”. C’è, da un punto di vista strettamente personale, il tentativo di comprendere cosa voglia dire essere ‘normali’ per l’umanità, cosa serva per rientrare in questa categoria. Poi c’è un piano legato a come la cultura globale abbia plasmato il concetto di normalità, come si sia evoluto nel tempo. Dovremmo insegnare ai bambini, direttamente a scuola, quanto persone brillanti, del passato e del presente, siano essi artisti, scienziati, siano stati descritti e siano tutt’ora visti come dei soggetti bizzarri, fuori dagli schemi. Spesso, le persone con doti particolari si sono spinte a degli estremi che chi non riusciva a comprendere definiva anormali, perché non riuscivano ad afferrare il significato di quello che stavano facendo. Andavano oltre il concetto di normalità dei tempi. Oggi come ieri, ci sono persone che lavorano intensamente per inseguire un’idea, seguendo passo dopo passo un cammino che chi gli sta attorno stenta a comprendere e riconoscere. Mentre per il singolo individuo che va in quella direzione, quello che sta facendo ha un significato importantissimo. Sotto un’altra prospettiva, “Icon” rappresenta il corso della vita, il modo in cui interagiamo con le altre persone. Penso al concetto di ‘perdere le persone che sono ancora vive’. Siamo immersi nei nostri rituali, nelle nostre abitudini, nei nostri doveri e a volte lasciamo andare le persone e le facciamo scomparire involontariamente dalle nostre esistenze. Le relazioni possono essere dure, complicate, difficoltose da portare avanti, così alcune finiamo per disperderle. A volte non ci si rende conto di tutte quelle persone che ci lasciamo alle spalle. Ho la sensazione che siamo in difficoltà a vivere il presente, tendiamo ad essere concentrati sul passato, con un forte senso di nostalgia per qualcosa che ormai non possiamo più recuperare, oppure sul futuro, proiettati in avanti in modo indefinito. Rapportarsi allo scorrere del tempo non è facile, ne hai consapevolezza ogni tanto, e ti accorgi improvvisamente di quanto ne sia passato, quante cose ti siano accadute…

TI FACCIO UN’ULTIMA DOMANDA, IN RIFERIMENTO ALL’ARTWORK DI ANDRÉ MEISTER. CHE COSA VOLEVI FOSSE RAPPRESENTATO SULLA COPERTINA E NEL RESTO DELL’ARTWORK?
– Ho sempre desiderato poter sfruttare questo tipo di arte fumettistica per uno dei nostri lavori. Finora non era mai accaduto che il concept di un disco si adattasse a una tale forma artistica, invece per “Panther” ho sentito che il momento era giunto. Visto che nei testi si parlava di pantere e cani, ho deciso che avremmo dovuto rappresentarli graficamente, come simboli visivi di quello di cui stavamo parlando. Allora andiamo proprio a rappresentare la disfunzionalità delle pantere in un mondo creato per i cani. A Meister sono arrivato tramite un mio amico brasiliano, Emilio, che lavora nell’industria dei fumetti. In passato mi aveva segnalato alcune pubblicazioni basate su liriche dei Pain Of Salvation, mi ha fatto conoscere alcuni artisti che secondo lui avrebbero potuto compiere un buon lavoro sui nostri album e uno dei nomi che mi ha fatto era quello di André Meister. Ho visionato il suo portfolio, ho visto che si era occupato di tanti soggetti diversi, aveva una sensibilità che mi piaceva e allora l’ho contattato e gli ho parlato appunto del tipo di immagini di cui avrei avuto bisogno. È andata così!

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