PFM – I sogni degli androidi

Pubblicato il 19/11/2021 da

Con cinquant’anni di carriera alle spalle, la PFM è ancora oggi una delle più conosciute ed apprezzate realtà italiane in ambito progressive (e non solo). Dopo aver girato in lungo e in largo l’Italia, celebrando il quarantennale della tournée fatta assieme a Fabrizio De André, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas si sono nuovamente chiusi in studio per creare “Ho Sognato Pecore Elettriche”, un concept album ispirato a “Blade Runner” che vuole porre l’attenzione dell’ascoltatore su un mondo sempre meno umano e più virtuale. Musicalmente questa storia viene raccontata attraverso linguaggi molto diversi, che non fanno distinzione ‘di generi’, come ama chiosare Di Cioccio. Ed è proprio il cantante e batterista della PFM a raccontarci tutti i dettagli di questo nuovo album, in una chiacchierata tra passato, presente e futuri distopici.

FRANZ, BENVENUTO SU METALITALIA.COM. INIZIAMO SUBITO A PARLARE DI QUESTO NUOVO ALBUM TARGATO PFM: COME E’ NATA L’IDEA DI FARE UN NUOVO DISCO PROPRIO NEL MEZZO DI UNA PANDEMIA?
– Noi venivamo da una lunghissima tournée, quella “PFM Canta De Andrè Anniversary”, di centodieci concerti, bellissima, con sold-out dappertutto. Avevamo quindi pensato di fermarci per un po’ e poi di riprendere a suonare, invece è arrivato il lockdown e questo ci ha spiazzati. Non potendo ricominciare a suonare ci siamo detti “che facciamo? Facciamo un disco”. L’unica cosa bella da fare in un periodo con così tante problematiche. Era arrivato il momento di farlo, visto che sono passati già alcuni anni da “Emotional Tattoo”. Io e Patrick (Djivas, bassista e attualmente unico altro membro ufficiale della PFM, ndR) siamo i fratelli del ritmo e ci troviamo d’accordo su ogni cosa. Sarà questa cosa che ci lega: abbiamo due caratteri diversi anche se compatibili. Io sono visionario ed eclettico nelle mie follie, mentre Patrick è molto preciso, come un vero bassista. Certo non è stato facile, Patrick abita a cinquanta chilometri da casa mia, che è fuori Milano, in Brianza. Ogni giorno mi spostavo per andare da lui, dato che abbiamo lavorato nel suo piccolo studio privato.

COME HAI GIUSTAMENTE SOTTOLINEATO, TU E PATRICK SIETE LA SEZIONE RITMICA DELLA PFM, MA ANCHE ORMAI IL NUCLEO DELLA BAND. COME SONO NATE QUESTE NUOVE CANZONI?
– C’è una cosa che abbiamo in comune, che è l’amore per i film di fantascienza, ne abbiamo visti tanti assieme e non ce ne perdiamo uno. In particolare c’è stato un film che ci ha colpiti ed è “Blade Runner”. Io sono proprio un fan di Philip K. Dick (autore del libro “Ma anche gli androidi sognano pecore elettriche?”, da cui è stato tratto il film “Blade Runner”, ndr), che personalmente considero come il miglior scrittore di science fiction, a parte giusto Asimov che mettiamo lì in alto: ha dato l’ispirazione a tantissimi film, ma questo ci aveva colpito più di tutti, con questo caos abitato da androidi. Riflettendo su quello che ci sta capitando, ci siamo accorti che ci stiamo un po’ ‘androidizzando’, qua in città, perché c’è una grande esposizione di tutto ciò che riguarda l’elettronica: tutto corre così veloce che la società è cambiata completamente. Siamo iperconnessi con tutto, meno che con noi stessi. C’è questa domanda che viene lasciata nel film senza risposta: “Do the androids dream of electric sheep?”, gli androidi sognano pecore elettriche? La società è meno legata al personale e più a tutto quello che succede intorno a te, quasi come in un mondo virtuale. I social, le mail, le riunioni via internet, sono tutte cose che ci portano a rapportarci con gli altri in maniera completamente diversa. Invece la mente deve ancora avere lo spazio per sognare, per aprirsi e creare cose nuove, con la forza dell’immaginazione. Tutto il tempo, invece, è ora dedicato alle macchine, che ci stanno fagocitando. Abbiamo voluto creare questo disco un po’ distopico per reagire allo shock del lockdown, un album concept, una cosa che non facevamo da tanto tempo – e ci siamo sbizzarriti. Noi non facciamo musica convenzionale, vogliamo poterci divertire con quello che facciamo, e il risultato è un album molto vario, in cui ogni brano è diverso dal precedente, e che a sua volta non assomiglia a niente di quello che abbiamo fatto in passato come PFM.

COME GIA’ ACCADUTO PER “EMOTIONAL TATTOO” ANCHE QUESTA VOLTA L’ALBUM ESCE IN UNA DOPPIA VERSIONE, CON I TESTI IN ITALIANO ED IN INGLESE. LA VERSIONE INTERNAZIONALE DEI TESTI COME E’ STATA CURATA? SI TRATTA DI TRADUZIONI E ADATTAMENTI DEL TESTO IN ITALIANO O QUALCOSA DI DIVERSO?
– No, sono diversi, la versione inglese non è la traduzione di quella italiana. Io mi sono occupato dei testi della versione italiana, portando avanti la storia, mentre la versione inglese è stata curata da Marva, che è una cantante ed autrice che ha lavorato con noi. Lei ha scritto dei testi compatibili con la storia, ma partendo dal punto di vista del suo paese d’origine, che sono gli Stati Uniti. Si tratta comunque di qualcuno che capisce perfettamente la situazione che volevo descrivere, perché, figurati, negli Stati Uniti questa situazione è ancora più evidente che qui in Italia… Poi, noi non è che siamo contro l’informatica, assolutamente. Però si sta prendendo parte della nostra vitalità.

PFM OGGI E’ PRATICAMENTE UN DUO, CON ALTRI MUSICISTI CHE RUOTANO INTORNO A TE E PATRICK. COME E’ CAMBIATA LA COMPOSIZIONE DEI BRANI RISPETTO A QUANDO NELLA BAND C’ERANO ANCHE FRANCO MUSSIDA E FLAVIO PREMOLI?
– Se hai ascoltato il disco avrai visto come la nostra scrittura sia molto attuale, si vede che abbiamo fatto un certo tipo di percorso. All’epoca eravamo un gruppo che lavorava in un certo modo, ma stiamo parlando di trent’anni fa, quarant’anni fa. La PFM ha una storia di cinquant’anni, non potevamo continuare a lavorare come facevamo con la prima o la seconda formazione. Noi scriviamo per quello che siamo e quello che stiamo vedendo oggi. Ed è il bello della nostra trasformazione musicale: PFM non è mai rimasta ferma, perché non abbiamo una sola posizione. Abbiamo una creatività vasta, che ci permette di esplorare diverse situazioni. Patrick ed io abbiamo capacità diverse di composizione: lui viene da un’estrazione musicale, io da un’altra. Io sono più rock, mentre lui viene da un mondo completamente diverso. Siamo cresciuti insieme e abbiamo creato questa simbiosi molto forte. Non sono più le canzoni di una volta, ma quello che rimane è la capacità di interpretare il mondo del progressive oggi. Nella formazione di oggi, poi, ci sono dei musicisti di grande livello, come Marco Sfogli, tanto per parlare di metal, che è uno che ha suonato nel disco di LaBrie, per dire.

CERTO, MARCO E’ UN MUSICISTA ECCELLENTE E SI SENTE.
– Un musicista eccellente, esatto. E la squadra funziona quando c’è un ricambio dei giocatori, un po’ come nel calcio. Quando un componente della squadra se ne va, non vai semplicemente a cercare un giocatore che giocava nello stesso ruolo, devi reinventare quello che fai seguendo l’istinto e il momento che stai vivendo.

NELL’ALBUM POI CI SONO ALCUNI OSPITI D’ECCEZIONE, COME IAN ANDERSON E STEVE HACKETT NE “IL RESPIRO DEL TEMPO”. SAPPIAMO CHE AVEVATE GIA’ AVUTO MODO DI INCONTRARLI E DI SUONARE CON LORO. CI VIENE IN MENTE AD ESEMPIO “LIVE IN ROMA”, CHE AVETE REGISTRATO PROPRIO CON IAN ANDERSON. COME SONO NATE QUESTE COLLABORAZIONI PER IL NUOVO ALBUM?
– Stavamo pensando a come sviluppare musicalmente alcune idee e ci è venuto in mente di chiamare Ian Anderson, perché il pezzo si prestava particolarmente ed è molto ricco, con un finale corale. Ci siamo scambiati delle email, perchè non potevamo vederci di persona né frequentarci: gli abbiamo chiesto se volesse partecipare e gli abbiamo mandato il brano. A lui è piaciuto molto e ha fatto questo suo intervento. Lo stesso vale per Steve Hackett, che conosciamo da tanto tempo. Abbiamo fatto assieme due “Cruise To The Edge” (degli eventi-crociere a tema progressive ndR), mentre quando abbiamo vinto l’International Prog Award a Londra lui era al tavolo con noi e ci ha fatto delle feste incredibili. Era quasi più contento lui, mentre noi eravamo spiazzati. Noi eravamo nella rosa di quelli che potevano vincere, ma non era mica scontato. Un momento molto bello, che abbiamo condiviso assieme. Anche con lui ci siamo scritti e volevamo proprio il suo tocco, che è molto particolare e completamente diverso rispetto a quello di Marco, ma è proprio questo il bello della musica. Anche lui ha avuto delle difficoltà, perché nevicava e non poteva raggiungere lo studio. Abbiamo dovuto aspettare, ma alla fine è arrivato il pezzo ed è bellissimo. Poi c’è da dire una cosa: non hanno fatto uno di quegli interventi tipo, ‘io sono Ian Anderson e ora ti faccio vedere’, c’è tutta la passione ma senza voler strabiliare per forza, ha lavorato sul pezzo. Idem Steve Hackett, che ha un suono riconoscibile, e ha fatto una cosa di grande classe, senza l’esagerazione di chi si vuole mettere in mostra.

L’ALBUM CONTIENE CANZONI MOLTO DIVERSE TRA LORO, UN SEGNO DELLA VOSTRA PASSIONE PER LA MUSICA A TUTTO TONDO, NON SOLO PROGRESSIVE.
– Noi siamo contro la discriminazione di generi! E visto che sto parlando con un sito che si occupa di metal, ti voglio citare un brano, che è “Pecore Elettriche”, dove il protagonista si libera e dice “dal blues, al rock, al jazz, fin al metal”, con un gioco di parole che vuole dire ‘finalmente!’. E’ un gioco di parole che abbiamo voluto inserire per dire come la musica sia bella tutta. Quando ascolti qualcosa e dici che ti piace, in realtà non sei tu che scegli la musica, è lei che ti ha catturato. La musica passa dalle orecchie fino alla pancia, e quindi non ci può essere una discriminazione a priori. Tutti i generi devono poter andare nell’etere, nell’aria, poi sarà la gente a scegliere. Non è un caso che in questo brano ci sia proprio un assolo supermetal di Sfogli.

TI VA DI DIRCI QUALCOSA INVECE SULLA JAM FINALE, CHIAMATA APPUNTO “TRANSUMANZA JAM”?
– La jam è un regalo che ci siamo fatti. Una jam di solito si fa su un album live, ma PFM è un gruppo che improvvisa molto, è da sempre una nostra caratteristica. Non facciamo mai un concerto uguale al precedente, perché ci lasciamo degli spazi dove fare dell’improvvisazione. Siamo abituati così, non riusciremmo a suonare per tutta la vita una canzone allo stesso modo. Questo ci ha fatto crescere e quindi anche se eravamo in studio, ci siamo detti, divertiamoci! E lì ci siamo tutti, compreso Flavio Premoli, che ha fatto con noi l’ultimo tour, quello di De Andrè di cui ti parlavo prima. Quindi ci siamo rivisti, abbiamo condiviso questo lungo percorso assieme e anche lui si è unito come ospite.

UN ALTRO BRANO CHE CI HA MOLTO COLPITO E’ “MR. NON LO SO”. DOPO “MR. 9 TILL 5” ABBIAMO UN NUOVO PERSONAGGIO NELL’UNIVERSO PFM.
– “Mr. Non Lo So” è particolare perché in origine era nato come pezzo molto potente, molto rock, poi però diventava un po’ scontato. Quindi lo abbiamo trasformato in un brano ironico. Il Mr. Non Lo So è uno che cerca di imbucarsi sempre nelle situazioni migliori, poi però si accorge che non conta niente essere il primo se poi sei solo un numero. Quindi un giorno lui alza gli occhi al cielo e si accorge di essere questo, solo un numero, quindi quando gli chiedono “Lei si chiama…?”, lui risponde “Non Lo So”, perché ha scoperto che la libertà non è andare dietro a tutti per cercare di ritagliarsi un posto in mezzo ad altri piccoli uomini. C’è anche un bellissimo assolo di Lucio Fabri, che suona un po’ come Stéphane Grappelli, un musicista che ha collaborato anche con Django Reinhardt.

PFM E’ UNA DELLE POCHE BAND AD AVERE AVUTO UN SUCCESSO IMPORTANTE ALL’ESTERO. COME AVETE VISSUTO QUESTA SITUAZIONE?
– Noi abbiamo fatto questa scelta fin da subito, già a partire dal secondo disco eravamo all’estero a suonare. Quando siamo stati in America, abbiamo lasciato l’Italia e siamo stati in tour quasi per un anno, facendo concerti in tutta l’America. Però questo ci ha permesso di conoscere tanti musicisti, l’ambiente, e il nostro modo di suonare è rimasto sempre molto aperto. Non è facile andare all’estero e avere credibilità, devi avere la capacità per misurarti con quel mondo musicale. Inoltre noi non facciamo canzoni, facciamo musica e abbiamo sempre improvvisato tanto, una qualità che non hanno in molti. Ad esempio ricordo che quando suonammo al The Old Grey Whistle Test, un programma inglese molto noto, noi facemmo nove minuti in diretta fenomenali e il giorno dopo tutti i giornali parlavano di noi.

PRIMA ABBIAMO PARLATO DELLA TOURNE’ PER IL QUARANTENNALE DELL’INCONTRO CON DE ANDRE’. IN ALCUNE OCCASIONI AVETE DICHIARATO COME L’INCONTRO CON FABRIZIO VI ABBIA CAMBIATI, FACENDOVI IMPEGNARE MAGGIORMENTE ANCHE SUL FRONTE DEI TESTI OLTRE CHE A QUELLO MUSICALE. AVETE SVILUPPATO UN APPROCCIO PIU’ ‘CANTAUTORALE’, SE MI PASSI IL TERMINE UN PO’ ABUSATO…
– Il termine ‘cantautorale’ a volta si usa quando non si sa cosa dire di diverso, ma in realtà non sono solo i cantautori a scrivere bei testi, basta che uno abbia scavato abbastanza dentro di sé. Io ho scritto questi testi con la collaborazione di Gregor Ferretti, che è un amico, molto bravo, però la storia ce l’avevo. L’ho presa dai miei ricordi e da quello che avevo provato la prima volta che ho visto “Blade Runner”, negli Stati Uniti. Poi la lezione di De Andrè è stata che tu puoi scrivere bene se non sei retorico, se non ti metti lì con il ditino a voler insegnare a qualcuno, ma quando racconti delle tue emozioni. Per quest’album ci siamo resi conto di essere in un periodo molto particolare, sapevamo di dover uscire da questo tunnel, trovare una strada nuova, perché non possiamo vivere come stiamo facendo ora. Siamo su due mondi paralleli: uno è la Terra, l’altro è il mondo virtuale. Non potevamo immaginare che saremmo finiti in un mare di Giga, nell’arcipelago degli algoritmi. Già queste riflessioni possono diventare un testo di una canzone. De Andrè era un grandissimo poeta e aveva una capacità di scrittura enorme, perché aveva divorato tanti libri, e anche la parte musicale ce l’aveva ‘piena’, ma nessuno era riuscito a tirargliela fuori. In quel tour che abbiamo fatto, noi gli abbiamo fatto vedere come quella musica potesse essere estesa ed avere una scenografia armonica, musicale, di colori e di suoni, completamente diversa. Ecco quindi che “Il Pescatore”, un brano che era molto triste, adesso è diventato un brano esplosivo, con tutta la gente in coro che nei teatri canta ‘la la la la’ (canticchia il celebre tema della canzone, ndR). A posteriori posso dire che lui, invece, ci ha insegnato a leggere i testi in un altro modo e penso che in questo disco ci sia un lavoro testuale più importante che in tutti gli altri. Un cantautore però partirebbe dal testo per metterci poi le musiche, mentre noi partiamo sempre dalla musica e poi ci costruiamo su delle storie.

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