PAIN OF SALVATION – Un costante perfezionamento

Pubblicato il 07/05/2017 da

Questa intervista, avvenuta poco prima dello spettacolare concerto tenutosi al Magnolia di Segrate il 6 aprile, sarebbe dovuta servire, semplicemente, ad approfondire il discorso sulla gestazione di un capolavoro quale “In The Passing Light Of Day”, attraverso le parole del mastermind dei Pain Of Salvation. Celebrando così uno degli zenit creativi di Gildenlöw e, appena in secondo piano, lo splendido lavoro di squadra compiuto assieme agli altri membri della band. Ecco, per quest’ultimo punto l’intervista assume, in alcune sue parti, un significato ben diverso, alla luce della separazione non propriamente amichevole avvenuta con il chitarrista Ragnar Zolberg in settimana. Uno scambio d’opinioni, quello avvenuto a suon di comunicati via facebook fra il leader dei Pain Of Salvation e il musicista d’origine islandese, che denuncia una conflittualità in essere da tempo. Nell’intervista, Daniel ascrive a se stesso tutto il processo creativo dell’ultimo album, mentre dalle parole di Ragnar sembrerebbe di capire che, almeno per quanto lo riguarda, nel plasmare il tessuto sonoro di “In The Passing Light Of Day” il giovane musicista dalla voce di seta abbia fornito idee sostanziose. Per le informazioni in nostro possesso, non ci permettiamo di dare giudizi su come possano essere stati gestiti i rapporti interni fra Gildenlöw e Zolberg, possiamo solo constatare che i Pain Of Salvation hanno perso un artista di prim’ordine che, per quello che ne possiamo capire facendo solo affidamento al nostro orecchio, una certa impronta al nuovo corso dei progster svedesi pare averla data. Che si sia del partito pro-Daniel o pro-Ragnar, o solo osservatori distaccati, ciò nulla toglie ai contenuti di “In The Passing Light Of Day”. Di essi, fondamentalmente, abbiamo parlato con un disponibilissimo Gildenlöw, personaggio mai banale quando deve spiegare la sua arte al prossimo.

“IN THE PASSING LIGHT OF DAY” È UN ALBUM CHE NASCE DALLA SOFFERENZA, DAI LUNGHI MESI CHE HAI TRASCORSO IN OSPEDALE ORAMAI CIRCA TRE ANNI FA. SOTTO QUALE PROSPETTIVA TI SEI POSTO PER PARLARE DEL PERIODO DELLA MALATTIA?
“Quanto mi è successo ha influenzato le liriche, mentre dal punto di vista sonoro avevo già la direzione ben chiara in mente subito dopo i due ‘Road Salt’. Avevo già pensato di dare un taglio più duro e metal al nostro suono. Quindi, non ci fossero stati i miei problemi di salute, il disco sarebbe stato completato molto prima. Nei testi non mi sono concentrato sulla malattia in sé, sull’essere rimasto a lungo bloccato in un letto, quello che puoi leggere si connette piuttosto ai primi due-tre giorni della mia permanenza in ospedale. Hanno rappresentato la fase più critica, in quel momento la situazione era grave, c’era l’urgenza di capire cosa avessi e come riuscire a curarlo. Si stavano affollando una miriade di pensieri nella mia testa, cercavo di capire la situazione e di come rapportarmi ad essa. Scavare nei pensieri, relazionarmi con quello che provo, cercare di capire i sentimenti e le emozioni altrui e parlarne, darne un’interpretazione, non è mai stato un problema per me. Ho ripensato a quanto mi è successo, ai fatti in sé e a come li stavo elaborando psicologicamente, cercando di mettere tutto in ordine e fissare i punti più importanti. Da lì sono partito per una riflessione più ampia, in retrospettiva, di alcuni eventi importanti della mia vita. E sono andato a ripercorrerli. La difficoltà è stata selezionare quello che valeva la pena di essere raccontato, nell’esistenza di una persona succedono tantissime cose e non è per forza immediato cogliere ciò è più importante”.

HA CAMBIATO QUALCOSA NEL TUO MODO DI VEDERE E INTENDERE LA VITA QUESTA ESPERIENZA COSÌ DURA?
“Alcune persone dicono che cambiano i loro valori, le cose in cui credono, quando devono affrontare gravi malattie. Per me non è stato così, ho sempre saputo quali fossero le mie priorità, prima di entrare in ospedale, durante e dopo la mia degenza. Il concentrarsi solo sulle cose importanti, non stressarsi eccessivamente per tutte le attività che dovremmo svolgere durante una giornata, godersi la vita, passare più tempo possibile con la propria famiglia… Sono concetti ben chiari, li conosciamo bene, non c’è bisogno che un evento di estrema gravità come quello che ho vissuto ci ricordino come dovremmo comportarci. Non è un misterioso segreto che ci viene rivelato in quei momenti. Semplicemente, fatichiamo a dare concretezza a queste idee nella nostra vita quotidiana. Per come è strutturata la vita moderna, tutti noi siamo gravati ogni giorno dal peso di un mare di azioni e doveri da svolgere e ottemperare, la lista di ciò di cui dovremmo occupare è infinitamente lunga e sembra spesso impossibile portare a termine tutto. Più cose hai in programma di svolgere, più diventa complicato definire le giuste priorità. Mentre quando sei in ospedale il grosso di quello che appare nella tua ‘to do list’ viene per forza cancellato e rimangono quei dieci-dodici punti fondamentali. Senza che tu possa scegliere. Alzarsi, ottenere qualcosa da mangiare, preoccuparsi che siano a posto le medicazioni dopo un’operazione… Rimangono in questi casi soltanto i bisogni fondamentali, primari. Dovrebbe essere sempre così, bisognerebbe imparare a scrollarsi di dosso ciò che ha poco valore per noi stessi. Quindi, non è che capisci quali sono le tue priorità in casi del genere, ne hai solo una visione più chiara. Ho visto diverse persone recuperare dal cancro o altre malattie, e affermare che avrebbero cambiato radicalmente vita. Ce l’hanno fatta per qualche tempo, alcune settimane, mesi. Poi sono ritornate alle vecchie routine, per quasi chiunque è impossibile diventare completamente un’altra persona e alterare completamente come si trascorre l’esistenza. Perché, semplicemente, le vicende della vita accadono, le subisci senza poterle controllare. Mi viene più facile, adesso, mettere da parte quello che non è fondamentale. Lo facevo anche prima, adesso mi riesce solo meglio”.

IN UN LUNGO POST SUL VOSTRO SITO UFFICIALE, HAI PARLATO DI TE STESSO COME DI UN “TUESDAY BOY”, IN QUANTO SEI NATO DI MARTEDÌ E SEI STATO OPERATO LA PRIMA VOLTA PER LA TUA INFEZIONE IN UN ALTRO MARTEDÌ, IN QUELLA CHE CONSIDERI UNA SECONDA RINASCITA. NEL POST PARLI DI COME QUESTO GIORNO SIA CONSIDERATO SFORTUNATO IN ALCUNE CULTURE, COME QUELLA GRECA E QUELLA SPAGNOLA, MENTRE IN ALTRE, COME L’EBRAICA, VIENE INDICATO COME GIORNATA PROPIZIA. RITIENI VERAMENTE CHE QUESTA COINCIDENZA ABBIA UN SIGNIFICATO PARTICOLARE?
“Ho una mente che tende a cercare associazioni e collegamenti un po’ ovunque, nei miei pensieri finisco di frequente per concentrarmi su come diversi ‘punti’ si uniscano. Sono approdato a queste conoscenze sul martedì perché, mentre stavo pensando alle lyrics, mi sono chiesto quanti giorni avessi vissuto nel corso della mia vita. Così mi sono accorto di questa coincidenza, che ero nato di martedì e sono per certi versi rinato di nuovo di martedì, per giunta nello stesso ospedale in cui ero venuto al mondo. Solo allora mi sono sentito un ‘Tuesday boy’ (risate, ndR) e ho iniziato a fare qualche ricerca su google per sapere intanto quanti martedì avessi vissuto fino a quel momento, e poi capire che interpretazioni fossero state date a questo giorno della settimana in differenti culture. È stato divertente e interessante mettere assieme questo cumulo di conoscenze, scoprire quali significati si attribuiscano al martedì in culture distanti fra loro”.

MI È PIACIUTO MOLTO TUTTO L’ALBUM, MA SE DOVESSI SCEGLIERE LA MIA CANZONE PREFERITA, PUNTEREI SU “FULL THROTTLE TRIBE”. DI COSA PARLA? SEMBRA RIMARCARE L’IMPORTANZA CHE DAI ALLA FAMIGLIA, IL FATTO DI CONSIDERARLA IL CENTRO DEL TUO MONDO. IL PEZZO ESPRIME UNA GRANDE FORZA, MI PIACEREBBE ANCHE SAPERE COME CAMBIA IL TONO DEL TESTO IN ASSONANZA ALLA MUSICA, VISTO CHE ABBIAMO UN INIZIO MOLTO POTENTE, UNA PARTE QUIETA NEL MEZZO, INFINE UNA VIGOROSA RIPRESA DEL TEMA INIZIALE.
“La canzone parla dell’avere una band e di come per certi versi questa condizione sia analoga all’avere una famiglia. Per me formare un gruppo è stato come entrare in una seconda famiglia, qualcosa per cui lottare assieme, un insieme di persone che rappresentava di per se stesso la norma, in contrapposizione a ciò che stava fuori e consideravamo diverso da noi. Sai, le persone con un forte estro artistico, in generale alcuni tipi di persone con interessi particolari, quando vanno a scuola si sentono distanti da chi hanno attorno. Non mi sentivo come il grosso dei mie compagni, ero fuori da quella che era considerata la normalità. Intendiamoci, mi sono anche divertito molto in quegli anni, avevo tanti amici, ma sentivo il distacco con chi avevo attorno, avevo interessi che non collimavano con quelli del grosso dei miei coetanei. I pensieri, le riflessioni, andavano in direzioni che gli altri non erano in grado di comprendere. Mi piaceva la musica, scorrazzare con la mia bicicletta e cercare di fare salti e acrobazie, camminare per i boschi, cose così. A scuola, per semplificare, o eri una ragazza e allora ti piacevano i cavalli, oppure eri un maschio e pensavi solo al calcio. A me non interessavano né i cavalli né il calcio (ride, ndR)! Mi ricordo che saltavo sul tavolo in cucina, imbracciavo una racchetta da badminton e immaginavo di essere sul palco con la mia band. Crescendo, uno impara a rapportarsi con chi ha interessi diversi dai suoi e ad essere a suo agio in vari contesti, mentre quando se giovane non sai comportarti. Nel mio caso, non sapevo mai se dovevo ‘abbassarmi’ a un livello più basso per entrare in relazione con qualcuno, oppure stare più ‘alto’ per adattarmi a qualcuno che sentivo a un piano superiore al mio. Ero disorientato. Il gruppo ha rappresentato una bolla nella quale chi era al suo interno rappresentava la normalità, non doveva preoccuparsi di ciò che diceva o pensava chi ne era al di fuori. Non era più importante come ci si comportava o si agiva, era importante ciò che si faceva in funzione della musica. Nella band era importante lavorare sui dettagli, perfezionarsi, provare e riprovare per ottenere il risultato migliore, in questo la scuola non poteva aiutarmi, non me l’aveva insegnato. Ho sempre avuto una forte ossessione per il dettaglio, fin da bambino mi sono sempre chiesto il ‘perché’ delle cose e ho cercato le risposte, mentre a scuola ti insegnano soprattutto ‘come’ si fanno le cose. Quindi, ‘Full Throttle Tribe’ parla dei motivi che mi hanno portato a formare una band, a come questa mi facesse, e mi faccia tutt’ora, sentire parte di una famiglia, di una tribù. Recentemente stavo guardando un film su un gruppo di climber degli anni ‘70, che trovandosi di fronte alla montagna urlavano ‘questa è la mia folla, questa è la mia gente’, e cercavano di scalare le cime che avevano per obiettivo spingendosi a migliorarsi l’un l’altro. Non gliene importava nulla di quanto tempo ed energie avessero speso per approdare a un tale risultato, hanno buttato tutte le energie che avevano in corpo per i loro obiettivi. Agivano in quel modo perché lo volevano, non perché ci fosse un grande significato dietro quello che stavano facendo, o dovessero seguire gli insegnamenti di un profeta. Ho condiviso l’avventura dei Pain Of Salvation con un gran numero di musicisti, partire da show di poco rilievo, tour di supporto, e arrivare a essere headliner e suonare in show sempre più grossi, ha comportato tempo e fatica, è stata una lunga cavalcata, nella quale abbiamo messo assieme storie, sentimenti, emozioni, che sono diventate il nostro patrimonio comune. Siamo stati una vera famiglia, nel bene e nel male. Alcuni dei compagni che ho trovato lungo il percorso hanno messo su famiglia e hanno preferito mettere da parte la musica per concentrarsi sugli affetti. Io questa opzione è come se non l’avessi mai avuta, perché se anche avessi deciso di fermarmi nel creare musica, questa avrebbe continuato a vivere dentro di me e mi avrebbe reso frustrato dal non poter comunicare quello che avevo dentro. Ricordo gli ultimi concerti assieme a Johan Hallgren (ironicamente, è stato annunciato da pochi giorni il suo rientro in line-up in sostituzione di Zolberg, ndR) e Fredrik Hermansson, in quel periodo si capiva perfettamente che eravamo scollati, che non eravamo più una vera band. C’è stato un concerto, verso la fine di quel tour, in cui mi sono trovato sotto la doccia alla fine dell’esibizione e mi sono sentito in colpa perché stavo portando davanti al pubblico qualcosa che non era più un vero gruppo. Quella sera mi gettai addosso acqua calda fino ad avere male da tanto era bollente, per riprendermi dallo shock che quella sensazione mi aveva dato. Tutto quello che avevamo creato assieme, quello per cui avevamo combattuto, non esisteva più. Tredici anni assieme, erano perduti, dissolti. Mi sono sentito disonesto nei confronti del pubblico, perché dovevo dimostrare qualcosa di diverso da come mi sentivo dentro di me”.


IL NUOVO ALBUM È STATO CREATO DA UNA PROSPETTIVA MOLTO PERSONALE, LA TUA. MA ASCOLTANDOLO, SEMBRA CHE CI SIA STATO UN FORTE CONTRIBUTO DA PARTE DEGLI ALTRI MEMBRI, CHE SIA STATO EFFETTIVAMENTE UN LAVORO D’ASSIEME E NON SOLO IL FRUTTO DELLA MENTE DI UNA SOLA PERSONA, ALMENO DAL PUNTO DI VISTA SONORO…
“A dire il vero, ‘In The Passing Light Of Day’ ha avuto una gestazione simile ai due dischi precedenti, nel senso che mi sono occupato interamente di qualsiasi aspetto musicale, non solo delle liriche. Ho scritto anche tutte le parti di tastiera e quasi tutte le armonie vocali. Avrei voluto dirti che gli altri membri hanno dato una forte impronta al disco, ma non è andata così (risate, ndR). I metodi moderni di registrazione degli album consentono – e questo può essere un bene o un male – di poter registrare anche a casa tua, con una strumentazione relativamente povera, musica di qualità quasi simile a quella che registreresti in uno studio professionale. Delle volte, si perde di vista quanto materiale si ha a disposizione per ogni singola canzone, si corre il rischio di continuare ad aggiungere qualcosa, senza mettere un punto fermo alla propria creatività. Puoi arrivare a un punto dove hai tre linee di tastiera differenti, che magari su disco può andare bene ma poi, quando devi suonare live, diventa assolutamente impossibile riprodurre tutto alla perfezione. Un aspetto divertente di questa distanza fra il lavoro da studio e quello di essere una band di cinque elementi su un palco, l’abbiamo avuto quando abbiamo girato il video di ‘Reasons’. Lì dovevamo esserci noi che fingevamo di suonare. Ma, c’era un problema: in ‘Reasons’ non ci sono tastiere! Allora a Daniel (Karlsson, il tastierista, ndR) abbiamo dato in mano la chitarra e gli abbiamo chiesto di comportarsi come se fosse stato anche lui un chitarrista (curiosamente, nell’ultimo tour è proprio avvenuto che in corrispondenza di ‘Reason’ Karlsson la chitarra la suonasse per davvero, assieme a Gildenlöw e Zolberg, ndR)”.

L’ULTIMO ALBUM HA UN SUONO MOLTO DURO, PROBABILMENTE È IL PIÙ HEAVY DELLA VOSTRA CARRIERA, IN NETTO CONTRASTO CON I DUE “ROAD SALT”. IMMAGINO CHE SIA PER QUESTO MOTIVO CHE TU ABBIA SCELTO DANIEL BERGSTRAND COME PRODUTTORE. QUANTO TI HA AIUTATO NEL CONCEPIRE IL SOUND CHE AVEVI IN MENTE?
“Considerando la direzione che andava a prendere l’album, potevano esserci due-tre persone al massimo che potevano venirmi in mente per produrre il disco. E Daniel Bergstrand era una di queste. Daniel ha il grosso pregio di far suonare heavy un album senza dargli un taglio troppo uniforme. Un difetto comune a molti produttori metal moderni è quello di ricercare pesantezza e densità a scapito delle sfumature di suono, non ci sono i toni medi, è tutto compatto, non ci sono variazioni di tono. Daniel riesce a dare una ‘brutta bellezza’ al suono (‘ugly beautiful’ afferma letteralmente Daniel, ndR). Noi abbiamo molti suoni ruvidi in ‘In The Passing Light Of Day’, imperfetti, sia a livello di chitarre, che di tastiere, e non volevamo che queste scabrosità venissero edulcorate, nascoste nel mix. Si dovevano sentire. Bergstrand è perfetto nel far emergere questi dettagli, pur mantenendo potenza e nitidezza. Ricordo ancora le prime volte che ho ascoltato il primo full-length dei Meshuggah, ‘Contradictions Collapse’. Nonostante fosse molto heavy, c’erano delle singole componenti sonore che riuscivano ad emergere, lo stesso volevamo che accadesse per il nostro ultimo album. Se pensi ai dischi degli anni ’70, ci sono suoni che non potresti definire ‘belli’, che suonano imperfetti. Noi abbiamo mantenuto alcune caratteristiche del genere per ‘In The Passing Light Of Day’, solo che magari certe cose venivano suonate al triplo del volume di un disco degli anni ’70, per fare un esempio abbastanza semplice! Lo scenario sonoro complessivo era già ben strutturato prima di entrare in studio, Daniel ci ha dato una grossa mano nella rifinitura di alcuni aspetti e in particolare nella definizione del suono di batteria. Quello è lo strumento su cui la sua mano si può sentire più chiaramente. È una sorta di mago quando si deve occupare del drum sound”.

PER QUANTO RIGUARDA LE LINEE VOCALI, MI PARE TU ABBIA SFRUTTATO BENE LE LINEE VOCALI DEGLI ALTRI MEMBRI DELLA BAND, CON L’USO DI INCROCI VOCALI MOLTO RICCHI E POLIFONIE. IN PARTICOLARE, VORREI SAPERE COME È NATA “REASONS”, DOVE IL MARTELLAMENTO VOCALE E L’INTERSECARSI DI VOCI DI TIMBRO E ALTEZZA DIFFERENTE È PORTATO ALL’ESTREMO.
“Di base, sono sempre io quello che canta! Le armonie vocali sono quasi tutte scritte e cantate da me. Ho registrato le linee vocali separatamente e poi le ho miscelate. Per accentuare il botta e risposta di ‘Reasons’, con le vocals aggressive che s’intervallano a quelle pulite, abbiamo potuto utilizzare un vecchio microfono radiofonico che aveva a disposizione il ragazzo che si è occupato delle voci, in un studio norvegese. Abbiamo così ottenuto un sound molto vintage, a me ricorda certe voci in arrivo dal buio di certi episodi di ‘Twilight Zone’.

IN “TONGUE OF GOD” SI AVVERTE UN TONO PIÙ EPICO, MISTICO, CHE NON PERCEPIAMO COSÌ FORTE NEL RESTO DELL’ALBUM. VOLEVO SAPERE COME QUESTO RICHIAMO A DIO DEBBA INTENDERSI COME UNA TUA RIFLESSIONE SULLA SPIRITUALITÀ, VISTI I TONI CHE SEMBRA PRENDERE  IL PEZZO.
“Il cercare una ragione di quello che accade a noi e attorno a noi nella dimensione spirituale, nell’ultraterreno, è il modo più facile che hanno le persone per darsi delle risposte. È una modalità ‘di default’ buona a darsi una spiegazione che non comporti grande fatica e impegno per essere trovata. ‘Tongue Of God’ riflette sul rapporto che si può avere con l’universo, l’ambiente che ci circonda, gli avvenimenti che ci accadono, e come questi entrano in conflitto con il nostro sistema di pensiero e di valori. Noi spesso pensiamo che le cose dovrebbero andare in una certa maniera, si dovrebbe pensare e agire in un certo modo. Subiamo spesso dei conflitti per i contrasti esistenti fra quello in cui crediamo e cosa succede nel nostro mondo. Parlo della necessità delle persone di essere grate nei confronti di qualche entità per quello che hanno, delle credenze che li spingono a comportarsi in un certo modo, a essere aderenti al sistema di pensiero che si è formato dentro di loro. Io non credo in dio, ma c’è stato un momento, durante tutto il calvario che ho vissuto, nei periodi iniziali della malattia, quando era tutto molto duro, pensavo a mia moglie, i miei figli, avevo costantemente un ago in un braccio, mi sentivo malissimo, che mi sono trovato alla toilette, spossato da tutto quello che stavo vivendo e ho pensato: ‘Se ci sei, se sei abbastanza grande e potente come dicono, smettila. Adesso basta. Credo di aver già subito abbastanza’. Se un dio esistesse veramente, allargando il discorso in generale, forse eviterebbe di causare sofferenze alle persone”.

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