Jérome Reuter, mente pensante e unico membro ufficiale dei Rome, è sicuramente quello che possiamo definire un artista. Un musicista che va per la sua strada, che ha praticamente contribuito a definire un genere ai suoi esordi, che ha una band al suo fianco quasi per caso, più per soddisfare il desiderio del suo pubblico di vederlo suonare che per necessità espressiva. Ma che al tempo stesso scrive e registra musica per un impeto che potremmo definire inevitabile, per offrire spazio alle sue riflessioni, alle mille domande che affastellano la mente dell’uomo moderno, senza proporre risposte (alla faccia di chi, spesso, cerca di imbrigliarlo in categorie politiche ben precise).
Inevitabilmente una telefonata con lui non poteva che prendere una direzione ben diversa dalla pura disanima dell’ultimo, eccellente, disco; portandoci a discutere di arte, libertà espressiva, bellezza e società.
INIZIEREI CON ALCUNE DOMANDE SUL NUOVO DISCO, ANCHE SE SO CHE NON AMI SPIEGARE I SIGNIFICATI RACCHIUSI DIETRO IL TUO LAVORO. A COSA TI RIFERISCI CON IL TITOLO “LONE FURROW”?
– Il riferimento è al detto inglese “arare un solco solitario”, che significa fondamentalmente fare le tue cose secondo le tue regole, lavorare sulla tua visione individualmente, farlo lontano da altre persone perché credi davvero nel tuo lavoro e nella direzione che persegui. E forse stai combattendo anche per tutti gli altri, anche se hai un’ossessione molto solitaria. Ecco, questa è l’immagine che cerco di evocare con questo titolo, si lega a molte delle idee che vengono poi esposte nei brani.
CHE È POI LA STESSA IDEA SOTTESA AL TUO PROGETTO, IN QUALCHE MODO.
– Assolutamente sì. Questo vale fondamentalmente, in generale, per la vita di un artista.
“THE LONE FURROW” È UN DISCO PIENO DI COLLABORAZIONI, MI PIACEREBBE SAPERE COME SONO NATE, SE LE CANZONI ERANO GIÀ STATE COMPOSTE, O TI SEI MESSO PRIMA IN CONTATTO CON GLI OSPITI, COMPONENDO ASSIEME O CONDIVIDENDO IDEE.
– È dipeso da brano a brano. Con Nergal per esempio ho fatto prima in tempo a comparire io sul disco dei Me And That Man, mi era piaciuto molto il suo progetto e mi ha chiesto se volevo contribuire; gli ho detto, “sì, ma poi canti anche tu nel mio disco”. Così gli ho mandato “The Angry Cup”, che avevo scritto di fondo pensando a lui come voce. Non ero invece preparato a unirmi al suo progetto, quindi gli ho inviato il brano solo per vedere se ne usciva qualcosa su cui potevamo lavorare. La canzone gli è piaciuta così tanto che ne ha scritto una ispirata da essa, quindi i due brani si sono incrociati: gli ho mandato un brano, lui me ne ha mandato un altro, poi io ho scritto il testo del suo… è stato un modo molto naturale di lavorare insieme. Penso che siamo sulla stessa lunghezza d’onda quando si tratta di comporre cose. Penso che sappia quello che voglio, e io so cosa va bene per il suo stile. Anche io sono cresciuto con il punk e il metal, quindi conoscevo anche il suo mondo. Lavorare assieme è stato molto facile, ed è stata una coincidenza, in un certo senso. Ci siamo conosciuti anni e anni fa quando ero in tournée in Polonia, ma non abbiamo parlato molto fino a quando non sono tornato in contatto con lui due o tre anni fa.
Con Alan dei Primordial abbiamo sempre voluto fare qualcosa insieme e complice questa cosa con Nergal è successo. In generale ho pensato di chiedere a tutti questi musicisti con cui ero entrato in contatto o stato in tour e vedere se riuscivo a coinvolgere dei capelloni nel mio progetto! Anche con Alan ci conoscevamo da anni e anni prima di fare la canzone insieme, anche lui me l’aveva proposto, ma sono sempre stato un po’ riluttante ad avere ospiti. Non mi piacciono molte persone, ma loro sì. Alan è un vero amico da un pezzo, quindi ho pensato, “ok, non mi piace avere ospiti, ora li avrò tutti insieme e sarà forte”.
Poi c’è Laure degli Igorrr, con cui ci siamo incontrati in tour in qualche festival in Italia, penso due anni fa, in una specie di villa da qualche parte. È stato un festival divertente, abbiamo suonato con i GBH, come ti dicevo sono cresciuto con il punk rock e mi sono sempre piaciuti i GBH, è stato bello. E abbiamo anche finito per giocare a calcio con loro, perché accanto al backstage c’era questo campo, il che ha reso tutto ancora più particolare. Comunque, è lì che ho incontrato Laure e sono rimasto sbalordito dalla sua performance, abbiamo parlato dopo lo spettacolo e l’ho chiamata per collaborare. Siamo rimasti in contatto sporadicamente per diverso tempo, poi lei ha aggiunto la sua magia; ho avuto questo tipo di sensazione al riguardo. Penso che sia fantastica con lei alla voce, perché la canzone è in francese e è ovviamente lei è francese, ha fatto un ottimo lavoro incorporando anche lei alcuni testi nei cori.
Poi c’è Joseph dei Pallbearer, con cui siamo stati in contatto via e-mail sporadicamente per quattro anni, e l’ho infine invitato… Di chi mi sto dimenticando? Ah, sì: J.J. degli Harakiri. Abbiamo fatto un tour in Scandinavia, credo tre o quattro anni fa. Fondamentalmente da allora le nostre band escono assieme quando ci si incontra, o quando andiamo a suonare a Vienna. È una vera amicizia, quindi era una grande opportunità includerli nel disco; ribadisco, sono tutte amicizie, non è intervenuto il mio manager a contattare il loro, mi sono scambiato dei messaggi, ecco.
DECISAMENTE SI COGLIE CHE NON SI È TRATTATO DI UNA MOSSA MANAGERIALE: È TUTTO MOLTO SPONTANEO, E SUONA ALLA GRANDE.
– Grazie, confermo che non c’è stato nulla da programmare, a parte il piacere di avere degli ospiti. Ecco, magari potevamo registrare qualcosa in maniera più veloce.
VISTO CHE PARLIAMO DI UN LATO PIÙ ‘LUDICO’ DELLA TUA PRODUZIONE, SO CHE IN PASSATO AVEVI UNA BAND PUNK. COM’È AVVENUTO IL PASSAGGIO VERSO IL NEO FOLK?
– Avevo una band punk intorno ai quindici/sedici anni, ero un adolescente che ascoltava già musica molto diversa, ed ero già un fan di Nick Cave. O, per esempio, ho scoperto Leonard Cohen a dieci anni, anzi non l’ho scoperto: mio padre mi ha nutrito a canzoni di Cohen. E insomma, ero già vicino a un certo sound, ma ho dato il via a una band punk perché più adatta a una certa ‘urgenza’, era il linguaggio musicale che comprendevo e con cui pensavo di esprimermi meglio assieme ai miei amici. E ho sempre suonato con amici, per esempio il bassista del tempo suona adesso la batteria nei Rome. Per me è sempre stata importante l’amicizia, in musica, farsi due risate assieme, ancora prima della musica stessa. Non è necessario essere un mostro tecnico, per suonare, bensì divertirsi e creare rapporti forti. Con questo approccio, dopo l’esperienza punk ho formato un’altra band dallo stile più goth rock, che aveva influenze dai Sisters Of Mercy a Nick Cave, che penso abbia fatto un po’ da ponte verso i Rome e che in realtà ho formato perché ero stanco di essere in una band. Alla fine, c’era sempre qualcuno che mollava, che cambiava vita o non aveva più tempo per la band, mentre io sono una persona che si butta al 100% in quello che fa. Per me essere in un gruppo significa mangiare, dormire, respirare per esso, diventa la mia vita e tutto il resto va in secondo piano, anche se naturalmente so che di solito la vita non funziona così. Insomma, ero stanco di persone che non si dedicavano appieno, sebbene capisca che tutti dobbiamo pagare l’affitto e sopravvivere, e la musica è un business che ripaga molto poco.
Volevo fare qualcosa di mio, ma non avevo nessun piano o certezza che avrebbe funzionato; ed essendo da solo non pensavo di dare vita a una band, o che avrei mai suonato dal vivo; volevo occupare il mio tempo ed esprimere la mia creatività, ma alla fine ho una band che va in giro in tour ed è divertente pensare che doveva essere tutt’altro, giusto un progetto personale in studio, che avrebbe registrato qualche disco con un’etichetta a caso, senza nessuna dimensione pubblica.
E COMUNQUE A OGGI I ROME HANNO QUINDICI ANNI DI STORIA ALLE SPALLE: AVRESTI MAI DETTO CHE LA MUSICA SAREBBE STATA LA TUA VITA?
– All’inizio assolutamente no. No, no. Avevo anche pensato di lasciar perdere, rinunciato a fare progressi, e non parlo di soldi, ma dell’opportunità di lavorare sulle mie cose. È difficile essere un artista e sopravvivere, in termini economici, al giorno d’oggi; almeno per quelli come me. Ma la cosa veramente importante è poter tirare avanti abbastanza bene, se poi le tue canzoni non vanno in radio chi se ne frega. E poi non passo il tempo ininterrottamente in tour, quindi poter continuare a lavorare sul mio progetto è un sogno che si è realizzato, mi ritengo molto fortunato.
PERALTRO SEI VERAMENTE PROLIFICO. PUBBLICHI IN MEDIA UN DISCO ALL’ANNO E SUONI COMUNQUE FREQUENTEMENTE DAL VIVO. QUALE DEI DUE LATI DELLA VITA DA MUSICISTA PREFERISCI, E DA DOVE PENSI VENGA QUESTA PRODUTTIVITÀ? MAGARI DALLA LIBERTÀ CHE HAI ACQUISITO DI ESPRIMERE TE STESSO SENZA LIMITAZIONI?
– La libertà è l’elemento più importante, e risale agli albori di Rome. Avevo registrato un demo, l’ho inviato ad alcune etichette, e Roger della Cold Meat ha acconsentito a pagarmi lo studio di registrazione: fantastico, c’era qualcuno che pagava per me, potevo farcela! È così che ho registrato i primi quattro dischi in dodici mesi, anche se poi sono usciti nel giro di due anni, e tutto grazie al fatto che qualcuno abbia detto: “puoi farlo”. È una soddisfazione enorme poter lavorare su qualcosa di cui qualcuno si prende cura in termini di pubblicazione, però non è che mi forzo a pubblicare qualcosa ogni anno, dipende da quanto me la prendo comoda, o se sono in tour. Io, poi, non lavoro in termini di libertà creativa: assemblo idee, leggo molto, sfrutto il tempo per organizzare e preparare le cose che ho in mente, poi quando finisco un tour osservo, per così dire, quanto accumulato nei mesi e mi metto all’opera sulla musica. Non sono fasi separate, non penso, “ok, non sono in tour per un mese, allora appena torno lavoro sul disco, poi di nuovo via”. Mentre sono in giro mando magari dei mix grezzi al tecnico con cui lavoro in studio, oppure durante il soundcheck proviamo brani nuovi, sono due dimensioni che si incrociano costantemente. Certo, sotto un altro punto di vista, quando sei in tour è una vita completamente differente, rispetto ad essere seduto a casa a scrivere, ma il contrasto è fantastico, a me piacciono entrambe le dimensioni. Come persona ho bisogno di molto tempo da solo, lontano dal caos e dall’isteria generale, ma poi ogni tanto sento il richiamo della strada. Ho entrambe queste necessità.
COME DEFINIRESTI IL TUO RAPPORTO CON IL TUO ESSERE MUSICISTA? INTENDO ANCHE IN TERMINI DELL’ATTENZIONE CHE I TUOI FAN HANNO PER LE TEMATICHE DI CUI CANTI. HAI SICURAMENTE UNA FAMA LEGATA AI TUOI TESTI, ALLE COSE CHE ESPRIMI, ALLE DOMANDE CHE PONI, O MEGLIO SPINGI I TUOI ASCOLTATORI A PORSI.
– Sai, quando registro non penso a chi comprerà i miei dischi, al più, ovviamente, rifletto su come possa essere accolto qualcosa che esprimo. “Posso dire questo? L’etichetta stessa accetterà quest’altra cosa, o mi sto mettendo nei casini?” Ma è qualcosa che scatta più avanti: all’inizio scrivo di ciò che tocca la mia vita, delle mie necessità, delle cose con cui sto lottando, a livello personale o verso l’esterno; e il pensiero che mi tiene sveglio la notte è se le cose intorno a me andranno bene o male, non penso a nulla che sia fuori dalla mia testa. Certo, non trovo sbagliato porsi degli obiettivi, ma per quanto mi riguarda lavoro sulle mi cose, perseguo la mia curiosità. Amo leggere e frequentare persone selezionate, e questo feconda il mio interesse su certe tematiche, che cerco di investigare o a cui mi dedico.
Mi diverto molto a scavare in certe tematiche, e al tempo stesso sono conscio che è qualcosa di molto egoistico: sono molto fortunato, perché ci sono persone interessate a quello che faccio, ma se nessuno mi ascoltasse lo farei lo stesso. Sia perché è una necessità espressiva, sia perché mi dà molte soddisfazioni. Puoi prenderlo come un hobby, che certo per me è anche il mio lavoro, ma appunto è come se fosse una di quelle cose che fai per te stesso, nel tuo scantinato, nessuno ne sa niente. Il mio obiettivo è creare un corpus musicale, chiaramente sono un egomaniaco che vuole lasciare un segno, ma è in primis un gran divertimento.
COMPRENDO QUELLO CHE INTENDI: UNA FORTE DIMENSIONE PERSONALE, E UN’INTEGRITÀ ALTRETTANTO NETTA. DA QUESTO PUNTO DI VISTA, QUALCHE VOLTA TI CONFRONTI CON TEMATICHE E TESTI ALQUANTO CONTROVERSI. RITIENI CHE SIA UNA COMPONENTE INTRINSECA DELL’ARTE QUELLA PROVOCATORIA, O ANCHE IN QUESTO CASO È SEMPLICEMENTE UNA DIMENSIONE PERSONALE CHE ESPRIMI SUI TUOI DISCHI?
– Sono tutti temi che emergono e che, ovviamente, posso decidere se sia il caso di esprimere, se sia il caso di cantare di tematiche considerate tabù. Tutti gli artisti che ammiro nella storia hanno avuto una componente trasgressiva, si tratta sempre di spostare i limiti più avanti e di provare a dire quello che non si dovrebbe. Pensa al rock and roll delle origini, che di fondo parlava di sesso, anche se non lo esprimeva a parole, inventandosi testi per aggirare la censura. La trovo una cosa molto interessante, e anche se non sono rock nell’approccio, penso in una maniera rock o ancor più punk, o metal se preferisci, a livello spirituale. L’idea di una natura ribelle che infastidisce le masse è gratificante. E a parte questo, che si tratti di rock o di controcultura, la trasgressione è importante: non possiamo lasciare questo tema ai benpensanti, non siamo in chiesa. Dobbiamo creare cose sperimentali, che spostino un po’ più in là l’asticella e ci permettano di capire dove ci troviamo come società e di cosa possiamo o non possiamo discutere.
Io penso sia importante analizzare costantemente, e criticare, dato che si può criticare anche senza odio. Se ami qualcosa, diciamo il tuo paese, tua moglie, qualunque cosa, questo non significa non poterla criticare, anzi: è una critica che nasce dall’amore, è una speranza di miglioramento, non una volontà distruttiva. Con questo non voglio dire che l’arte debba sempre essere trasgressiva, anzi. Sono annoiato dall’arte moderna, in cui tutto si basa sullo scioccare e sull’astrazione; se guardi una scultura o un dipinto contemporaneo, si riducono a buona o cattiva decorazione, ma non sono arte; qualcuno mette della merda su uno sgabello e dice che è arte, ma non lo è. Manca proprio un pezzo.
Chiaramente in musica è più facile raggiungere quella dimensione, che definisco spirituale, o interattiva, sia che tu ascolti un brano dal vivo o a casa. È qualcosa che ti connette a un altro livello; non è qualcosa che offro al pubblico, quanto l’interazione tra me e questa sorta di bolla. E le persone a cui piace la mia musica in un certo senso mi incontrano in essa. Capisci? Non si tratta di me, del pubblico, è qualcos’altro, dove non si applicano necessariamente le regole della nostra società. È il regno della libertà, uno spazio indipendente dove evocare demoni e affrontare cose spaventose. È quella sensazione di quando da giovane ascolti per la prima volta un album degli Slayer, o come il mio ricordo di quando ho visto per la prima volta una foto di Lemmy in un booklet. Sarà stato il 1989, o giù di lì, ero un ragazzino, ma mi ricorderò sempre di come mi ha sconvolto. Aveva proprio l’aspetto di quello da cui tutti ti raccomandano di stare alla larga, e Lemmy aveva quest’aria sicura e convinta, da vero bastardo. Fa ridere, a ripensarci, ma la parte importante di questo ricordo è come la reazione fosse sbagliata, per così dire: c’è qualcosa che fa paura, dovresti scappare, e invece ti getti a capofitto, attratto morbosamente. Chi è questo tipo? Cosa fa? È una reazione che tutti conosciamo come primo approccio a certe band, ti spaventano ma ti attraggono al tempo stesso. Penso sia grandioso, perché in fondo chi ha bisogno di musica rassicurante? Facciamo già sesso sicuro, il cibo deve essere sano, e così via… io voglio stimoli, non ascoltare sempre la stessa cosa, confortante, “amiamoci tutti”: con me non funziona, voglio qualcosa che oltrepassi i limiti.
QUANTO IMPORTANTE RITIENI LA DIMENSIONE SPIRITUALE NELLA TUA VITA E NELLA TUA MUSICA? IN FONDO ANCHE QUELLO CHE MI HAI APPENA DETTO RACCHIUDE UNA SPICCATA SPIRITUALITÀ.
– Sono cresciuto da ateo, quindi per me qualsiasi cosa legata alle religioni organizzate è un cancro. Ma al tempo stesso rispetto le altre persone, riguardo a questo tema. Chiunque è libero di entrare in convento o simile, va benissimo, ci sono un sacco di cose da capire là fuori se si resta di mente aperta. Io, per esempio, ho scoperto una dimensione spirituale in diversi frangenti, negli ultimi anni. È iniziato viaggiando in Vietnam e innamorandomi del Paese, poi ho approfondito lo studio del buddismo, ho passato diverso tempo nei templi e ho scritto e registrato dei frammenti di preghiere. È una cosa che mi ha aperto porte nuove, perché non ne potevo più del mondo moderno, dei nostri ritmi frenetici, avevo bisogno di trovare una dimensione più calma. Le filosofie orientali sono un buon passaggio per noi occidentali per imparare a rallentare: “respira, cazzo!”, capisci cosa intendo? Non ha direttamente a che fare con la spiritualità, il che è triste, perché anche se non parlo di questo, penso sia una dimensione di cui abbiamo bisogno. Non parlo di pregare cinque volte al giorno, o dei rituali cristiani, intendo avere una propria dimensione spirituale personale. Prega col tuo gatto, se ti va, di certo c’è una dimensione che abbiamo completamente tagliato fuori dalle nostre vite e che dovremmo coltivare; l’arte è un modo in cui ci concediamo interazioni di questo tipo. Ribadisco, sto scoprendo questo lato ma non parlo di dio o nulla del genere, solo di come lo spirito umano abbia molto di più da offrire rispetto a quanto pensiamo.
MI VIENE SPONTANEA UNA DOMANDA, A QUESTO PUNTO. QUANDO ERAVAMO PIÙ GIOVANI C’ERANO BAND COME SWANS, DEATH IN JUNE, LO STESSO NICK CAVE CHE GIÀ CITAVI, CHE IN QUALCHE MODO METTEVANO A NUDO UNA DIMENSIONE SPIRITUALE. OGGI CI SONO SEMPRE PIÙ BAND CON UN APPROCCIO DI QUESTO TIPO. PENSI CHE SI POSSA LEGGERE COME UNA RISPOSTA A UNA SOCIETÀ SEMPRE PIÙ MATERIALISTICA E DISTACCATA?
– Penso di sì, o almeno se penso a me stesso, visto che probabilmente sono l’unica persona che conosco bene, o almeno in parte, e non mi piace giudicare gli altri. Di certo, per quanto mi riguarda, mi interessano le cose che non ho nella mia vita. Quindi, se la tua vita manca di spiritualità, ti interessi di arte, o ti appassioni di letteratura, e cerchi di incorporare certi elementi nella tua vita. In qualche modo torniamo a quello che ti dicevo sul mio lavoro con i Rome: si tratta di soddisfare la mia curiosità.
Penso che se tutto intorno a te ha un valore, nel senso che è utile in un senso capitalista, allora inizi a desiderare cose completamente ‘inutili’. È un concetto fondamentale, perché la Bellezza è importante nella nostra vita. Se non ti circondi di cose, eventi o persone belle, la vita diventa miserabile: chi ha bisogno solo di cose utili? Se ci pensi, anche gli amici hanno difetti, o non puoi farci affidamento sempre e per ogni cosa, ma a un certo punto della vita hai deciso che li volevi come parte della tua vita, senza che fossero necessariamente utili o perfetti. In architettura, gli edifici che ci colpiscono hanno balconi o altri dettagli che non sono necessari, ma li rendono belli. È la differenza tra forma e funzione. Il mondo moderno conosce l’importanza della funzione, ma se guardi all’architettura degli ultimi 30-50 anni, a parte alcuni edifici strepitosi, è come dico; pensa agli edifici per uffici: bisogna riflettere sulla domanda di prima sull’arte perché altrimenti hai edifici vuoti, sordi, senza espressione artistica o personale, dove nessuno desidera stare.
L’ULTIMA DOMANDA È QUESTA: VIENI DAL LUSSEMBURGO, IL NOME DELLA TUA BAND SI RIFÀ A ROMA E ALL’IMPERO, CANTI PREVALENTEMENTE IN INGLESE, E I TUOI BRANI TRATTANO SPESSO DELLA DECADENZA DELLA NOSTRA SOCIETÀ, CON PROFONDITÀ E SPAZIO PER L’INTERPRETAZIONE. TI DEFINIRESTI, IN QUESTO, UN PERFETTO EUROPEO? È UN CONCETTO IN CUI CREDI?
– Sono in conflitto a riguardo, dico rispetto a questo concetto di Europa. Voglio dire, chiunque conosca i Rome sa che quest’idea, a livello concettuale o come temi lirici, è sempre presente nella mia produzione. Io vengo dal Lussemburgo, che è un paese minuscolo, quindi la stessa idea di nazione è particolare; se abiti in un posto piccolissimo, per dire, non temi che venga invaso: cerchi di andare d’accordo coi tuoi vicini, parli la loro stessa lingua e così via. Io poi ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che ha sempre viaggiato molto, mio padre faceva il regista teatrale, seguendo part time compagnie giovanili e cose del genere, quindi abbiamo girato in tutta Europa. Quando è crollato il muro di Berlino e con esso la Cortina di Ferro, andando in paesi come Lituania, Polonia, beh, capivi già allora che era un momento particolare, e che era un’esperienza vedere la vita laggiù.
E oggi, a trent’anni di distanza, vedi come l’Unione Europea abbia preso forma, o non abbia preso forma. Le diverse esperienze delle persone, in tutti questi paesi diversi. È qualcosa che mi ha sempre interessato, e non è che abbia risposte o alcuna visione politica precisa, però vedo tutto ciò come materiale su cui scrivere. È una sensazione quasi liberatoria, e al tempo stesso è possibile che venga eretto un nuovo muro, o che le cose vadano a meraviglia. Ribadisco, non ho nessuna opinione precisa, ma di certo questo continente così vibrante e mostruoso è per me una costante fonte di ispirazione. Oltre a non saper definire determinate situazioni, non voglio nemmeno avere risposte: forse non potrei più scrivere, a quel punto, o forse non voglio realmente sapere chi sono. È quella parte del lavoro che non conosci pienamente, ma ti piace così, vai avanti per la tua strada, ari il tuo solco solitario, appunto, e procedi con quelli che ti trovi davanti. Però, ovviamente, resti interessato al bagaglio che ti porti dietro, ne hai consapevolezza. Mi piace molto il concetto di tradizione, il modo in cui, quando scrivo, penso di dover lavorare al mio meglio, pensando a tutti gli artisti europei che mi hanno preceduto; se scrivo una poesia o qualcos’altro, beh cazzo, prima di me c’è stato Lorca e altri ottimi scrittori, per cui bisogna fare del proprio meglio, rispettare questa eredità. Questo è l’approccio con cui lavoro ogni giorno, siamo tutti radicati in questo continente, in qualche modo, e dobbiamo trovare la nostra strada. Anche senza necessità di darci delle risposte.