PARADISE LOST – Il passato ritorna

Pubblicato il 02/06/2015 da

Come accennato nell’anteprima track by track pubblicata alcune settimane fa, siamo ora a proporvi l’intervista che Nick Holmes ci ha rilasciato in occasione del pre-ascolto di “The Plague Within” che la Century Media Records ha organizzato a Berlino pochi mesi fa. Vista la sua forte impronta metal, i richiami al passato death-doom, la ricomparsa delle growling vocals e, ovviamente, la notevole campagna promozionale allestita dalla casa discografica tedesca, il ritorno dei Paradise Lost è già una delle uscite più calde e chiacchierate del 2015 e crediamo che queste dichiarazioni dell’affabile cantante non faranno altro che innescare ulteriori valutazioni e discussioni tra i fan della storica gothic metal band britannica.

paradise lost - band - 2015

LA PRIMA DOMANDA È ABBASTANZA SCONTATA: LA TUA ESPERIENZA CON I BLOODBATH E QUELLA DI GREG CON I VALLENFYRE QUANTO HANNO INFLUENZATO LA STESURA DI “THE PLAGUE WITHIN”?
“Per quanto riguarda i Bloodbath, non posso assolutamente parlare di influenza. Buona parte di ‘The Plague Within’ era già stata composta prima che entrassi a far parte del progetto e anche la decisione di utilizzare di nuovo le growling vocals era già stata presa. In effetti, potrei arrivare a dire che se ho detto sì ai Bloodbath è anche perchè sapevo che comunque sarei tornato ad esprimermi in growl di lì a breve con i Paradise Lost. I Vallenfyre invece rappresentano probabilmente una sorta di influenza: Greg è molto coinvolto in quel gruppo ed è normale che alcuni spunti siano finiti nel songwriting per i Paradise Lost. Dopo tutto, gli stessi Vallenfyre hanno diverse tracce ispirate al nostro vecchio materiale. Stiamo sempre parlando del principale compositore delle due band…”.

SI PUÒ DIRE CHE CON “THE PLAGUE WITHIN” ABBIATE CHIUSO UN CERCHIO APERTO 25 ANNI FA CON “LOST PARADISE”: I RICHIAMI AI VOSTRI ESORDI SONO EVIDENTI. ORA COSA VI RESTA DA SUONARE E/O ESPLORARE?
“Sono d’accordo sul fatto che il disco presenti legami con il nostro passato più remoto, però, come avrai notato, vi è anche di più. Non abbiamo composto un album che cerca di rivangare il passato a tutti i costi. Non stiamo imitando un ‘Lost Paradise’, un ‘Gothic’ o qualsiasi altro album della nostra carriera. Sicuramente vi è tanto death metal, vi è tanto gothic metal, ma puoi sentire anche soluzioni che abbiamo adottato negli anni 2000. Per me ‘The Plague Within’ è un disco che vive nel presente. Sono molto contento del risultato finale: secondo me stiamo per pubblicare uno dei capisaldi della nostra discografia. Con ‘Lost Paradise’ avevamo espresso un concetto che poi è stato affinato con ‘Gothic’ e con ‘Shades Of God’. ‘Icon’ ha introdotto soluzioni nuove per l’epoca e ‘Draconian Times’ ne è praticamente la versione limata e ripulita. Quindi ‘One Second’ ha inaugurato un altro periodo, poi culminato in ‘Host’. E così via… la nostra discografia è sostanzialmente dividibile in grappoli di album: uno indica la via e poi quello successivo la esplora in ogni dettaglio, cercando di mantenere una sua identità. Credo che ‘The Plague Within’ sia uno di quei lavori: è un disco che apre nuove porte per il gruppo dopo la triade composta da ‘In Requiem’, ‘Faith…’ e ‘Tragic Idol’. Insomma, non è finita qui, non stiamo per mollare tutto”.

COME È STATO INCIDERE UN ALTRO ALBUM CON TANTE STROFE IN GROWL? I BLOODBATH TI HANNO FORNITO UN BUON ALLENAMENTO?
“Sto migliorando costantemente. Il difficile è stato ricordarsi la tecnica, in modo da poter usare il growl senza fatica ed evitando di rovinarsi le corde vocali. Onestamente, dopo vent’anni trascorsi a cantare nel vero senso della parola, non avevo alcun ricordo di come si facesse ad esprimersi in altro modo. Ho iniziato ad allenarmi a casa e ora sto riacquistando la padronanza di una volta. Certo, in tutto questo tempo la mia voce è cambiata e gli anni iniziano a farsi sentire, quindi è difficile replicare esattamente quello che puoi sentire su uno dei primi album, però mi ci sto avvicinando…”.

SU ALCUNI DEI NUOVI BRANI UTILIZZI UN’AMPIA GAMMA DI REGISTRI. NON AVEVATE MAI AVUTO UNA TALE ALTERNANZA A LIVELLO VOCALE…
“Sì, è stato molto divertente lavorare a questo disco e registrarlo. Le mie sessioni sono state velocissime: sono arrivato preparato come mai prima di allora e abbiamo finito anche per sperimentare in studio. C’è davvero un po’ di tutto. In effetti, questo è un disco che potrebbe piacere a tutti come a nessuno. Non ha una linea precisa, è molto vario ed ogni episodio suona diversamente dal precedente, Non è la prima volta che ci prendiamo dei rischi, ma oggi sono particolarmente curioso di vedere come verrà accolto”.

PENSI CHE SAREBBE STATO PIÙ FACILE E REDDITIZIO COMPORRE UN ALTRO “DRACONIAN TIMES”?
“Sicuramente. Ci sono migliaia di fan che continuano a chiedere un altro album su quello stile. Sarebbe stato facile accontentarli, pubblicare lo stesso disco all’infinito e vivere di rendita, ma non siamo mai stati in grado di fare simili calcoli. Nel nostro piccolo, ci sentiamo degli artisti, delle persone che crescono, maturano, cambiano… delle persone che hanno una visione e che desiderano coltivarla. Molti si dimenticano che quando abbiamo pubblicato ‘Draconian Times’ avevamo tutti più o meno 24 anni. Al di là del suo successo, sfido chiunque a non cambiare gusti e idee in tutto questo tempo. A 24 anni non avevo certo gli stessi gusti di quando ne avevo 14, ad esempio. E a 34 ero ovviamente una persona diversa da quella che aveva scritto ‘Draconian Times’ un decennio prima. Tu oggi ti comporti esattamente come quando eri un teenager? Hai gli stessi identici interessi di allora? Non credo!”.

COSA SONO I PARADISE LOST PER TE OGGI? SONO UN LAVORO O ANCORA UNA FONTE DI ECCITAZIONE E DIVERTIMENTO?
“Tutto quello che hai detto. Siamo da tanti anni un gruppo che vive della propria musica, quindi è normale che pensando alla band vengano in mente anche i conti, però è indubbio che se siamo ancora qui dopo tutto questo tempo è perchè ci divertiamo e abbiamo ancora una forte spinta creativa. Siamo sempre stati una band spontanea, che mette il proprio gusto e i propri sentimenti al centro di tutto, senza fare troppi calcoli. Se pensi ad ogni nostro album puoi facilmente intuire da che tipo di sonorità ci sentivamo attratti nei rispettivi periodi. Non abbiamo fatto altro che proporre sempre quello che trovavamo interessante al momento, senza studiare nulla a tavolino. L’unico disco che fa eccezione è ‘Believe In Nothing’, un lavoro nato in un brutto periodo a livello personale e che è stato anche condizionato da continui scontri con la casa discografica. È l’unico nostro disco di cui non andiamo molto fieri…”.

INFATTI DAL VIVO È PIÙ COMUNE VEDERVI SUONARE UN PEZZO DAI PRIMISSIMI ALBUM CHE UNO DA QUEL DISCO…
“Sì, ‘Believe In Nothing’ contiene senz’altro qualche buona canzone, ma tutto sommato fa affiorare brutti ricordi. Doveva venire in maniera molto diversa. Guarda anche la copertina… ma che cazzo sono quelle api? Che vogliono significare? Non ricordo nemmeno di averla scelta. Probabilmente stavo in un altro mondo”.

“THE PLAGUE WITHIN” DÀ L’IMPRESSIONE DI ESSERE UN ALBUM CHE SI PRESTA ALLA DIMENSIONE LIVE. QUANDO AVRETE MODO DI PRESENTARLO IN CONCERTO?
“Stiamo pensando ad uno show di presentanzione nel quale ci piacerebbe suonarlo per intero. Il tour invece dovrebbe partire in autunno. Siamo consapevoli del fatto che alcuni di questi pezzi abbiano una forte impronta live. Greg di recente è stato spesso in tour con i Vallenfyre e ora credo che pensi spesso alla resa dal vivo quando compone qualcosa”.

PARLANDO DELLE CANZONI CHE MI HANNO COLPITO AD UN PRIMO ASCOLTO, CHE PUOI DIRMI DI “PUNISHMENT THROUGH TIME”? È UN BRANO PIENO DI RIMANDI AL VOSTRO PASSATO…
“Sì, è la nostra nuova ‘Pity The Sadness’ (ride, ndR). È una canzone che ci è piaciuta subito: ogni tanto non fa male ricordarsi chi sei e da dove vieni. Può ricordare varie vecchie formule, ma ha una sua coerenza e un gran tiro. Non vi sono brani simili a questo nel disco, è una parentesi particolare”.

“RETURN TO THE SUN” È INVECE PIÙ FINE ED EPICA…
“Sì, inizialmente doveva essere l’opener del disco, ma poi abbiamo deciso di partire con qualcosa di più ritmato. Questa è una traccia molto elaborata sotto il profilo vocale. Credo che la mia performance segua al meglio quella strumentale. Vi è anche una forte componente orchestrale che credo dia una marcia in più”.

CREDI CHE AVRETE MODO DI SUONARE MOLTE DI QUESTE CANZONI DAL VIVO O RICORRERETE PER LO PIÙ AI CLASSICI?
“Ci sarà un po’ di tutto. Ultimamente suoniamo almeno un pezzo da quasi ogni album. Ho notato che la gente non si offende più se non suoniamo ‘As I Die’, quindi magari potremmo anche sorprendere tutti con una scaletta piena di brani nuovi o poco noti (ride, ndR)”.

HAI IDEA DI QUANTE VOLTE ABBIATE SUONATO “AS I DIE” IN CARRIERA?
“Sicuramente siamo nell’ordine del migliaio: salvo rari casi, credo che abbia fatto parte della scaletta di ogni nostra data live dal 1992 ad oggi”.

PERCHÈ SECONDO TE QUELLA CANZONE È TALMENTE AMATA?
“Credo che ‘As I Die’ sia l’archetipo del classico pezzo Paradise Lost. È stato il brano che ci ha fatto capire che si poteva essere heavy, gotici, ecc pur affidandosi ad una struttura semplice e diretta, da canzone vera e propria. Prima di allora eravamo soliti comporre secondo schemi death e doom, ovvero impilando riff e cercando spesso il colpo ad effetto, senza affidarsi ad una vera logica. ‘As I Die’ venne fuori quasi per gioco, ma finì per indicare la via per tutto il nostro futuro materiale. All’epoca della sua uscita era il nostro episodio più memorizzabile, ma negli anni il suo status non è cambiato affatto, nonostante il nostro repertorio oggi comprenda tante altre hit. Senza ‘As I Die’ non ci sarebbe stata una ‘True Belief’, una ‘Shadowkings’, una ‘One Second’…”.

PENSI CHE “THE PLAGUE WITHIN” CONTENGA UN BRANO DEL GENERE?
“Come dicevo, credo che ‘The Plague Within’ sia il disco più eterogeneo della nostra carriera, quindi suppongo che ognuno troverà il proprio pezzo preferito. Forse ‘No Hope In Sight’ piacerà a molti, ma già immagino i nostalgici applaudire ‘Beneath Broken Earth’, anche se si tratta di un pezzo che è tutto fuorchè orecchiabile. Se pensiamo alla funzione di singolo, direi ‘No Hope In Sight'”.

PENSI CHE I SINGOLI FUNZIONINO ANCORA PER UNA BAND COME LA VOSTRA? COME STATE AFFRONTANDO QUESTO PERIODO DI CRISI DEL MERCATO DISCOGRAFICO?
“Il singolo per una metal band del nostro tipo è ormai solo un pretesto per ricordare l’uscita di un album, per fare un video o per dare ai collezionisti un altro prodotto. Non è più un mezzo in grado di farti fare un salto di popolarità. Per quanto riguarda la crisi, noi abbiamo sempre vissuto alla giornata, senza fare piani a lungo termine. A maggior ragione adesso: è impossibile are programmi nel music business del 2015. Qualche tempo fa Gene Simmons ha dichiarato che il rock è morto e ovviamente non sono d’accordo con lui. Tuttavia se penso alla prospettiva di vivere di musica in questo campo, allora sì, posso convenire con lui: sotto questo aspetto il rock è morto. Non penso ai Paradise Lost, ma alle giovani band: oggi se vuoi provare a vivere facendo il musicista devi andare in tour praticamente sempre. Noi siamo stati fortunati ad avere successo negli anni Novanta, quindi oggi partiamo avvantaggiati, ma le nuove realtà devono lavorare il triplo. E non è nemmeno detto che, anche a successo raggiunto, le cose continuino ad andare per il verso giusto. Oggi i fan possono essere molto volubili: i miei figli, ad esempio, cambiano gusti e idee ogni sei mesi (ride, ndR)”.

HAI DEI RIMPIANTI QUANDO PENSI ALLA CARRIERA DEI PARADISE LOST E ALLE DECISIONI CHE AVETE PRESO, SIA A LIVELLO STILISTICO CHE DI “MARKETING”?
“A livello stilistico non rinneghiamo proprio niente, a parte ‘Believe In Nothing’. Per Greg addirittura quel disco non esiste (ride, ndR). Per quanto concerne altri aspetti, invece ultimamente ho iniziato a rimpiangere il fatto di non aver provato a far breccia nella scena statunitense negli anni Novanta. Diventammo molto popolari in Europa quasi subito, ma non ci impegnammo affatto su altri fronti e quello fu un errore. Andammo in tour negli USA nel 1993 e l’esperienza fu abbastanza traumatica per noi: eravamo in giro con Morbid Angel e Kreator e l’atmosfera era molto tesa in quanto David Vincent all’epoca si atteggiava da nazista, mentre i Kreator, come saprai, sono sempre stati un gruppo apertamente di sinistra. Puoi quindi immaginare i rapporti nel backstage: noi eravamo nel mezzo di questo conflitto e non sapevamo cosa fare (ride, ndR). Inoltre noi a quei tempi eravamo soliti suonare spessissimo in Olanda e Germania: le distanze erano brevi e l’accoglienza sempre ottima… eravamo dei ragazzini e non eravamo abituati a misurarci con un territorio e con una scena tanto diversi come quelli americani. A conti fatti, di quel tour ricordo con piacere solo una data durante la quale ricevemmo la visita di Phil Anselmo: era un grande fan e continuava a richiederci ‘As I Die’ (ride, ndR)! A posteriori avremmo dovuto comunque insistere e tornare a suonare da quelle parti con regolarità. I Katatonia, ad esempio, oggi sono più famosi oltreoceano che in Europa…”.

PER CONCLUDERE E TORNARE A “THE PLAGUE WITHIN”, VEDO CHE ANCHE CON LA PRODUZIONE AVETE CERCATO DI TORNARE SU CERTI VOSTRI VECCHI PASSI…
“Quello è stato uno dei primi obiettivi. Io e Greg siamo tornati ad ascoltare parecchio metal di una volta, oppure gruppi odierni che hanno un taglio vecchio stampo. È stato importante riavvicinarsi al vecchio concetto di produzione metal, evitando suoni digitali. La batteria è completamente naturale, ad esempio. Non riusciamo quasi più ad ascoltare certe produzioni. Lo stesso ‘In Requiem’ potrebbe rendere meglio con dei suoni più caldi. Lavorare con Jaime Gomez Arellano in questo senso è stato importantissimo: lui intende le registrazioni esattamente come si intendevano negli anni Settanta o Ottanta. Siamo stati fortunati a trovare un produttore di questa mentalità, per giunta con base a Londra, vicino a casa nostra”.

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